La formazione degli Stati Uniti, Bologna: Il Mulino, 2003, pp. 259;
ll secolo degli Stati Uniti, Bologna: Il Mulino, 2008, pp. 347
ELISABETTA BINI: I volumi di Arnaldo Testi offrono un quadro ricco e sfaccettato della storia degli Stati Uniti dalla metà del Settecento ad oggi. I libri non sono solo ben scritti e appassionanti, incorporando e semplificando per i non esperti i più recenti dibattiti dell’americanistica, ma forniscono una serie di stimoli per ripensare la storia americana nel suo insieme. Due questioni mi sembrano particolarmente importanti, sia nell’analisi di Testi che, più in generale, nelle discussioni storiografiche sugli Stati Uniti: da un lato, l’intreccio tra la storia nazionale e quella transnazionale, e il rapporto tra l’impero americano e il colonialismo europeo, tra la potenza americana e il resto del mondo; dall’altro, la differenziazione interna degli Stati Uniti lungo le linee di classe, razza, etnia, genere e sessualità, che rende l’esperienza americana per molti versi peculiare rispetto a quella di altri paesi, in particolare di quelli europei.
Uno dei maggiori pregi dei volumi è quello di evidenziare il nesso, lungo tutta la storia degli Stati Uniti, tra la dimensione nazionale e quella prima coloniale, poi imperiale, del paese. Testi colloca gli Stati Uniti all’interno di un contesto globale, caratterizzato dalla formazione, trasformazione e, infine, dal disfacimento degli imperi europei, e dall’emergere degli Stati Uniti come potenza mondiale. Testi incorpora una serie di ricerche storiografiche provenienti dalla Atlantic history, mettendo in relazione la storia delle colonie americane, e poi degli Stati Uniti, con quella, ben più ampia, dell’economia e della società atlantiche. L’autore evidenzia dunque la dinamicità del rapporto tra i vari imperi coloniali, e la centralità delle Americhe nella costruzione di un’economia triangolare fondata sul commercio degli schiavi africani, l’esportazione di prodotti agricoli dalle colonie americane verso l’Europa, e di prodotti finiti dall’Inghilterra verso l’Africa e le Americhe. L’originalità dei volumi risiede soprattutto nella capacità di restituire la varietà e complessità degli attori sociali coinvolti nell’economia atlantica, attraverso l’interazione della “storia di tre popoli”: i coloni, i neri e gli indiani.
I volumi sottolineano l’importanza delle differenze sociali esistenti tra i coloni, del loro diverso posizionamento nell’interno dell’economia atlantica e quindi la varietà e complessità delle loro interpretazioni sia del rapporto con la metropoli che dell’indipendenza degli Stati Uniti. La ricchezza di questo approccio emerge, in particolare, nell’analisi delle guerre contro i nativi americani e della schiavitù, due fenomeni che Testi giustamente riconosce come peculiari della storia degli Stati Uniti o, almeno, delle Americhe. In entrambi i casi, l’autore evita un’interpretazione vittimizzante degli schiavi neri e degli indiani, e sottolinea le differenze esistenti all’interno dei due gruppi, così come le forme di resistenza nei confronti dei colonizzatori. Il quadro che emerge è assai ricco, e illustra le forme di commercio perseguite dai nativi americani con gli europei, la costruzione da parte degli schiavi di spazi culturali e sociali autonomi rispetto alle forme di oppressione esercitate dai bianchi, e l’influenza della rivolta degli schiavi di Haiti nell’ispirare le rivolte degli schiavi neri negli Stati Uniti, evidenziando così la dimensione transnazionale della diaspora nera.
L’enfasi sulla peculiarità della storia americana emerge con particolare chiarezza nell’analisi sulla costruzione della nazione e l’espansionismo imperiale lungo l’intero arco dell’800. Pur non utilizzando il termine “colonialismo interno”, Testi evidenzia il carattere coloniale delle politiche adottate dagli Stati Uniti nei confronti di neri e indiani. La novità della sua interpretazione risiede nella ricostruzione dell’intreccio tra consolidamento dell’unità nazionale e adozione di una politica imperiale. Secondo l’A. alla fine dell’800 gli Stati Uniti sostituirono l’annessione di territori esterni agli Stati Uniti (come avvenne nel 1898 con la guerra contro la Spagna) alla conquista dell’Ovest e alla sottomissione degli indiani e messicani. In entrambi i casi, giustificarono la conquista in nome di una superiorità razziale dei maschi bianchi anglosassoni nei confronti di popolazioni ritenute inferiori dal punto di vista razziale e bisognose di essere civilizzate. L’approccio che unisce la dimensione nazionale e quella imperiale mi sembra particolarmente stimolante, come dimostrano altri recenti studi che vedono nella frontiera americana un laboratorio per la costruzione delle politiche imperiali americane.
