1.
Nato ad Assisi nel 1926, Giuliano Procacci si è formato nel primo dopoguerra come storico dell’età moderna, alla scuola fiorentina di Carlo Morandi. Proseguì i suoi studi a Parigi, dove si confrontò in modo critico con gli studiosi del gruppo delle Annales. Insegnò poi al Liceo classico “Michelangelo” di Firenze e fu professore di storia moderna e di storia contemporanea nelle Università di Cagliari, di Firenze e di Roma “La Sapienza”. Fece parte della vivace generazione di storici di orientamento marxista che, negli anni Cinquanta e Sessanta, ispirarono l’attività della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e della rivista dell’Istituto Gramsci, “Studi storici”, agendo nel senso del rinnovamento e dell’apertura di nuovi orizzonti alla storiografia italiana moderna e contemporanea. Nel febbraio 2002 la Facoltà di Filosofia de “La Sapienza” lo proclamò Professore emerito. Senatore nella IX Legislatura, nel settembre 2003 è stato insignito dal Presidente Carlo Azelio Ciampi dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”.
Procacci ha affrontato nodi decisivi della storia europea e italiana, dall’opera prima (di cui egli stesso si disse in seguito insoddisfatto, per le sue distorsioni di carattere “ideologico”) sulle Classi sociali e monarchia assoluta in Francia (1956), ai fondamentali Studi sulla fortuna di Machiavelli (1965, poi 1995 per la nuova edizione ampliata e aggiornata, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna): un modello di storia del pensiero politico e di indagine filologica, idealmente collocato in un orizzonte di passione civile, dal quale il grande fiorentino emerge come un classico del pensiero da un lato per il suo metodo di indagine “fondato sulla combinazione tra osservazione e strumentazione concettuale” e per la sua “antropologia integralmente laica e sconsolatamente nuova”, e dall’altro per la sua intuizione della necessità della costruzione di uno Stato nazionale nella Penisola. Una passione civile che sarebbe poi sfociata nell’opera che ha costituito una sintesi della sua visione di storico dell’Italia (per dirla con Marc Bloch, un’idea della storia come “scienza degli uomini nel tempo”): la Storia degli italiani (1968), tradotta in una ventina di lingue e molte volte ristampata, più recentemente con una postfazione dello stesso autore (1991). Con sensibilità inconfondibilmente gramsciana, Procacci vi faceva propria la prospettiva di una possibile composizione futura di antiche contraddizioni e mali nazionali. Con La lotta di classe in Italia all’inizio del XX secolo (1970), Procacci dette un contributo al rinnovamento degli studi sulla storia delle origini del movimento operaio e socialista. La sua ricerca era rivolta a inserire la genesi del movimento operaio italiano nella vicenda della società nazionale, come parte organica e moderna di essa, rigettando ogni angusto approccio classista.
Autore di saggi pionieristici sulla storia della Seconda e della Terza Internazionale, egli si distinse per la sua apertura agli studi sull’Unione Sovietica, apparentemente eccentrica e sicuramente audace non solo per un intellettuale appartenente al Partito comunista italiano ma anche per uno storico italiano di formazione modernista. Curò l’edizione italiana del dibattito su La rivoluzione permanente e il socialismo in un paese solo (1963). Ne Il partito nell’Unione Sovietica (1974) realizzò una contaminazione di ricerca storica e riflessione sociologica, il cui intento era di contribuire a inserire il dibattito storico e politico italiano sull’Unione Sovietica in un contesto di studi più ampio e internazionale. Vi veniva ricostruita la genesi del regime staliniano dall’opera stessa di Lenin e della rivoluzione bolscevica, in una successiva stratificazione di elementi politici, ideologici e istituzionali che culminano in una forma di “bonapartismo” e in un patriottismo sovietico di stampo russo tradizionale.
Seguì la messe di studi sulle diverse concezioni internazionaliste e sui movimenti contro la guerra nello scorso secolo (Il socialismo internazionale e la guerra d’Etiopia, 1978; La “lotta per la pace” nel socialismo internazionale alla vigilia della seconda guerra mondiale, 1981; Dalla parte dell’Etiopia, 1984; La coesistenza pacifica. Appunti per la storia di un concetto, 1988; Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, 1989). Un’indagine così ampia e continua era intesa a saggiare idee e intraprese politiche sulla pietra di paragone della loro adeguatezza al fine della prevenzione dei conflitti armati e di un’efficace organizzazione della pace. Tali erano le questioni che, negli anni della distensione e della crisi del bipolarismo, egli pose al centro della propria tensione etico-politica e della propria riflessione sulla storia del secolo, alla ricerca delle radici di un possibile, autentico internazionalismo.
