[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione dell’autore]
E F Biagini
Robinson College Cambridge
Il Mondo visto dall’Italia Convegno della Sissco
Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002
Cosa c’e’ di “peculiare” nel caso inglese?
Se dovessi suggerire un tema di ricerca ad un dottorando, suggerirei lo studio della storia dell’anglofilia in Italia, come aspetto della cultura e della politica. Mentre manca una vera tradizione di anglofobia italica, la storia del fascino italiano per “la terra del buon senso e del confort”, come scrisse Sidney Sonnino, e’ un soggetto cosi’ ampio ed omnicomprensivo che richiederebbe non una, ma diverse tesi. Dai tempi di Cavour a quelli di Luigi Einaudi, dai modelli costituzionali allo sport, dalla politica alla moda, l’anglofilia ha accompagnato lo sviluppo dell’Italia moderna e – in varia misura – anche lo sviluppo di altri paesi del resto del mondo dal Settecento in poi. In cosa consiste questa anglofilia e quali sono le sue origini? Nonostante la ricchezza del soggetto, studi sistematici sull’anglofilia degli italiani non ce ne sono. Quello che ci vorrebbe e’ un equivalente per l’Italia del lavoro di Frank Turner sull’antica Grecia come fonte d’ispirazione della cultura della Gran Bretagna vittoriana – un lavoro che discute aspetti diversi come archittettura, letteratura, arti grafiche, e politica. Solo nel campo ristretto della politica ci sono alcuni studi italiani sui vari “modelli inglesi”- come quelli liberale, laburista e del welfare state – che hanno influenzato questo paese. Ci sono poi alcuni storici, comprese Farrell-Vinay e piu’ di recente Silvia Santagata, che hanno lavorato e lavorano sulla cultura anglofila di certo antifascismo italiano in esilio.
E’ interessante che siano invece piu’ consistenti gli studi di storici britannici sull’Italofilia dei vittoriani, primo tra questi il recente libro di Maura O’Connor su The Romance of Italy, per non parlare del ricco filone letterario e cinematografico con romanzi quali E.M.Forster, A Room with a View (1909) e films quali A Tea with Mussolini (19**). Per giunta, mentre la Gran Bretagna ha prodotto un numero considerevole di influenti studiosi della storia italiana – da G M Trevelyan a Denis Mack Smith, Adrian Lyttelton e Paul Ginsborg – pochi sono gli storici italiani che hanno dedicato i loro studi alla Gran Bretagna, e tra quei pochi, i piu’ si interessano di cose inglesi solo in ambito di storia comparata, come nel caso della scuola di Pombeni, oppure come aspetto di un quadro ampio e genuinamente nord-atlantico della storia italiana, come nella tradizione degli studiosi evangelici capeggiata da Giorgio Spini. Vale a dire, gli italiani non studiano la storia inglese come fine a sé stessa, come per esempio Lyttelton studia quella italiana, ma per la luce che getta sulla storia italiana o del resto d’Europa. Quello che manca e’ insomma un sostenuto e deciso interesse allo studio dell’origine di questi “modelli”, studio che per altro sarebbe necessario – per parafrasare quello che ha detto di recente G.Fodella con riferimento agli studi italiani su un altro paese – per “costruirisi gli strumenti [concettuali] per capire la storia di una civilta’ diversa dalla nostra”.
Inoltre, tra i pochi ed isolati cultori della materia italiani manca un’organizzazione professionale, perfino come sezione specialistica della SISSCO. Vale a dire, anche tra i comparativisti manca in Italia un equivalente di quello che in Germania e’ rappresentato dall’Arbeitkreis Deutschland-England Forschung, con i suoi regolari convegni e le sue pubblicazioni sia in tedesco che in inglese. Cosi’, mentre l’americanistica italiana e’ relativamente ben organizzata, e gli studiosi italiani di storia tedesca e francese hanno radici anche istituzionali profonde (per esempio a Trento e a Pisa), lo studio della storia britannica in Italia resta un fatto episodico e contingente e le pubblicazioni in lingua italiana sulla storia inglese sono dominate da traduzioni di testi di studiosi inglesi, per lo piu a cura della casa editrice il Mulino.
Partendo da queste considerazioni, la mia relazione si articola in due parti: nella prima parlero’ dell’atteggiamento di alcuni eminenti politici ed intellettuali italiani verso la Gran Bretagna. Nella seconda parte discutero’ alcuni dei problemi che hanno creato il gia’ citato squilibrio tra anglofilia pratica e relativa indifferenza della professione storica italiana verso lo studio della storia inglese.
Parte I
Foscolo, Pecchio, Mazzini, Cattaneo, Cavour, Einaudi, Rosselli; e poi il liberalismo e l’economia politica, il sistema elettorale maggioritario, il dibattito sull’imperialismo, sulla globalizzazione, sui partiti, sul thatcherismo, sul New Labour. Questi sono alcuni dei personaggi e dei temi che vengono alla mente appena si comincia a considerare il nostro problema. Tra questi Foscolo e’ il carattere sul quale voglio soffermarmi di piu’ sia perche’ e’ all’origine di una tradizione di anglofilia, e ne rivela certi temi centrali, sia perche’ e’ forse meno noto di altri.