L’adozione di una visione transnazionale e comparata, permette a Testi di evidenziare costantemente le differenze e somiglianze tra l’imperialismo americano e quello europeo. Se alcuni dei caratteri delle politiche imperiali americane furono per molti versi simili a quelli delle potenze europee, gli Stati Uniti si distinsero, a partire dai primi del ‘900, per la loro volontà di promuovere un internazionalismo liberista e democratico. Mentre l’analisi che Testi offre del periodo tra le due guerre è assai convincente, la sua interpretazione del ruolo internazionale assunto dagli Stati Uniti durante la guerra fredda si limita prevalentemente all’Europa occidentale e al Giappone. Se questi costituirono i teatri fondamentali dell’intervento americano, è anche vero che gli Stati Uniti si inserirono nel processo di decolonizzazione degli imperi europei, proponendosi come un modello di sviluppo economico e sociale alternativo a quello dei paesi ex coloniali e, soprattutto, dell’Unione Sovietica. L’analisi della diplomazia anticoloniale degli Stati Uniti, e dell’esportazione di politiche di modernizzazione in Asia e Africa avrebbe permesso a Testi di mantenere intatta, anche per il secondo dopoguerra, la sua analisi del nesso tra nazione e impero, tra impero americano e colonialismo europeo. Allo stesso modo, sarebbe stato interessante sottolineare maggiormente l’influenza che i movimenti anticoloniali ebbero sul movimento per i diritti civili e sull’attivismo politico afro-americano.
I volumi analizzano il rapporto tra la dimensione nazionale e quella imperiale degli Stati Uniti anche in un altro senso, mostrando come l’espansione territoriale ed economica prima a livello continentale, poi internazionale, sia andata di pari passo con l’introduzione di politiche riformiste all’interno del paese, e abbia rappresentato, almeno in parte, una risposta all’emergere di quella che l’autore definisce la “questione sociale”. Testi offre un’analisi ricca e dettagliata dell’affermarsi negli Stati Uniti di fine ‘800 e inizio ‘900 di un variegato movimento operaio, ponendo l’accento sulle somiglianze tra la “questione sociale” americana e quella europea, sui dialoghi e gli scambi tra sindacati, politici e governanti sulle due sponde dell’Atlantico. Uno dei suoi più grandi meriti consiste nel ricostruire la diversità interna al movimento operaio americano, e le spaccature tra i sindacati, i conflitti tra i lavoratori qualificati e non, i bianchi e i neri, le diverse etnie, gli uomini e le donne. Proprio quest’attenzione alla complessità della nozione di “classe” mi induce a sollevare una questione che ritengo avrebbe potuto essere approfondita maggiormente. Per quanto l’autore ponga l’accento sulla diffidenza degli operai bianchi – soprattutto qualificati – nei confronti dei neri e delle donne, così come dei cinesi, rimane per lo più sullo sfondo un’analisi dell’importanza della categoria di genere, e in particolare della mascolinità, nella definizione dell’identità di classe. Le richieste avanzate dai sindacati e dai lavoratori nel corso del ‘900 furono, infatti, fortemente connotate dal punto di vista di genere, oltre che razziale, e legarono spesso la difesa del lavoro qualificato, così come la rivendicazione del ruolo economico e sociale di breadwinner, a nozioni di autorità e indipendenza maschili.
La mia critica origina dal fatto che in altre parti dei volumi l’autore si distingue per una notevole capacità analitica e interpretativa della categoria della mascolinità. Nel ricostruire l’emergere, all’inizio dell’800, dell’ideologia delle sfere separate, Testi è attento a sottolineare l’importanza della mascolinità nel definire i diritti e i privilegi dei cittadini repubblicani. L’autore non si limita a descrivere la separazione tra la sfera pubblica e politica maschile, e quella privata e “sociale” femminile, ma sostiene che l’esclusione delle donne dal diritto di voto e dalla sfera politica rivestì un ruolo centrale nella costruzione dell’identità maschile ottocentesca. Allo stesso modo, Testi analizza assai abilmente il conflitto tra diverse definizioni di mascolinità, per esempio tra l’autorità patriarcale e i mondi omosociali e maggiormente egualitari della democrazia maschile bianca o, ancora, tra i proprietari terrieri e i self-made men.
