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Dalla storia coloniale alla storia dell’Africa

[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione dell’autore]

Marco Lenci

Il Mondo visto dall’Italia

Convegno della Sissco

Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002

Nel tentare una panoramica della più recente produzione storiografica italiana relativa all’Africa farò mio quanto ebbe a dire nel 1985 Teobaldo Filesi aprendo il convegno romano svoltosi sotto l’egida dell’Istituto Italo-Africano e chiamato a stilare un bilancio degli Studi africanistici italiani. “Stilare un bilancio degli studi storici italiani sull’Africa a sud del Sahara crea sempre – sosteneva Filesi – un certo imbarazzo. Sia perché il campo si presenta affollato, eterogeneo e spesso fuorviante; sia perché è difficile mantenere un giusto equilibrio nelle indicazioni e nelle valutazioni; sia perché non potendo dire tutto e di tutti né potendo giocare di fantasia si finisce per risultare sopportabili solo a coloro che sono citati” Per ovviare a tali difficoltà anticipo subito che non è mio intendimento fornire qui una panoramica degli studi africanistici in Italia neppure lontanamente commensurabile con quella allora fornita da Filesi che annoverava quasi ottanta note di riferimenti bibliografici concernenti decine e decine di volumi. Ciò non solo per ragioni di spazio, ma e soprattutto per un motivo inerente alla natura stessa di questa sede. Mentre Filesi relazionava ad un pubblico di specialisti della storia dell’Africa (e di discipline affini), nell’ambito attuale, destinato al complesso degli storici contemporaneisti, si tratta invece – a mio parere – di sviluppare solo alcuni concetti di massima su come si è venuta strutturando in Italia la ricerca storiografica sull’Africa. Le mie saranno quindi annotazioni forzatamente generali ed anche generiche. Partirò da una considerazione preliminare: l’africanistica italiana (intesa qui nella sua accezione storiografica) pare avere avuto per anni l’assillo di dimostrare che per fonti, materia e metodologia i suoi studi godevano della necessaria dignità scientifica e ciò nel timore di essere, come disciplina storica, tagliata fuori dalla considerazione della comunità accademica. Insomma gli storici africanisti dovevano dimostrare che scrivere la storia dell’Africa non solo era possibile (oltreché doveroso), ma che lo si sapeva e poteva fare con tutte quelle attrezzature metodologiche proprie della ricerca storiografica più generale. Per anni la storici africanisti italiani si sono così dati l’impegno precipuo di reperire ed inventariare fonti utili e talvolta addirittura indispensabili per la storia dell’Africa. Tale ricerca fu condotta pressoché esclusivamente in Italia e ciò era pienamente legittimo giacché il nostro paese, grazie ad un’antichissima consuetudine con l’Africa, vanta anche sul piano africanistico un patrimonio documentario inestimabile: basti pensare ai fondi giacenti presso gli archivi ecclesiastici (quelli vaticani in primo luogo, ma pure quelli conservati presso le sedi centrali e periferiche dei grandi ordini missionari). Trovate e valorizzate (anche attraverso un’adeguata opera di catalogazione) le fonti, si sarebbe potuto accreditare – questo l’assunto che sorreggeva l’impegno di tutto uno stuolo di studiosi – la nascita di una storiografia africanistica italiana avente come suo originale campo di esplicazione l’approfondimento della conoscenza di quegli aspetti del passato africano attorno a cui gli italiani hanno lasciato testimonianze molteplici e preziose. Si sono così concretizzate varie opere il cui obiettivo principale era costituto dalla messa a disposizione degli studiosi di documenti archivistici (carteggi, memorie, relazioni inedite), opere che nel loro complesso hanno indubbiamente ampliato il corpus di fonti e materiali storiografici relativi all’Africa. Per tale via si è giunti anche alla stesura di valide monografie concentrate in gran parte sulla ricostruzione della vicenda dell’antico regno del Congo letta attraverso la documentazione prodotta dai missionari italiani che vi furono coinvolti a partire dal XVII secolo. Un indirizzo analogo è stato in un certo qual modo seguito pure le la storia coloniale ove l’interesse si è concentrato – né poteva essere altrimenti – sull’area di pertinenza italiana vale a dire quella del Corno d’Africa. Ciò si è esplicato attraverso l’attività condotta per anni dal Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa (istituito per iniziativa ministeriale nel 1952) che aveva per l’appunto tra i suoi compiti quello di reperire e pubblicizzare fonti archivistiche utili per una ricostruzione scientifica del passato coloniale italiano. In realtà l’obiettivo non è stato centrato. Invece di predisporre l’apertura degli archivi coloniali in giacenza presso il ministero degli Esteri, il Comitato (composto in gran parte di personale compromesso con l’esperienza coloniale fascista) si preoccupò soltanto di riservarne l’utilizzazione ai suoi esponenti negandola all’universalità degli studiosi; non solo, ma talvolta ne causò pure la manomissione e la dispersione. Ne seguì una serie di volumi (raccolti nella collana L’Italia in Africa), che, ad eccezione di alcuni come quelli curati da Carlo Giglio sul primo impianto coloniale italiano nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano, si sono rivelati essere di semplice