Quella stagione ha costituito la base intellettuale per dare corpo, una volta terminata la guerra fredda e crollata l’Unione sovietica, all’esigenza di una storia veramente planetaria. La sua Storia del XX secolo (2000) può essere definita come una “storia dell’interdipendenza” del mondo contemporaneo, nella quale le molte luci e le molte ombre della vicenda del secolo scorso si rifrangono e si intrecciano in proporzione mutevole nella storia dei singoli paesi e movimenti politici. Vi si avverte il rifiuto di una visione unilaterale, semplicistica e liquidazionista della storia del XX secolo come un’epoca di “enigmi” inspiegabili e di oppressione e distruzione: un’opinione che Procacci ha difeso a suo tempo in un franco e ravvicinato confronto con Francois Furet (Controverso Novecento, 1995).
Negli ultimi anni la sua curiosità intellettuale tornò ad appuntarsi sul tema dello Stato nazionale, ma nella cornice di un mondo, ormai, interdipendente e globalizzato. Egli prese in esame le forme nelle quali, a cavallo del millennio, in un certo numero di paesi ritenuti significativi (non escluso il nostro: si veda la sua Disfida di Barletta, 2001; e la sua Nota introduttiva ad uno scritto di tema risorgimentale di un suo illustre avo per parte materna, generale del Regio esercito Eugenio Titolivio Probati), la storia viene sollecitata – e talora, brutalmente forzata – a servire il fine di una manipolazione delle identità storico-nazionali sulla base di “nazionalismi, revisionismi, fondamentalismi” di vario genere , nel tentativo di difendere vecchi e nuovi particolarismi dall’attuale processo di gestazione di una storia, ormai, inevitabilmente mondiale. Procacci ci rammentava, così, l’opportunità che gli storici di professione si impegnino a preservare la natura scientifica e la funzione civilmente chiarificatrice e costruttiva della loro disciplina (La memoria controversa, 2003; Carte d’identità, 2005).
Francesco Benvenuti, Sergio Bertolissi, Roberto Gualtieri, Silvio Pons
*******************
2. Molti anni fa, in occasione della scomparsa di un suo valente collega e amico, in ricordo del quale egli stesso pronunciò un’orazione funebre, Procacci mise in guardia un gruppo di allievi che lo attorniava dall’intento di commemorarlo in modo analogo in discorsi e scritti d’occasione, quando fosse arrivato il suo momento. Pensai, allora, che egli improvvisamente avvertisse il timore delle deformazioni che avrebbero potuto essere inconsapevolmente portate al significato del suo variegato e originale itinerario di storico, nel tentativo di darne una sintesi: magari scoprendo in esso, a posteriori, un’organicità e una sistematicità estranea al suo pensiero. Procacci aveva, credo, un programma, ma in costante evoluzione, sotto lo stimolo di quella che egli considerava una delle maggiori doti degli storici: la curiosità, che prospetta sempre nuove strade per arrivare al cuore di un numero anche limitato di grandi questioni. Per questo vorrei iniziare, oggi, con un invito a rileggere, o leggere, ameno i suoi principali lavori, quale mezzo migliore per comprendere i veri snodi della sua lunga ricerca . Come molti qui sanno, si tratta di un’impresa impegnativa ma non difficile. Lui, che invitava i suoi allievi a lavare i loro panni nel linguaggio e nel fraseggiare cristallini di Voltaire, si era costruito un modo di esprimersi che non solo non faceva ostacolo alla comprensione del contenuto della sua ricerca ma, anzi, la facilitava e la incoraggiava: non solo grazie alla capacità di scolpire definizioni sobrie e ed efficaci, ma anche ad un’affabilità e ad un’eleganza, direi, profondamente democratiche, nutrite dall’idea che la Storia è di tutti e che non sono gli storici ad esserne i protagonisti.