Particolarmente originale è, inoltre, il riconoscimento dell’importanza della mascolinità nella politica estera americana. Testi evidenzia infatti l’assoluta centralità della mascolinità virile, conquistatrice e razzista, incarnata dalla figura di Theodore Roosevelt, nel definire i contorni dell’imperialismo americano di fine ‘800. Allo stesso modo, riconosce la rilevanza della categoria di genere durante la guerra fredda, richiamando il ruolo ricoperto dalla domesticità – incarnata dalla famiglia bianca di classe media circondata dai beni di consumo di massa – nel definire la superiorità del modello economico e sociale americano rispetto a quello sovietico. L’autore avrebbe forse potuto unire maggiormente la politica estera di inizio secolo con quella della guerra fredda, e sottolineare la promozione di una mascolinità aggressiva che identificava la virilità con l’americanismo e l’anticomunismo, e vedeva nell’omosessualità un pericoloso nemico della nazione.
La storia delle donne, d’altro canto, è ampiamente trattata in entrambi i volumi, restituendo la specificità e il dinamismo dell’attivismo politico femminile dall’800 ad oggi. Particolarmente convincenti sono le parti dedicate al riformismo delle donne bianche di classe media, che trasformarono la loro relegazione nella sfera privata in uno strumento di rivendicazione dei propri diritti, o di affermazione di un attivismo sociale diverso, e per molti versi parallelo, a quello politico maschile. Testi dimostra una notevole attenzione nei confronti delle donne operaie, soprattutto di quelle immigrate, che furono protagoniste di alcuni tra i più importanti scioperi di inizio ‘900 e videro le proprie vite trasformate dal diffondersi dei consumi di massa. La complessità dell’impegno politico delle donne emerge con particolare chiarezza nell’analisi che Testi offre dei movimenti degli anni ’60 e ’70, in cui l’autore intreccia le posizioni delle donne bianche con l’esperienza delle donne afro-americane, delle Chicane e delle lesbiche. Proprio questa attenzione nei confronti delle sfaccettature interne alla categoria “donna” mi spinge a rivolgere un’ultima critica a due libri che sono pure così pieni di spunti. Con l’importante eccezione dei movimenti femministi degli anni ’60 e ’70, gran parte dell’analisi dell’attivismo femminile americano riguarda prevalentemente le donne bianche. Rimangono così per lo più escluse dallo scenario le donne afro-americane e le donne appartenenti alle minoranze etniche, le cui esperienze e il cui attivismo politico costituirono pure parti importanti della storia degli Stati Uniti.
Elisabetta Bini
ELISABETTA BINI sta concludendo una tesi di dottorato in Storia contemporanea alla New York University, dal titolo Fueling the Cold War: the Production and Consumption of Gasoline in Post-World War II Italy. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Le pétroleuses: corpi di donne in rivolta, “Genesis”, n. 2, 2006, pp. 112-133; Fotografia e diplomazia culturale: il caso della United States Information Agency (USIA) nella guerra fredda, “Contemporanea”, n. 1, 2006, pp. 99-114; Dal fascismo alla democrazia: interpretazioni americane dei ruoli di genere nell’Italia del secondo dopoguerra, “Genesis”, n. 1, 2005, pp. 23-44; Cultura dei consumi e cittadinanza delle donne nella recente storiografia, “Ricerche di Storia Politica”, n. 2, 2004, pp. 227-244
FERDINANDO FASCE: Nell’aprire queste note di lettura sui due voll. di Testi, mi vien naturale citare l’osservazione di David Hollinger, figura di punta della storia delle idee e culturale d’oltre Atlantico, per cui “Ciò che scriviamo con la speranza di raggiungere un pubblico più ampio di lettori sarà tanto più degno del tempo di tale pubblico se si ha in mente, mentre si scrive, ciò che ne penseranno i nostri colleghi”. Nello scrivere questo manuale Testi ha sempre tenuto ben presenti i suoi colleghi sul duplice versante della pratica didattica e di quella della ricerca. E ha messo a disposizione, a loro e ai loro allievi, più di tre decenni di intensa attività professionale da lui svolta in entrambi gli ambiti. La chiarezza strutturale ed espositiva si sposa dunque con la messa a frutto di una consuetudine di indagine, coltivata in stretto dialogo con la storiografia europea e statunitense, che ha visto l’A. contribuire in maniera rilevante, dalla prima metà degli anni settanta a oggi, alla complessa parabola disegnata dalla crisi e dal ritorno, in forme rinnovate, della storia politica. Sino alle sue ricerche, in anni recenti, intorno a politica e mascolinità e a simboli politici e culturali come la bandiera nazionale.