Ugo Foscolo arrivo’ in Ingilterra nel 1816. Veterano dell’esercito napoleonico, nel 1808 il poeta aveva fatto parte dell’armata con cui Napoleone sperava di invadere la Gran Bretagna. Nella vana attesa del “D-Day” napoleonico, Foscolo aveva avuto una relazione con una donna inglese, relazione dalla quale la coppia ebbe una figlia. A parte questo episodio, il poeta aveva avuto rapporti limitati e occasionali con il mondo inglese, nel quale entrava nel 1816 come esule. Se si fa eccezione per l’antropologia hobbesiana del bellum omnium contra omnes, fino ad allora la sua cultura politica era stata dominata da componenti francesi e italiane, Cosa attirava Foscolo all’Inghilterra? Dai suoi scritti sembrerebbe che ci fosse due grandi temi centrali: la liberta’ personale e l’indipendenza politica. La Gran Bretagna simboleggiave entrambi, e Foscolo ne pote’ apprezzare i vantaggi negli anni dell’esilio.
Per Foscolo i due decenni delle lotte rivoluzionarie e delle guerre napoleoniche avevano introdotto un nuovo fattore nella storia: vale a dire, l’amore della liberta’ come fenomeno di massa. Era stato l’amore per la liberta’ che aveva mosso i popoli contro i loro sovrani tra il 1789 e i primi dell’Ottocento. Napoleone aveva deluso le aspettative, ma i vecchi sovrani erano riusciti a mobilitare i popoli solo promettendo a loro volta liberta’. Quindi il desiderio di liberta’ era divenuto un fattore di cambiamento storico. In pratica, tuttavia, solo i popoli forti potevano permettersi il lusso di soddisfare questo desiderio. Gli svizzeri, per esempio, nonostante la loro reputazione di uomini liberi, in pratica, per mancanza di forza, erano aperti a tutte le pressioni esterne: “I patriarchi svizzeri vendono con buona coscienza i loro figliuoli perche’ si scannino per le altru battaglie. Sono deboli, percio’ non possono essere giusti; onde non hanno di liberta’ piu’ che il nome.” Nell’Europa della Restaurazione solo l’Inghilterra poteva veramente chiamrsi libera, a giudizio di Foscolo: “Qui il corso delle vicende umane ha procurato agli abitanti un porzione di giustizia, cultura e libertà tanto grande quanto il genere umano mai conobbe; e se la natura umana non cambia, non credo che esso sia stato creato per raggiungerne di più” Per Foscolo, il “liberissimo” popolo inglese nel ricorso della storia umana si poneva fermamente in quella posizione occupata anche dal popolo Americano, e dove anche i francesi avrebbero potuto essere se “fossero meno inclini alla servitu’, a motivo della loro ingordigia di novita”. Per il poeta la Gran Bretagna aveva piena indipendenza nazionale e garanzie civili della liberta’ dei suoi cittadini, insieme a garanzie di tipo non istituzionale, ma tipiche di un popolo libero. In particolare, “l’onnipotente libertà di stampa” che introduceva variabili nuove nella lotta per il potere nella quale per Foscolo si riassumenva in sostanza la politica, variabili quali i sentimenti e le decisioni dell’opinione pubblica. In Inghilterra quest’ultima era per Foscolo la corte suprema alla quale gli individui potevano appellarsi come giudice imparziale.
Quindi l’anglofilia foscoliana nasceva dal connubio tra amore per la liberta’ nel senso repubblicanesimo machiavelliano e teorie illuministe sulla liberta’ dei cittadini come individui. Inoltre Foscolo anticipava una buona parte della tradizione anglofila risorgimentale nel sottolinerae i nessi tra liberta’ politica e liberta’ commerciale, soprattutto intesa come libero scambio. Nei suoi scritti sulla costituzione per le Isole Ionie, Foscolo sostenne che uno dei motivi per i quali gli Ioni dovevano considerarsi fortunate in paragone con gli italiani, era che mentre la Lombardia era stata annessa ad un impero protezionista, le Isole Ionie godevano dei benefici del libero scambio britannico, dell’accesso ai mercati di Londra e del nord Europa, e degli investimenti che i banchieri inglesi avrebbero convogliato nelle isole. Questo nesso tra commercio e liberta’ fu subito sviluppato da un altro anglofilo, esule in Inghilterra, il conte Lombardo Giuseppe Pecchio, che di Foscolo sarebbe divenuto il primo biografo. Per Pecchio,
Lo stesso spirito che regna oggi in Birmingham, in Glasgow, in Manchester, nella Citta’ di Londra, v’era in Firenze, in Genova, ecc. al tempo che fioriva il commercio di quelle repubbliche. Il commercio non puo’ propserare che dove le leggi proteggono la proprieta’ e la liberta’ personale. Dove il re puo’ impadronirsi del denaro depositato in una banca, o la polizia puo negare un passaporto o esercitare vessazioni, il commercio non puo’ prosperare. In Inghilterra non fu tanto l’Atto di Navigazione che incoraggio’ l’industria e il traffico inglese, ma il giudizio per giurati, l’Habeas Corpus, la liberta’ della stampa, la rappresentanza nazionale, il diritto di petizione, l’inviolabilita’ dell’asilo domestico. La casa di un inglese e’ il suo castello inespugnabile. … Finalmente il commercio ha necessita’ di associazione, di riunioni, di discussione; le Borse commerciali sono come l’antico foro delle repubbliche; e quantunque negli stati commerciali vi possano essere delle classi aristocratiche, ricche e potenti, come nell’antica repubblica di Venezia ed ora in Inghilterra, nondimeno, siccome la maggior parte della ricchezza e’ nelle mani dei commercianti (che sono anche la classe piu’ agaita e piu’ numerosa), cosi’ il sentimento dell’uuaglianza e’ quello che prevale, come l’uguaglianza prevaleva in Roma malgrado l’alterigia e la potenza dei patrizi..