Come arrivò, Procacci, a dedicare tanta parte del suo lavoro alla storia internazionale del ‘900? A chi scorra la cronologia della sua opera non sfuggiranno i suoi scritti sulla storia del socialismo internazionale e della socialdemocrazia tedesca, già alla fine degli anni ’50; e l’affacciarsi, nei primi anni del decennio successivo di un interesse per i dibattiti in seno al bolscevismo negli anni ’20; poi, dal 1971 al 1974, la catalisi di un tale interesse in una direzione assai originale per la cultura storiografica europea del tempo, quella dello studio della struttura organizzativa del partito sovietico. La matrice intellettuale di un tale lavoro può essere definita come un luogo geometrico di diversi e significativi motivi di ispirazione. C’era il Gramsci della lettera a Togliatti del 1926, che lo invitava a resistere alla pressione in favore di una condanna di Trotskii; c’erano le parole di Togliatti dell’intervista a Nuovi argomenti, del 1956, che a distanza di un trentennio riconoscevano implicitamente la ragione di Gramsci e denunciavano la “degenerazione” della vita interna del partito bolscevico alla metà degli anni ’20; c’era l’audace tentativo di uno storico italiano formatosi alle scuole di Morandi, Chabod e Croce di contaminare la professione con il modulo disciplinare anglosassone di sociologia delle organizzazioni. C’era, infine, il senso, ancora una volta squisitamente gramsciano, del ruolo cruciale della sovrastruttura nelle società umane. In seguito cambiò ancora: a fine decennio dà inizio al lungo ciclo di studi sul problema della prevenzione di una nuova guerra nel periodo tra i due conflitti mondiali, a partire dalle reazioni del socialismo internazionale all’aggressione italiana all’Etiopia. Il ciclo culmina dieci anni dopo nella ricerca attorno alle personalità politico-intellettuali dei vincitori dei Premi Nobel per la Pace e alle motivazioni ufficiali per l’attribuzione del premio. Procacci confermava, così, il proprio peculiare profilo di storico marxista, volgendosi ad un tema che esulava vistosamente dalle preoccupazioni del marxismo classico. Si giunge, infine, al suo balzo intellettuale inteso a comprendere l’intera Storia del XX secolo (2000), il volume al quale usava riferirsi, con caratteristica modesta, come a “il manuale”. In realtà, un manuale propriamente detto, per le scuole superiori, lo aveva scritto tanto tempo prima, assieme a B.Farolfi. Il suo nuovo lavoro era, piuttosto, un ampio saggio sulla storia del secolo, nella quale l’accumulo e l’ordinamento di un grande numero di dati stava in magistrale equilibrio con una nuova riflessione sulle conclusioni alle quali era pervenuto nel corso delle sue precedenti ricerche di carattere internazionale e con nuovissime considerazioni attorno alle vicende di un gran numero di paesi e ai fenomeni transnazionali che sono venuti sempre più influenzando la dinamica complessiva della storia mondiale nell’ultimo quarto del ‘900. Alla concezione di quest’opera ha probabilmente contribuito l’ammirazione che Procacci nutriva per i volumi di storia mondiale di E.Hobsbawm (con l’eccezione del volume – oggi, forse, più noto – sul Secolo breve, le sue riserve sul quale Procacci ha implicitamente spiegato proprio nella sua Storia del XX secolo ed in modo esplicito, altrove). Colpiscono in particolare, in questa sua opera generale, la sicura rivalutazione delle esperienze riformiste, cioè, fattivamente riformatrici, compiute da alcuni importanti reparti della socialdemocrazia europea (nella Repubblica di Weimar e nel Regno Unito, al tempo della Grande depressione); la valorizzazione del contributo della stabilità politica al boom europeo del secondo dopoguerra; al passaggio dalla politica economica della sostituzione delle importazioni a quello delle esportazioni manifatturiere in parecchi paesi post-coloniali; e infine, il suo costante e persuasivo tentativo di ritrovare il segno sicuro del progresso umano anche in un secolo terribile come il ‘900 e la sua fiducia che l’esperienza fatta nel suo corso dall’umanità le avrebbe insegnato qualcosa per rendere il cammino del progresso più lineare nel secolo XXI.
Certo, le sorgenti della “curiosità” di Procacci per la storia internazionale sono state molteplici. Come non poteva, prima o poi, orientarsi in questo senso uno storico contemporaneista, oltre che modernista, che a suo tempo aveva riflettuto in profondità sugli archetipi del concetto di “globalizzazione”, rinvenibili nelle opere di Marx e di Lenin; che ha a lungo nutrito ammirazione per il modo in cui F.D.Roosevelt portò gli Stati Uniti fuori dell’isolazionismo e li preparò a nuove responsabilità planetarie, in un misto di utopia e di realismo; che da buon osservatore politico vide nei “realistici” W.Brandt e R.Nixon i portatori non solo della Distensione ma anche di una nuova politica mondiale necessariamente multipolare. Uno storico che si fece scrupolo, in due successivi momenti della sua vita, di imparare il cinese (impresa dinanzi alla quale ritenne, a un certo punto, di doversi arrendere…) e l’arabo (nella quale, invece, riuscì).