Senza questo percorso di lavoro sul campo, descritto in tanti anni dall’A., sarebbe difficile immaginare le quattro caratteristiche di fondo, che sono altrettanti punti di forza, di questa sua storia degli Stati Uniti. Ovvero, 1) l’ampio respiro internazionale e transnazionale nel quale una vicenda distesa su oltre quattro secoli è collocata, con incisive e costanti zoomate incrociate tra i vari continenti; 2) la dimensione di storia comparata che la punteggia, con la giusta preoccupazione di sfatare miti “eccezionalisti”, ma anche quella, non meno importante, di sottolineare le “peculiarità degli americani”, con frequenti raffronti, ad esempio, circa l’estensione e le caratteristiche della polity sulle due sponde dell’Atlantico; 3) la profonda conoscenza diretta dei più diversi sotto-settori della storiografia, che consente all’A. di intrecciare con estrema disinvoltura storia sociale, politica e culturale in una narrative che, pur assumendo in fondo la dimensione politica come prioritaria, resta sempre aperta a centottanta gradi su economia, società e cultura e 4) la conseguente rigorosa enfasi su empiria, evidenze, processi, complessità, in luogo di scorciatoie ideologiche e di master narratives teleologiche di qualsivoglia obbedienza, nel solco della più avanzata produzione Usa dell’ultimo trentennio.
Con risultati eccellenti, come dimostra il primo volume, che, ad esempio, opportunamente introduce la parola magica “democrazia”, tanto spesso invocata a sproposito, solo là dove è appropriato, ovvero a quasi due terzi della narrazione, e in compagnia della parola “schiavitù”: in un nitido capitolo sulla “rivoluzione del mercato”, l’emersione dei primi partiti politici di massa e l’allargarsi delle divisioni sezionali che porteranno alla Guerra civile. Non meno importante e riuscita è l’enfasi sulla guerra, la Ricostruzione e la conclusione di quest’ultima come momenti decisivi per la definizione dell’identità nazionale. O, ancora, l’attenzione alla componente di genere, che distingue nettamente questo libro da lavori pure di grande rilievo come, ad esempio, l’alquanto celebrato Sean Wilentz, The Rise of American Democracy. Jefferson to Lincoln (New York-London, W.W. Norton & Company, 2005), che dedica nemmeno due delle sue oltre mille pagine al celebre raduno suffragista di Seneca Falls del 1848. Oppure quella per la condizione dei nativi, qui recuperati a pieno titolo alla storia della formazione della nazione, evidentemente senza riguardi reverenziali per l’azione in più occasioni spietata delle elite bianche, ma anche senza folclorismi e sentimentalismi. Tutte cose che giustificano ampiamente il giudizio entusiastico strappato da questo volume sulla principale rivista di storia degli Stati Uniti, in un confronto, nettamente a suo favore, rispetto alle “cadenze compiacenti di molte storie di casa nostra” (Journal of American History, 2004, n. 2).
Sulle orme dei manuali statunitensi, il secondo volume assume una periodizzazione “lunga”, partendo da un evento sociale, lo sciopero ferroviario del 1877, e chiudendo con un’analisi culturale e di mentalità sulle “teorie cospirative” che si sono diffuse nel post-11 settembre. Un’analisi che, oltre a confermare come Testi dispieghi il suo quadrante sempre a tutto campo, consente all’A. di ribadire il pericolo, da lui giustamente paventato, di “ignorare le complessità e le incertezze della storia, e dei libri di storia”. Ma se guardiamo alle scansioni interne a questa periodizzazione “lunga”, in questo caso, a differenza del primo volume, Testi si distacca nettamente dai manuali d’oltre Atlantico. Perché procede, in modo molto originale, per segmenti ventennali, definiti, in un alternarsi di processi di politica interna e internazionale (quest’ultima evidentemente assumendo una rilevanza per certi versi preminente dal secondo conflitto mondiale in poi), con la sola eccezione del 1920-40, unico sottoperiodo individuato invece in base all’altalena economica di “prosperità e depressione” (in un capitolo che contiene uno dei molti pezzi di bravura del libro, una ricostruzione in due auree paginette, 107-108, del mutato significato della democrazia, tra la caduta della partecipazione, l’emergere di nuovi soggetti e il ruolo dei consumi).