E’ abbastanza chiaro cosa questi due intellettuali di origine piu’ o meno patrizia ammiravano nella Gran Bretagna: questo paese aveva saputo conciliare i vantaggi della “liberta’ degli antichi” con i frutti dell’Illuminismo, senza scendere negli eccessi della Rivoluzione e del bonapartismo. Grazie alla liberta’ e alla certezza del diritto, la virtu’ si accompagnava all’opulenza, la stabilita’ alla mobilita’ sociale. Le elite tradizionali erano relativamente permeabili allo spirito dell’iniziativa borghese, eppure il loro tradizionale stile aristocratico era accuratamente preservato ed anzi esteso ad altri ceti.
L’altro grande tema nell’anglofilia italiana di primo Ottocento e’ quello dell’unita’ nazionale e del patriottismo conciliati con la dinamica della lotta tra i partiti. Per Foscolo l’indipendenza richiedeva unita’ d’intenti e di parti. Eppure gli uomini tendono inevitabilmente a dissentire l’uno dall’altro per carattere, educazione, oppure per passioni ed interessi. Dato che gli individui sono discordi per natura, i riformatori politici hanno tre opzioni: possono cercare di cambire la natura umana, o cercare di reprimerla, oppure cercare di indirizzarla a fini buoni o cattivi. Ciascuna di queste tre strategie riflette una diversa forma di esperienza di governo: la prima e’ l’esperienza utopico-rivoluzionaria; la seconda e’ l’esperienza dei governi assolutistici, sia napoleonici che della Restaurazione; e la terza e’ quella del governo libertale e rappresentativo quali si trovava allora – per Foscolo – solo in GB e negli USA. In questi due paesi la naturale discordia dell’uomo era vista come espressione delle libere individualita’ e della vita stessa. I governanti non cercavano la pace mediante la soppressoone di tali differenze, ma le incanalavano a fini buoni. E’ notevole che tra i canali che operavano tale benefica funzione Foscolo idnividuasse i partiti politico come il piu’ importante. In anticipo sulla scienza politica sia italiana che inglese, mescolando Machiavelli e Burke con le sue personali osservazioni empiriche, egli produsse una specie di “teorica dei partiti” come istituzioni necessarie al funzionamento del governo rappresentativo. In contrasto con le fazioni e le sette – proporie, rispettivamente, delle repubbliche decadenti e dei popoli schiavi – i partiti
30. Parties consist of different classes of men, such as noblemen, the people and the plebeians, or of people who profess different political opinions and disagree about the more or less useful means to achieve the prosperity of the commonwealth; but all parties are otherwise strongly concord/strongly agree in that they love the fatherland, they defend it as their fatherland, and theey abide by its laws.
31. Such are to the present day the parties in England; such were [the parties] in [ancient] Rome until the days of the Gracchi; both the Romans and the English did and do recognize that the law of the Constitution cannot be infringed by parties, as one part of the citizens watches the other, and each repsects the other; and if they were not discordant, indolence would spread, and with it servitude.
Se Inghilterra e America erano i due paesi da ammirare, la prima era per Foscolo piu’ interessante e piu’ pertinente come esempio degli USA, perche’ vicina all’esperienza e al contesto europei. In contrasto, il caso degli USA era del tutto insolito. La’ i padri fondatori godevano di vantaggi storici e naturali per i quali non esistevano paralleli od equivalenti in Europa, compresa l’abbondanza di terra coltivabile che rendeva la proprieta’ terriera accessibile a tutti, la semplicita’ dei costumi, e l’effetto di quello che chiamiamo oggi il “melting pot”: il fatto che la popolazione si accresceva mediante graduale immigrazione, da parte di individui che, per libera scelta, all’arrivo accettavano le esistenti leggi ed istituzioni americane come parte della loro nuova identità’.
Questi temi si ritorvano essenzialmente nel pensiero liberale degli anglofili “moderati” italiani di meta’ Ottocento. Cavour, uno dei piu’ sofisticati ed importanti tra questi, fu dall’inizio interessato al nesso tra commercio e liberta’. Come ha scritto Cafagna, il liberalismo di Cavour era essenzialmente liberista, e la sua ammirazione e il suo interesse per la Gran Bretagna rifletteva a pieno questo nesso stretto. Al tempo stesso, come Foscolo e Pecchio, Cavour era consapevole dell’importanza dell’opinione pubblica e della liberta’ di stampa – la “sesta potenza” europea. Opinione pubblica e “culto dell’economia” erano i due aspetti piu’ potenti del modello britannico per Cavour, che invece derivava i suoi principi piu’ strettamente politici dal liberalismo franco-svizzero.