Ma alle basi per l’apparizione di Procacci nel campo della storia internazionale contemporanea devono essere riconosciute, probabilmente, radici intellettualmente più profonde e meno legate all’attualità politica. Mi riferisco alla sua Storia degli italiani (1968) e all’dea, in questo libro ripetutamente espressa, che lo stato di divisone politica dell’Italia in epoca tardo-medievale e rinascimentale fosse spiegabile solo nel quadro dell’Europa del tempo: là, le monarchie assolute e poi nazionali; al di qua delle Alpi, invece, la frammentazione indotta dal gioco delle sfere d’influenza degli Stati europei e il “cosmopolitismo” (la definizione, come è noto è di Gramsci) delle sue classi commerciale e intellettuale. Forse, è in questa idea che si deve ricercare il senso di un fenomeno dell’”interdipendenza” ante litteram (termine che egli preferiva a quello di “globalizzazione”). Ciò spiegherebbe la convinzione con la quale Procacci fece di un tale concetto il principale strumento di comprensione della storia contemporanea, prima che esso diventasse senso comune. Credo, anche, sia stata proprio la fondamentale presenza del concetto di interdipendenza nel “nuovo modo di pensare” a spingere Procacci a salutare con sollievo il tentativo di Gorbachev di revisionare in modo radicale il marxismo novecentesco.
Data la formazione sia intellettuale, che politica di Procacci, a metà degli anni ’70 egli concepì l’idea di una ricerca storica comparata del contributo dato dal movimento comunista internazionale alla soluzione del problema della pace, da lui riconosciuto come cartina di tornasole per un giudizio di congruità sulle posizioni politiche emerse durante il secolo, presso teste pensanti e movimenti politici diversi, nel suo rapporto con altri grandi problemi dell’umanità contemporanea. Di qui finì per arrivare alla storia del Premio Nobel per la Pace, un tema scelto come pietra di paragone perché esprimente, di volta in volta, lo standard dell’opinione internazionale su di una questione cruciale del XX secolo, che egli dimostrò essere stata paradigmatica, dal punto di vista ideale e politico.La scelta di studiare il problema della pace presenta anche importanti implicazioni. In particolare,invece di intraprendere una ricostruzione di tipo interno della storia della III Internazionale, di cui temeva il pericolo dell’autoreferenzialità, scelse di occuparsi del comunismo internazionale essenzialmente attraverso l’esame della prova che esso dette di sé di fronte alla questione della pace e della prevenzione della guerra. Il suo giudizio su di una tale prova è scrupolosamente equanime ma severo E tale, nel suo successivo, cosiddetto “manuale” suona anche il giudizio sul contributo più ampio dato dal comunismo sovietico al progresso umano. Queste le sue parole sull’esito della “rivoluzione dall’alto” di Stalin:
(Quella sovietica) non era infatti una società capitalista, ma non era neppure certamente, come invece si proclamava, una società socialista. Comunque la si giudicasse, essa però esisteva e questo per amici e per nemici era l’essenziale.
Ciò che, evidentemente, equivale a dire che l’importanza dell’esperienza sovietica consisteva nella funzione di stimolo e di appoggio obiettivo che essa offrì, a suo tempo, alle forze del cambiamento, del progresso e della democrazia nel mondo (dall’Italia, all’India; in campo socialista e aldifuori di esso), non certo nel carattere esemplare degli ordinamenti che essa produsse in URSS. Avviandosi a concludere la sua carriera scientifica, la sua mente prese una direzione che non può non apparire, credo, ancora una volta significativa. Apparentemente compiacendo un’inclinazione della storiografia attuale in favore dello studio dello scivoloso terreno della “memoria” (qualcosa che, come è noto, può confliggere acutamente con la storia professionale), egli ha cercato di costruire una ferma base di ricerca e di riflessione scegliendo lo studio dei manuali scolastici di storia adottati in un gran numero di paesi. Dando fuori in rapida successione La memoria controversa e Carte d’Identità Procacci ha dimostrato ancora una volta la propria curiosità e la capacità di contribuire a rimettere sui binari di una riflessione filologicamente fondata e civilmente impegnata il tema dell’acutizzazione delle sensibilità nazionali in tempi di “globalizzazione” accelerata, disvelando le discutibili guise in cui le ossessioni identitarie della nostra epoca (stranamente, interdipendente ma al tempo stesso post-universalistica) possono incarnarsi nel discorso storico ufficiale degli Stati e fare ostacolo a una vera storia mondiale che raccordi in modo scientificamente appropriato le singole vicende nazionali dell’umanità nella ricostruzione delle fondamenta di una cittadinanza mondiale, contro i particolarismi etnici e religiosi che infestano, oggi, il pianeta e che ostacolano l’avvicinamento delle forze del progresso nel nostro tempo. Significativo anche il suo ultimo saggio sulla questione della lingua in India, Cina e altri paesi, dove si mostra il rapporto tra grandi questioni nazionali e sociali e la più importante “sovrastruttura” culturale delle comunità umane. Questo approdo di ricerca e di riflessione definisce definitivamente, penso, il profilo di uno storico nel solco del pensiero originale di Gramsci ma anche, a sua volta, originalmente gramsciano.
Francesco Benvenuti