Indubbiamente questa periodizzazione consente di organizzare in modo ragionevole e che non manca di giustificazioni storiografiche un materiale magmatico e di assai difficile gestione. Ma confesso che mi convince solo in parte. Mi chiedo, ad esempio, se il ciclo politico inaugurato dal New Deal e che, sia pure fra strappi, battute d’arresto e mutamenti significativi, dura, almeno in termini di coalizioni elettorali, sino ai tardi anni sessanta, non finisca qui un po’ “appannato”, chiuso com’è fra un capitolo dedicato, come si è detto, a prosperità e crisi, e uno concentrato su “trionfo e crisi del liberalismo (1960-1980) ”. E a proposito di quest’ultimo capitolo, mi chiedo se non fosse il caso, come aveva suggerito Charles Maier nei primi anni novanta, di tener conto della pluralità (e differenziazione) fra cicli politici ed economici. E dunque se non sia opportuno, come dimostra la crescente enfasi della storiografia Usa (ma anche europea) sugli anni settanta, puntare l’attenzione sul passaggio di fase (e sull’inizio del profondo cambiamento di pelle) capitalistico degli anni a cavallo della svalutazione del dollaro e della crisi petrolifera.
Beninteso, Testi non perde mai di vista le trasformazioni economiche, segue con attenzione la “deindustrializzazione”, prima, e l’esplosione della new economy, poi, in pagine che si segnalano sempre per la capacità di rendere, in forma chiara e con argomentazioni stringenti, fenomeni e processi di estrema complessità. Né va sottovalutato il suo costante richiamo alla presenza delle giant corporations o ai fenomeni di polarizzazione sociale e di redistribuzione delle risorse a vantaggio del capitale, segnalati da tutti i principali osservatori nell’ultimo trentennio. Però ho l’impressione che a tratti il profilo d’insieme del capitalismo statunitense a cavallo tra il XX e il XXI secolo rimanga un po’ sfumato. Senza contare che mi pare si perdano per strada elementi non del tutto irrilevanti come la realtà rurale o la questione della persistenza o meno delle aree regionali quale fattore che ha inciso e incide nella storia statunitense. Un tema, quest’ultimo, sul quale ci si è interrogati proprio sull’ultimo fascicolo del Journal of American History (March 2008) e che mi pare assente, come del resto la letteratura sulle campagne (e soprattutto sul consumo nelle campagne), da una bibliografia altrimenti, come già nel primo volume, assolutamente esaustiva.
Ma, detto questo, non è rituale concludere ribadendo l’apprezzamento per un manuale che promette di rimanere a lungo il punto di riferimento indispensabile nella nostra lingua e che è auspicabile di vedere discusso come merita sia da noi, in ambito modernistico e contemporaneistico comparato, sia in lingua inglese. I due volumi sono compatti, lucidi, tanto articolati nella sostanza, quanto efficaci nell’esposizione e di lettura cattivante.
Ferdinando Fasce
FERDINANDO FASCE insegna Storia dell’America del Nord nell’Università di Genova. Si occupa di storia culturale e della comunicazione aziendale e politica nel Novecento. Ha in uscita Da George Washington a George W. Bush. Due secoli di presidenti Usa, Carocci, autunno 2008 e lavora a una sintesi su democrazia e società negli Stati Uniti del Novecento. Di recente ha pubblicato Da Barton a Rove: pubblicità e politica negli Stati Uniti del “secolo americano”, in “Ricerche di storia politica”, 2008, n.1.