Invece, la sua prima esperienza del sistema parlamentare inglese fu deludente. Cavour disapporvava il carattere informale dei dibattiti a Westminster ed era confuso dalla retorica aspra dei conflitti ecclesiastici tra nonconformisti ed anglicani, che era cosi’ lontana dala sua idealizzata visione della tolleranza ginevrina, che amava tanto. Inoltre, Londra era piu’ prosaica di Parigi, per quanto non meno interessante. Cavour parlava bene l’inglese, che pote’ usare al banchetto della Royal Geographical Society, e nei suoi incontri con Edwin Chadwick, Charles Babbage, e specialmente con l’economista William Nassau Senior. Da buon benthamita, Cavour visito’ prigioni e misuro’ l’effetto delle ferrovia sull’economia, lo stile di vita e la cultura della Gran Bretagna. Affascinato dai problemi del pauperismo, Cavour studio’ il sistema della Poor Law e la questione dello sviluppo economico, nella prospettiva dell’economia politica classica. Sebbene fosse aristocratico per nascita e stile, non aveva tanta pazienza per i “sogni gotici feudali” dei difensori della Restaurazione, e considerava il libero scambio, la modernizzazione dell’agricoltura, e l’industrializzazione come fini in se stessi e come passi essenziali verso la liberta’ politica.
Sotto questi punti di vista Cavour era molto simile agli aristocratici inglesi, soprattutto quelli di parte Whig, “imborghesiti” almeno fin dalla fine del XVIII secolo, come ha mostrato Linda Colley. Perche’ il mito dell’Inghilterra “nobiliare” e’ in larga misura un’invenzione di Hollywood e dei mass media. Una delle ragioni per le quali la Gran Bretagna affascina e’ che presenta un modello che, pur essendo completamente borghese (e borghese d’avanguardia), conserva la raffinatezza e lo stile dell’aristocrazia: esempi ne sono le public schools, i college di Cambridge e Oxford e i clubs di Londra, tutte istituzioni funzionali ad una moderna societa borgehse e commerciale, ma che offrono ai loro membri molti dei vantaggi di un certo stile di vita aristocratico. In un certo modo Cavour era pronto a stare al gioco. A un suo amico scrisse nel 1852: “Massimo [d’Azeglio] fa l’idilliaco a Sestri, io faccio il romantico tra i laghi e le montagne della Scozia”. Faceva il romantico, ma solo avanza tempo, come parte del leisure (altra invenzione borghese): in realta’ pero’, come i suoi colleghi e pari classe inglesi, Cavour trovava lo stock exchange di Londra, le ferrovie e gli arsenali navali di Newcastle piu’ interessanti dei lochs e dei glens.
Economia politica classica e societa’ di mercato funzionante – ecco due degli aspetti di maggior successo del modello britannico tra gli italiani, sia nell’Ottocento che nel Novecento. Come ha scritto Romanelli, e come ha sottolineato Roberto Romani nei due suoi fondamentali volumi sulla storia dell’economia politica del Risorgimento e sull’ideologia dei “caratteri nazionali”, l’economia liberista inglese era il pilastro del liberalismo dei piu’ interessanti pensatori italiani di questo periodo. Non solo aristocratici e “moderati” come Cavour, ma anche uomini di diversa estrazione sociale ed orientamento politico come Carlo Cattaneo e Francesco Ferrara sentirono quello che Romani descrive come “il fascino inevitabile della Gran Bretagna”. Questo fascino consisteva di pragamatismo, coesione sociale, saldezza dei risultati raggiunti, e la continuita’ dello Stato, percepito come come entita istituzionale supra partes, all’interno di un “contratto sociale” liberoscambista e liberista che escludeva efficacemente la lotta di classe dalla lotta politica – operava insomma quella separazione tra sfera dell’economia e sfera della politica sulla quale si basava la credibilita’ dell’intero sistema politico liberale, come hanno insistito Matthew e McKibbin. Come gia’ Foscolo, questi anglofili contrapponevano le virtu’ e la moderazione della Gran Bretagna alla corruzione e agli eccessi della Francia. “Self-government, senso di responsabilita’ civica e orgoglio nazionale” stavano alle fondamenta della prosperita’ e della liberta’ inglese. L’amore per quest’ultima non era smania di fazione, ma realta’ di un popolo intero. E’ interessante che tali aspetti caratterizzassero in particolare quella che Romani descrive come “l’anglofilia degli economisti lombardo-veneti” – studiosi come Cossa, Lampertico, ma anche Ferraris e Brunialti, che erano piu’ vicini e certo piu’ consapevoli delle esigenze di una moderna societa’ industriale.
