Anno di pubblicazione: 2001
Il filo rosso che lega i diversi saggi di questo volume è una riflessione nuova sulla storia del Pci volta a superare l’antitesi tra autonomia ed eteronomia che ha caratterizzato sia la tradizione comunista, sia gli storici e i pubblicisti che dopo il 1989 hanno promosso un recupero in chiave politico-ideologica della teoria del totalitarismo. Richiamandosi alla ricerca di Franco De Felice, i diversi autori propongono una rilettura della storia del Pci e dell’Italia repubblicana alla luce del nesso tra politica interna e politica internazionale e dei vincoli che ne derivarono per tutti i principali protagonisti. Nello stesso tempo, al primato dell’ideologia si intende sostituire una trama analitica più complessa incentrata sul rapporto tra Pci e società italiana e sulla funzione da esso svolta del 1945 sino al suo scioglimento, senza che ciò comporti una sottovalutazione della centralità del legame con l’Urss nell’intera storia del partito. Questo aspetto è trattato tuttavia dal punto di vista dei condizionamenti che ne derivarono sulla cultura politica del Pci, sul senso di appartenenza al movimento comunista internazionale, sulla mentalità dei quadri e dei militanti, sui ritardi analitici riguardo ai processi di trasformazione della società italiana. Tali questioni rischiano di apparire persino onnicomprensive nei contributi, pur ricchi di spunti analitici, sia di S. Pons e di R. Gualtieri, sia di G. Gozzini, in cui peraltro affiora una lettura semplificata del pensiero di Gramsci e un uso della categoria dell’?integrazione negativa? che difficilmente si attaglia al costante impegno del Pci nelle istituzioni (dal Parlamento alle amministrazioni locali) e sul piano dell’allargamento dei diritti di cittadinanza. Si tratta, come rilevano L. Baldissara e C. Spagnolo, di problematiche essenziali per comprendere il contributo del Pci alla costruzione della democrazia repubblicana, all’educazione politica e all’integrazione nel nuovo Stato delle classi subalterne, nonché la grande forza di attrazione esercitata sulla cultura e sull’intellettualità progressista. Senza identificarsi con la tesi di D. Sassoon (che suggerisce un sostanziale parallelismo con le grandi socialdemocrazie europee) si può concordare con A. Agosti quando nota che nel contesto italiano, privo di una radicata tradizione socialdemocratica, attraversato da storici squilibri e segnato dal ricorrente sovversivismo delle élites dirigenti, proprio il Pci seppe colmare quel vuoto di rappresentanza delle classi popolari che aveva condizionato l’intera storia dell’Italia liberale. Altrettanto condivisibile appare il rilievo, comune anche a S. Gundle e a E. Taviani, secondo cui l’incapacità di rinnovare la propria cultura politica avrebbe generato, a partire dagli anni ’70, il declino inarrestabile del comunismo italiano.