GUIDO FORMIGONI: Il doppio volume di Arnaldo Testi rappresenta una scommessa di notevole portata, che peraltro sta diventando forzatamente sempre più comune nella produzione libraria di storia: quella di fornire un approccio sintetico globale ad un argomento (in questo caso la storia degli Stati Uniti dalle origini ai giorni nostri) in un numero contenuto di pagine. L’operazione corrisponde naturalmente a una richiesta crescente rivolta al mercato editoriale legato all’accademia, quella di produrre testi non troppo corposi e istituzionalmente sintetici, tali da poter essere utilizzati didatticamente nei corsi di laurea triennali. Naturalmente queste sollecitazioni portano a scontrarsi con un problema interno cruciale, che impone un equilibrio difficile. La dimensione informativa non può infatti che essere accuratamente presente accanto a quella interpretativa – proprio per il livello presunto delle competenze del lettore cui queste opere sono dedicate – e questo impedisce di eccedere nella sintesi. Più infatti si sintetizzano gli eventi, più si è indotti a dare per scontati una serie di elementi esplicativi e di dati conoscitivi di riferimento, che non è affatto certo che i giovani studenti, che chiedono a gran voce testi brevi, conoscano già (per usare un eufemismo). Di conseguenza, l’utilizzazione didattica di testi sintetici conduce talvolta a risultati del tutto insoddisfacenti: sono testi utilissimi per sistemare le conoscenze di chi già le possiede, molto poco adatti invece per introdurre in questioni storiche (e non dico in dibattiti storiografici) complessi e articolati. Alcuni dei recenti manuali di storia contemporanea «generale» che trattano dell’Otto-Novecento in trecento pagine sono a mio parere la dimostrazione più evidente delle difficoltà di questa operazione. La loro utilizzazione didattica è problematica proprio per l’assenza delle dimensioni sufficienti per affrontare in modo minimamente disteso la trama degli eventi. La mia opinione è che i due libri di Arnaldo Testi offrano invece una dimostrazione che tale scommessa si può affrontare con una certa efficacia. I volumi infatti si presentano leggibili, ricchi di documentazione informativa e tutt’altro che evasivi sulle grandi questioni interpretative. Uno dei punti di forza che motivano questo successo mi sembra sia la capacità dell’autore di utilizzare al meglio alcune modalità formali (linguaggio semplice e diretto anche se spesso denso, articolazione ampia in paragrafi, spiegazione sintetica di ogni formula linguistica o passaggio storico – fin dalla cruciale opera di traduzione di locuzioni o formule tipiche – , ascrizione sempre presente e precisa di giudizi e punti di vista ai loro autori).
In questo senso, le duecentotrenta pagine, al netto dell’apparato critico e statistico, del primo volume (La formazione degli Stati Uniti, dedicato ai primi cent’anni di storia, dalle origini al 1876), colpiscono meno – dal punto di vista dell’ambizione di stringatezza – delle duecentonovanta del volume più recentemente uscito (Il secolo degli Stati Uniti), che ci portano dal 1876 ai giorni nostri. Infatti, queste ultime coprono un arco di tempo più ampio e indubbiamente più complesso e controverso, soprattutto per la vicinanza dei problemi e degli eventi trattati e per la conseguente concentrazione di una mole di questioni molto più cospicua. Il primo volume mi è sembrato alla fine come resa complessiva più disteso e descrittivo del secondo, permettendosi una maggior ampiezza di analisi di questioni intricate – soprattutto per un lettore italiano o europeo – come i diversi profili della «rivoluzione» americana, l’originaria organizzazione partitica della democrazia statunitense, le origini e l’evoluzione della schiavitù, il decollo economico, la struttura costituzionale e istituzionale (formale e reale), le origini della guerra civile. A riscontro di questi passaggi, colpisce invece l’asciuttezza con cui si parla nel secondo volume della Grande Depressione o del progetto wilsoniano, della questione imperiale o della crescita dei media.