Non e’ caso di cercare di riassumere ulteriormente le conclusioni delle brillanti ricerche di Romani, ma e’ ovvio che questa tradizione di anglofilia economica e’ stata quella che ha avuto e continua ad avere maggio successo in Italia. Ne fu un grande esponente Luigi Einaudi che – come ha scritto di recente Galasso – ammirava nella Gran Bretagna “lo ‘Stato leggero’ come garanzia di equilibri sociali tollerabili ma non come manipolazione o negazione della diversità. L’esperienza di autogoverno e di empirismo governativo del mondo inglese non poteva che arridere ad un liberale siffatto.”
Einaudi sembra confermare l’analisi di Perry Anderson, secondo la quale ebbe luogo un processo di selezione naturale, mediante il quale quegli intellettuali che avevano una certa affinita’ naturale con il pensiero e la politica inglese si recarono in Gram Bretagna. I rigugiati che andarono altrove, lo fecero perche’ erano fin dall’inizio su posizioni intellettuali poco compatibili con l’empisimo liberale britannico. E’ notevole che nella colonia antinazista londinese ci fossero molti austrici della scuola del positivismo empirco di Vienna. Invece c’erano pochi tedeschi, in parte perche’ l’antinazismo universitario tedesco era dominato dal marxismo di pensatori come Marcuse, Adorno, Horkheimer e Fromm che preferirono gli Stati Uniti, e in parte perche’ i rifugiati tedeschi erano spesso scienziati che trovavaono i laboratori e le risorse americane irresistibilmente attraenti. Cosi’ gli intellettuali che si trasferirono in Gran Bretagna non erano un gruppo a caso: erano piuttosto di tendenza conservatrice o liberaldemocratica in politica, e di orientamento empirico e positivista in filosofia. Mentre ebbero un ruolo importante nel rinnovare le rispettive discipline di appartenenza in Gran Bretagna, molti di loro divennero “piu’ inglesi degli inglesi”. Questi immigrati che cercavano rifugio dagli scombussolamenti dell’Europa centrale, identificavano la Gran Bretagna con tutto quello che avrebbero voluto avere nei loro paesi di nascita: stabilita’, tradizione, continuita’ e impero (per gli austrioungarici). Divennero pertanto alleati naturali dell’establishment inglese.
Mentre Perry Anderson ha sottolineato il ruolo a suo avviso “reazionario” dell’immigrazione antifascista, una studiosa che col marxismo non ha mai avuto molto a che fare, Jose Harris, ha insistito sul dinamismo e progressivismo del neopositivismo empirico in alleanza col platonismo e l’aristotelismo della cultura accademica inglese tradizionale. A mio parere c’e’ molto da dire a favore della intepretazione della Harrisa. Per esempio, la vitalita’ e l’apertura di questa tradizione fu illustrata, alla fine della Seconda Guerra mondiale, dalla risposta britannica alla Resistenza e alla proclamazione della Repubblica. Si tratta ancora una volta di un aspetto delle vicende del 1945-47 che e’ poco studiato e poco noto. Io ci incappai per caso, quando mi fu chiesto di presentare una relazione nel 1997 al Convegno di Perugia sull’Assemblea Costitutente. Mentre l’intepretazione tradizionale dell’atteggiamento britannico verso l’Italia e’ dominato da un’insistenza sui caratteri imperialisti della politica inglese verso l’Italia, dai lavori di Perugia emerse che tra tutti i paesi europei, la Gran Bretagna era quello la cui opinione pubblica era di gran lunga meglio informata circa la situazione in Italia, a anche quella decisamente piu’ simpatetica alla fondazione della repubblica. Le ragioni vanno ricercate da una parte nella natura keynesiana e “liberalsocialista” di gran parte dell’establishment accademico, letterario e giornalistico inglese alla vigilia della fondazione del welfare state; e dall’altra nel fatto che i corrispondenti di guerra – soprattutto quelli del Times come Chris Lumby – avevano stabilito rapporti stretti con esponenti della Resistenza fin dal 1943. Conoscevano insomma “l’altra Italia”, quella democratica che poteva eseere il futuro, e parlavano e scrivevano vigorosamente a suo favore. Significativamente la forza politica italiana che piu’ ammiravano era il Partito d’Azione.
Si tratta insomma di una situazione piu’ complessa di quella che ha voluto polemicamente presentare Anderson. Del resto, nel Novecento la tradizione degli anglofili accdemici italiani non e’ affatto dominata da liberisti e liberalconservatori. Basti pensare a Piero Sraffa, che a Cambridge inauguro’ una nuova stagione nella storia degli economisti angloitaliani – una tradizione che tuttora continua: la nostra Facoltà di economia, per lungo tempo la roccaforte dei keynesiani, anche al giorno d’oggi conta una proporzione elevata sia di docenti che di studenti italiani. Essi hanno rappresentato un’anglofilia economica di sinistra che consiste di pragamatismo, empirismo, e umanesimo, una mediazione tra cultura cantabrigense e cultura del progressivismo italiano.