In un’opera di questo tipo uno dei punti critici è poi l’equilibrio interno tra le diverse parti e la capacità di tenere conto di tutte le sfaccettature di una vicenda storica, senza farsi prendere la mano da simpatie particolari o da «mode» passeggere. Entro in questo elemento con la cautela del non specialista di storia americana. Anzi, proprio da non specialista, che quindi è più attento alle capacità di presentare le peculiarità di una storia nazionale per lettori stranieri, mi pare di poter considerare che anche in questo caso i libri sembrano bilanciati e convincenti. Mi sembra efficace la scelta di utilizzare un registro attento al molteplice e di riconnettere diverse «storie» settoriali a un filo narrativo comune. Apprezzo l’intenzione di non fare solo una storia politica tradizionalmente intesa, e di tenere ampio conto della dimensione sociale e della cultura «di massa», ma ancor più quella di evitare derive socio-centriche molto più à la page, che rischiano di marginalizzare o di perdere di vista la dimensione politica o quella economica. Abile è la capacità di ricollegare sempre il dibattito politico-partitico alle dinamiche del consenso e dell’evoluzione dei rapporti tra ceti e settori geografici e culturali del paese, come anche alle scelte istituzionali e legislative, evitando la sua presentazione in termini tutti interni al sistema politico. Anzi, l’attenzione agli equilibri tra le diverse regioni geografiche e i diversi Stati (e ai mutamenti delle relative dinamiche demografiche, oltre che economiche), con tutti i risvolti che il pluralismo interno del grande paese ha sul piano delle mentalità, del consenso, della politica, mi pare una delle cifre dell’efficacia dello sforzo di Testi. Ampio e ben centrato mi sembra l’interesse dedicato ai temi razziali e a quelli dell’immigrazione (e questo naturalmente aiuta un lettore europeo meno consapevole), come a quelli socio-sindacali e all’amplissimo settore delle questioni di «genere». Rapidi ed essenziali, ma con la capacità di essere fortemente illuminanti qua e là, i riferimenti al mondo culturale (soprattutto i cenni al dibattito accademico, sociologico, economico o storico, ma anche le sintetiche evocazioni dei contributi che le opere di letterati e giornalisti offrono alla comprensione odierna dei loro tempi). Schematica anche se non reticente è la narrazione della vicenda economica: forse però appare costretta in spazi un po’ troppo circoscritti soprattutto l’evoluzione della seconda metà del secolo (tra ristrutturazione dell’apparato produttivo, nuovi trend commerciali, finanziarizzazione dell’economia, esplosione della questione del debito e dei twin deficits). Se si volesse citare un altro aspetto che non è affatto assente, ma un po’ veloce è quello religioso: la trattazione della questione della «religione civile» e le modificazioni dei rapporti tra le grandi chiese e le nuove correnti religiose non hanno molto spazio, anche se sono lumeggiati i rapporti religione-politica, ad esempio cruciali nella crisi dell’egemonia liberal e nell’affermazione del nuovo conservatorismo. Anche la politica internazionale appare collocata su un filo di rilettura circoscritto quanto preciso: certo, a questo proposito, il volume novecentesco si trovava di fronte alla novità dell’assunzione del ruolo centrale del paese nel sistema internazionale e avrebbe potuto veder dilagare questa dimensione a scapito delle altre, cosa che attentamente l’autore cerca di evitare, forse a scapito della messa in luce dell’importanza del riflesso interno di alcune dinamiche globali (penso ad esempio al ruolo internazionale del dollaro).
Ritengo infine complessivamente positiva la scelta dell’autore di seguire un profilo narrativo distaccato quanto non asettico, senza cifre preponderanti di carattere polemico né agiografico. Non a caso il secondo volume si chiude efficacemente sul rischio di semplificazione retorica dell’interpretazione delle vicende dell’11 settembre 2001 nella società americana, per mettere in guardia chi non regga «le complessità e le incertezze della storia, e dei libri di storia». Mi pare una conclusione degna del livello dell’opera.
Guido Formigoni
GUIDO FORMIGONI insegna Storia contemporanea presso la Libera Università di lingue e comunicazione di Milano (Iulm). Ha studiato il profilo associativo, culturale e politico del cattolicesimo italiano nel ‘900 (La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale, 1996; L’Italia dei cattolici, 1998); ha lavorato sull’evoluzione del sistema internazionale contemporaneo (Storia della politica internazionale in età contemporanea, 2006 nuova ed.); si occupa ora soprattutto delle relazioni tra politica interna e quadro internazionale in Italia durante la guerra fredda.