Come ho accennato prima, questi sviluppi novecenteschi fecero seguito ad una complessa tradizione anglofila ottocentesca, nella quale avevano spiccato non solo i “moderati”, ma anche i radicali come i coniugi Mario e, naturalmente, Giuseppe Mazzini. I Mario e Mazzini ebbero come erede Carlo Rosselli, il cui liberalsocialismo nacque dall’ammirazione per quello che era il “modello laburista” e fabiano nel 1922-24. In seguito fu nello spirito di questa tradizione di sinistra che Pietro Nenni scrisse nella sua “Prefazione” ad una raccolta dei discorsi dell’allora primo mministro laburista Harold Wilson, nel dicembre 1964:
Ad un livello piu’ alto di vita economica sociale e civile [i problemi affrontati da Wilson] sono i nostri problemi italiani. Wilson ha l’enorme vantaggio di affrontarli sulla base di un partito unico e solo dei lavoratori le cui esperienze barricadiere, utopistiche o romantiche risalgono romai a piu’ di un secolo (al luddismo o al cartismo) e che e’ tutto nutrito di concretezza e di relaismo.
Molto, delle fortune presenti del socialismo dipende dal successo dei laburisti inglesi. Ed in tale senso la loro esperienza e’ apparsa ai democratici e ai socialisti di tutto il mondo come particolarmente illuminante e qualificante.
Non si tratta di copiarla. La storia, quando e’ vera, non si copia, ed il laburismo e’ inglese, come per altro verso il bolscevismo e’ russo. Ma del laburismo vale anche per noi italiani, e vorrei dire vale soprattutto per noi, eterni ammalati di dottrinarismo e di astrattismo ideologico e politico, il senso del reale come condizione del divenire del socialismo nell’unita’ dei lavoratori, fuori da ogni concezione della politica, puramente dottrinaria e per cio’ stesso confessionale dogmatica e settaria.
Parte II
Del resto, e’ significativo che uno degli autori inglesi piu’ influenti, piu’ letti e piu’ commentati in Italia sia John Stuart Mill, un radicale liberale con tendenze socialisteggianti. Nell’800 i suoi lavori, compresi quello sulla “soggezione delle donne”, furono prontamente tradotti in italiano, e sia nel secolo XIX, che nel secolo scorso, Mill trovo’ molti ed influenti commentatori italiani. Tuttavia, ancora una volta, non erano gli storici a curarsi di cose inglesi, ma gli economisti, gli studiosi di pensiero politico e i filosofi. Tra i filosofi e i politologi italiani pensatori inglesi quali Adam Smith, J.S.Mill, Jeremy Bentham, Alfred Marshall, R.H.Tawney, Bertrand Russell, Karl Popper e altri hanno trovato sempre un pubblico attento.
Perche’ dunque la storia inglese non e’ maggiormente coltivata dagli storici italiani, data la popolarita’ di molti aspetti della cultura Britannica in questo paese? Qui forse dobbiamo guardare al gruppo di problemi cui allude il titolo di questo intervento – le cosiddette peculiarita’ degli inglesi. C’e’ un Sonderweg britannico – come c’e’ un Sonderweg per ogni altro paese al mondo. La Gran Bretagna e’ l’unico paese europeo che fu superpotenza mondiale fino al 1956 – con interessi e politiche globali ed i mezzi finanziari e militari per porle in atto. La Gran Bretagna e’ una grande nazione che non si e’ mai costituita come tale, e ha sempre insistito sulle diversita’ intranazionali e regionali delle sue parti componenti. I due pilastri dell’equivalente britannico del Sonderweg sono le tre grandi “assenze”: l’assenza della Controriforma o delle Guerre di religione, l’assenza di rivoluzioni più o meno socialiste tra il 1793 e il 1917, e l’assenza di un movimento fascista degno di nota. Mentre l’Italia condivide queste vicende e problemi con i suoi vicini transalpini, non ci sono esperienze simili in Gran Bretagna. Per esempio, senza Controriforma e Rivoluzione francese non ci pote’ essere vero anticlericalismo. Senza invasioni napoleoniche, il sistema del trattato di Vienna diventa qualcosa che gli inglesi potevano considerare con un certo distacco. Lo sviluppo industriale e quello costituzionale arrivarono in ritardo in Europa centro-meridionale, ma la Gran Bretagna era gia’ un modello ai tempi di Montesquieu. Allo stesso modo, gli effetti della Prima g m furono diversi in Europa centrale e in Gran Bretagna, dove non ci fu bisogno di “rifondare” la societa’ borghese, per parafrasare il titolo del famoso lavoro di Charles Maier, perche’ nessuno l’aveva mai minacciata. Il bolscevismo britannico lo si deve studiare al microscopio, lo sciopero generale del 1926 imbarazzo’ tutti quanti, compresi gli scioperanti e soprattutto il Partito laburista. Il fascismo non ebbe mai veri spazi. Poi la Seconda guerra mondiale consolidò l’identificazione del fascismo con “lo straniero” e “il nemico”, e rinvigorì la tradizionale cultura democratica nazionale. Dal 1947 la Guerra fredda fece lo stesso per il comunismo – e qui si deve ricordare che fu propro il ministro degli esteri laburista Ernest Bevin che gioco’ un ruolo chiave nella fondazione della NATO in funzione antisovietica. In altre parole, fu la sinistra britannica a prendere l’iniziativa nel definire il comunismo come fenomeno antinzionale: e questa era una tradizione che si ricollegava alle origini, alla rifondazione del partito nel 1918, con la formulazione del “socialismo parlamentare” come alternativa al socialismo bolscevico, un’invenzione di Arthur Henderson e James Ramsey MacDonald – entrambi, non a caso, ex-liberali.
Nel 1945 la storia italiana come quella tedesca era una storia che sembrava culimare in disastri e sconfitta, negli eccessi nazionalistici e nell’umiliazione nazionale dalla quale i due paesi non si sono ancora completamente ripresi. Percio’ fu molto piu’ facile per Italia e Germania, ma anche per la Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo – che erano stati essi stessi sconfitti e invasi nel 1940 – pensare a forme nuove di organizzazione economico e politica, forme supranazionali come la CEE, che non per la Gran Bretagna: I Sei avevano una storia nazionale che mostrava chiaramente la necessita’ di andare oltre i modelli politici ottocenteschi. La storia Britannica non aveva nessun equivalente di questa dimensione, neanche nella forma della caduta dell’impero – un pericolo tanto temuto da Gibbon nel 1776, che gli statisti del XX secolo seppero evitarlo elegantemente. Percio’ la Gran Bretagna non ha ne’ un equivalente del Vietnam – non ha mai combattuto guerre coloniali senza vincerle – ne’ una crisi netta di distacco dall’eredita’ imperiale.
Ancora negli anni Sessanta proprio Harold Wilson, che Nennic citava con ammirazione, poteva dichiarare che le frontiere della Gran Bretagna erano sulle pendici dell’Himalaya. Esagerava, naturalmente, ma non era vuota retorica. Ancora negli anni Sessanta la coscienza nazionale era sotto il fascino dell’Impero, e, per quanto laburista, Wilson era chiaramente uno statista di stampo imperiale, come del resto lo erano stati Attlee e Churchill. Nel 1946 Churchill aveva espresso un rinnovato impegno verso l’Impero, insieme alla speranza di veder sorgere dale rovine della Guerra gli Stati Uniti d’Europa – senza la Gran Bretagna. Il fatto era che ancora negli anni Cinquanta la Gran Bretagna era al centro – al cuore – di un mondo anglofono che comprendeva un terzo della superficie del globo e un quarto dei suoi abitanti. Tra la meta’ del secolo XIX e la fine del XX secolo era normale per la maggior parte delle famiglie britanniche e irlandesi avere fratelli, sorelle, zii e cugini nei vari territori dell’Impero o del Commowealth. L’emigrazione – che insieme alle Guerre mondiali scolpi’ le trace piu’ profonde e talora penose nella vita degli italiani – per i britannici era un’esperienza assai diversa. Oltre 11 milioni di persone lasciarono le isole britanniche nel XIX secolo, ma non per recarsi veramente “all’estero”. Dovunque andassero, persino negli Stati Uniti, questi emigranti trovano un contesto linguistico, culturale e spesso anche costituzionale molto simili a quelli nei quali erano nati. Per giovani intraprendenti ansiosi di sfuggire alle restrizioni dello stile di vita della classe operaia o delle classi medie, l’Impero era il posto dove andare. La’ sapevano di trovare migliori prospettive economiche, un clima spesso piu’ mite, piu’ facile accesso alla proprieta’ terriera, e salari molto piu’ alti che in Gran Bretagna – eppure avrebbero continuato a godere della protezione di istituzioni e leggi esportate dalla madrepatria.
Cosi’ gli emigranti britannici e i loro parenti che restavano a casa non sentivano il bisogno di curarsi dell’Europa, tranne nei casi in cui sviluppi politici minacciosi dall’altra parte della Manica rendevano inevitabile armarsi per difendersi. Attraverso tutto il periodo dal 1792 al 1945 la percezione diffusa dell'”Europa” tra la gente commune in Gran Bretagna era che si trattasse di un continente infestato da repubbliche instabili, dittatori pericolosi, e monarchi dispotici. Al contrario, l’Impero britannico e – in misura minore – gli Stati Uniti erano le parti del mondo dove certezza del diritto, istituzioni rappresentative, e, in seguito democrazia liberale garantivano il vivere civile.
Questa combinazione tra anglofona sicurezza imperiale e diffidenza insulare per i continentali fu rafforzata dal fatto che – almeno fino al 1956 – la Gran Bretagna era generalmente vista come una superpotenza, una delle tre Grandi che aveva vinto la Seconda Guerra mondiale e conservava interessi e politiche globali e i mezzi economici e militari per difendere i primi e mettere in atto le seconde. Fino al 1918 almeno questo era stato il centro del sistema economico mondiale, la struttura politica della prima vera e completa età della globalizzazione. Come abbiamo gia’ visto, ancora nel 1946 Churchill parlava di un Impero-Commonwealth britannico capace di starsene da solo, in termini di amicizia con gli altri europei, ma distinto e separato da loro, come una specie di entita’ autosufficiente nel mezzo dell’Atlantico. Churchill era nato nel 1874, l’anno in cui Disraeli formo’ il sue secondo governo. Come uno dei contemporanei di Disraeli, Churchill doveva provare simpatia per la visione del grande statista vittoriano, che aveva considerato la Gran Bretagna come una potenza prevalentemente “Asiatica”. Dopo tutto, Churchill aveva iniziato la sua carriera e stabilito la sua reputazione alle frontiere dell’Impero – in Afghanista, Sudan e Sud Africa. Come motli di coloro che votavano per lui, Chruchill era stato per parte della sua vita un emigrante nell’Impero: quando difendeva l’eredita’ imperiale sapeva di cosa parlava. E cosi’ pure lo sapevano i suoi elettori.