ARNALDO TESTI: Innanzitutto, grazie ai colleghi per l’attenzione e il tempo dedicato ai miei due libri. E grazie per i complimenti. Ma naturalmente qui mi interessano di più le critiche, che sono tutte ragionevoli, accettabili, accettate. Riguardano in genere il secondo volume, e in genere non mi sorprendono. Di alcune avevo già pensato di tener conto in una eventuale revisione per una eventuale seconda edizione; altre le aggiungerò alla lista. In particolare trovo insoddisfacente il mio lavoro, e quindi soddisfacenti le critiche, a proposito di due aree tematiche segnalate dai commentatori: la politica della Guerra fredda (gli aspetti di cui parla Bini) e l’economia di fine Novecento, dalla crisi degli anni settanta a oggi (di cui parlano Fasce e Formigoni). Su queste due aree dovrò ritornare e, almeno in parte, ripensarle, riscriverle, sicuramente però non estenderne la trattazione in termini di pagine. Le considerazioni iniziali di Formigoni sulla, diciamo così, economia politica del testo mi sono sempre state assai presenti, in corso d’opera. I capitoli dei miei libri hanno tutti le stesse dimensioni predeterminate, lo stesso numero di battute, e così i capoversi. Ciascun capoverso affronta un singolo passaggio storico; se il formato editoriale fosse quello di un manuale scolastico, ciascun capoverso avrebbe il suo titoletto già pronto. C’è una struttura, una mappa che è frutto di decisioni – di decisioni sulle cose da mettere dentro, su quanto spazio (importanza) dare loro, e infine su quali escludere. Le pagine sono quelle, non di più. Non è solo l’editore a dirlo, lo dico anch’io in quanto insegnante e in quanto scrittore. Inoltre tutte le formule linguistiche che uso devono essere spiegate. Non posso alludere, accennare (talvolta mi scappa di farlo, ahimé); se dico, devo dire fino in fondo, cioè occupare spazio. Allora è inevitabile: se aggiungo cose, se sono più disteso e meno veloce nel discuterle, devo tagliare altrove – e anche su che cosa tagliare mi piacerebbe avere suggerimenti. Dovrò dunque essere più completo e complesso all’interno delle dimensioni date, essere più efficace e incisivo e, immagino, più maturo nella sintesi. Mi dispiace che il ciclo politico inaugurato dal New Deal finisca un po’ “appannato”, come scrive Fasce. Spiego perché rivelando un segreto di cucina che, in effetti, non dovrebbe essere un segreto, dovrebbe essere scritto ben chiaro nell’introduzione ai volumi, e lo sarà non appena ci sarà l’occasione. La griglia interpretativa che mi aiuta a dare un senso alla storia americana è quella (di origine storico-politologica) che propone un succedersi di “sistemi” o “regimi” politico-sociali distinti. I regimi si formano in occasione di grandi sconvolgimenti elettorali, le “elezioni critiche”, e poi si stabilizzano; esprimono modelli di public policy e di rapporti fra stato, partiti, economia e società che sono relativamente coerenti. Tali rapporti includono quelli fra classi sociali, fra gruppi etnici e razziali, fra spazi privati e spazi pubblici, fra identità sociali e forme di comunicazione e consumo, fra famiglie e politiche della famiglia, fra generazioni, fra sessi, e così via. Quando muta regime, si suppone che ciò accada perché mutano i nessi fra tutti o gran parte di questi elementi. I momenti periodizzanti sono allora quello fondativo (la Rivoluzione), gli anni trenta dell’Ottocento (l’ètà jacksoniana), gli anni sessanta (la Guerra civile), gli anni novanta (il sistema del 1896), gli anni trenta del Novecento (il New Deal), e infine gli anni settanta (1968-80). Le cesure sono dettate dalla storia politica che per prima le ha formalizzate, e per questo appaiono banali, scontate; ma sono anche in grado di rendere conto di sviluppi e cambiamenti individuati dalla storia economica, sociale, culturale. Sembrano suggerire che cambiamenti politici e cambiamenti sociali e culturali siano strettamente intrecciati e interdipendenti, così da concorrere a definire i tempi della storia. Su queste cesure è plasmato il ritmo della mia narrazione e, in maniera indiretta ma (credevo) piuttosto evidente, l’organizzazione dei capitoli. Ai miei occhi, la nascita del sistema del New Deal, svolta decisiva nel cuore del Novecento, costituisce il cuore e la conclusione del terzo capitolo; il suo apogeo e la sua dissoluzione costituiscono il cuore del quinto capitolo. Ma certo avrei dovuto essere più convincente, anche qui più efficace e incisivo, più drammatico nel linguaggio. Cercherò di esserlo in una prossima versione. Perché naturalmente, in questi casi, è il lettore ad aver sempre ragione.
Arnaldo Testi
ARNALDO TESTI insegna Storia degli Stati Uniti al Dipartimento di Storia dell’Università di Pisa. I suoi libri più recenti includono, oltre ai due qui discussi, Stelle e strisce. Storia di un bandiera (Bollati Boringhieri, 2003); una versione inglese sarà pubblicata da New York University Press.