Infine, questo impero e questo sistema economico mondiale era un sistema guidato e controllato da un paese di cultura prevalentemente protestante. E questa e’ la considerazione piu’ importante se vogliamo capire “le peculiarità degli inglesei”, come hanno sottolineato storici diversi come E.P.Thomson e Linda Colley. Come scrive Thompson, “[i]l cattolicesimo (inteso come centro di autorita’ spirituale o intellecttuale) venne sgominato in questo paese in modo piu’ completo di quanto avvenisse nel resto della cristianita, fatta eccezione per due o tre casi. Inoltre, esso venne sgominato non da un’ideologia religiosa rivale con la sua propria autorità … ma dalla relativa decomposizione di ogni centro di autorità”. La Gran Bretagna e’ un paese in cui la Riforma protestante ebbe sempre piu’ significato e rilevanza che non la Rivoluzione francese. Insomma, la cultura britannica, come quella nordamericana e quella dei paesi scandinavi, e’ stata trasformata molto piu’ radicalmente di quella tedesca dalla Riforma protestante, della quale in Italia si sa poco e si vuol sapere meno. E’ interessante che questo punto fosse sottolineate gia’ 150 anni fa da John Stuart Mill nella sua corrispondenza con uno dei piu’ colti e perspicaci studiosi italiani del tempo, Pasquale Villari. Commentando il libro di Villari sui caratteri nazionali, nel gennaio del 1862 Mill scriveva al suo amico italiano:
Io non trovo che abbiate dato ai popoli latini piu di quanto loro spetti … Trovo che avete per molti versi giustamente valutato le qualita e I difetti dei popoli germanici. A parte questo, avrei alcune critiche da farvi. Innanzitutto mi sembra che come quasi tutti i pensatori dei paesi latini, non conosciate abbastanza il protestantesimo. Pensate che abbia solo un’efficacia negativa. Nessun inglese potrebbe essere di questa opinione. Il suo lato negativo e quasi secondario, e ha cessato di predominare una volta che la separazione dal cattolicesimo si e pienamente compiuta. È … il suo lato positivo che si e conservato nei paesi protestanti e soprattutto nei paesi anglosassoni. … Per conoscere il protestantesimo bisogna studiarlo nella storia scozzese e in quella del puritanesimo inglese e americano. Sono molto imparziale nel dirvi questo poiche non amo né il presbiterianesimo scozzese, ne il puritanesimo, benché la libertà politica debba molto ad entrambi.
Queste considerazioni si applicano agli studiosi moderni altrettanto bene di quanto si applicassero ai contemporanei di Villari. Come ebbe a sottinieare il grande storico Élie Halévi – che pure non era ne protestante né inglese – per capire la storia britannica bisogna capire il tipo di cultura cristiana che l’ha plasmata negli ultimi tre secoli e mezzo, e che conduce ad un modo di prospettarsi di fronte alla modernità radicalmente alternativo alle fenomenogie comuni nell’Europa meridionale ed orientale: un modo improntato ad una combinazione tra il weberiano “intellettualismo di massa” e un tipo di populismo democratico che ha trovato la sua piu radicale espressione nell’esperienza Americana. Ho trattato altrove di questi aspetti in modo abbastanza particolareggiato e non è il caso che mi ripeta in questa sede. Ma devo sottolineare che, mentre l’importanza di questa tradizione religiosa nel formare la coscienza nazionale Britannica è da tutti accettata per il periodo fino alla Prima Guerra mondiale, c’e una crescente consapevolezza tra gli studiosi inglesi che essa continuo a influenzare chiaramente scelte politiche e atteggiamenti dell’opinione pubblica fino alla Seconda Guerra mondiale e della ricostruzione nel dopoguerra e, in modo meno palese, fino al giorno d’oggi – soprattutto negli anni della leadership di Margaret Thatcher e Tony Blair.
In conclusione, i paradossi che caratterizzano l’atteggiamento italiano verso la Gran Bretagna derivano dalla diversita’ profonda tra i due paesi. Mentre l’Italia condivide con la Germania le esperienze delle invasioni napoleoniche, il 1848, la tarda unificazione nazionale, e il nazifascismo, e con la Francia la stagione giacobina e bonapartista, la Gran Bretagna sfugge a tutti questi momenti accumunanti della storia dell’Europa centro-meridionale. Sfugge, per conseguenza, anche alla modellistica interpretative di gran parte della storiografia italiana. Che poi quest’ultima sia stata prevalentemente dominata da correnti – quali l’idealismo crociano, il marxismo e le varie interpretazioni cattoliche – che non hanno molto in commune con l’empirismo protestante inglese, ha ulteriormente approfondito il senso di distacco e incomprensione culturale che mi sembra caratterizzare l’atteggiamento di molti storici italiani verso la Gran Bretagna.