compilazione. Opere che non ebbero nulla di innovativo sul piano storiografico riducendosi per lo più ad una mera autogiustificazione del passato coloniale italiano. In pratica il ritardo degli studi storici italiani relativi all’epopea coloniale nazionale era tale che ancora agli inizi degli anni Settanta in quel campo poteva considerarsi basilare un testo di sintesi quale quello steso da Raffaele Ciasca sul finire degli anni Trenta Quindi una storiografia, quella italiana sull’Africa, nel migliore dei casi valida per il suo taglio scrupolosamente documentario, ma che nel settore degli studi di argomento coloniale non onorava neppure tale impegno. In pratica una storiografia che certo si occupava dell’Africa ma in una maniera “esterna” sul piano metodologico (in quanto utilizzava pressoché esclusivamente documentazione reperibile in Italia) e che appariva per lo meno anacronistica sul terreno degli studi relativi al passato coloniale nazionale giacché lontana dall’avviare un serio dibattito su quella esperienza. Ed è ovvio che in un simile contesto gli studi storici africanistici italiani scontassero nel loro complesso una situazione di sostanziale emarginazione nell’ambito internazionale. Del tutto giustificata quindi l’invettiva che nel 1978 Ruggiero Romano mosse contro l’insieme della storiografia africanistica italiana accusata da una parte di non avere promosso, con tutto l’impegno necessario, un riesame critico della colonizzazione italiana in Africa e, ancor più, di non avere esaminato gli effetti di quella colonizzazione sulla storia e la cultura dei popoli che ne furono vittime. Né a rimediare ciò bastava – a parere del Romano – trattare con lavori spesso di taglio pubblicistico più che propriamente storico delle vicende contemporanee di vari paesi africani seguendo quelle che allora si chiamavano suggestioni terzomondiste. Per la verità proprio nel momento in cui Romano stendeva il suo impietoso giudizio, qualcosa stava cambiando. Infatti, a partire dai primi anni Settanta, era apparsa all’orizzonte una nuova leva di africanisti pronti – sia sul piano della storia generale del continente africano che su quello più specifico dell’esperienza coloniale italiana – a misurarsi con il cambiamento, a seguire nuove metodologie e a dialogare con altre discipline da tempo ben inserite nel panorama africanistico, prima fra tutte l’antropologia. In tale scenario un esito del tutto originale fu rappresentato dalla pubblicazione nel 1981 dell’ottima monografia di etnostoria – la prima esperienza in tal senso realizzata in Italia – dedicata da Alessandro Triulzi alle vicende dei Bertha del Beni Shangul nel corso del XIX secolo. Quando il volume apparve si era nel pieno di un serrato dibattito metodologico tra chi come Filesi pareva prediligere una storia documentaria per fonti ed impostazione essenzialmente esterna all’Africa, e chi (come appunto Triulzi) – prendendo spunto dalla lezione di Jan Vansina, che con il suo studio sull’oralità del 1961 aveva assicurato alla storia dell’Africa la fonte interna che nella visione eurocentrica pareva farle difetto – lasciava intravedere nuove e più feconde possibilità di ricerca. Un dibattito che nel 1979 aveva trovato un suo momento essenziale nella difesa della nuova storiografia africanistica rappresentata dal saggio introduttivo dello stesso Triulzi al volume della collana Il mondo contemporaneo specificatamente dedicato alla storia dell’Africa, saggio a cui si era contrapposta una serie di considerazioni critiche da parte dello stesso Filesi. Quel confronto tra vecchi e nuovi africanisti, che animò pure il già ricordato convegno romano del 1985, può dirsi oggi in buona sostanza superato: la contrapposizione si è composta in un generale sforzo di ricerca che, senza svilire il ricorso alla necessarie fonti esterne all’Africa, si avvale però nel contempo in maniera sempre più massiccia e convincente degli apporti derivanti dalla ricerca sul campo e dal confronto interdisciplinare con altre competenze (prima fra tutte quelle antropologiche). In contemporanea sul piano della storia del colonialismo italiano si abbandonavano le vecchie impostazioni. E’ del 1976 l’uscita del primo della serie dei quattro ponderosi volumi consacrati alla ricostruzione della presenza italiana in Africa Orientale da parte di Angelo Del Boca con cui, superando l’anacronistico giustificazionismo filocoloniale, si forniva una raffigurazione finalmente più realistica di cosa era stata l’esperienza coloniale italiana in quei territori. Un contributo in tal senso era del resto già venuto alcuni anni prima, nel 1971, da un storico non africanista quale Giorgio Rochat con il suo studio sulla preparazione della campagna d’Etiopia. Da allora si è registrata una crescita tumultuosa di interventi, spesso di ottimo di livello qualitativo. Nel 1980 Gianluigi Rossi forniva un attento resoconto dello scenario politico e diplomatico di chiusura dell’esperienza coloniale italiana in Africa all’indomani della seconda guerra mondiale. Qualche anno dopo, nel 1986, compariva il bel volume di Irma Taddia dedicato alla vicenda coloniale dell’Eritrea che, anche attraverso un ampio ricorso alle giacenze archivistiche italiane e straniere, ricostruiva il quadro d’insieme delle trasformazioni sociali ed economiche indottevi dal colonialismo. Quelle trasformazioni sarebbero state, in ultima analisi, all’origine delle rivendicazioni indipendentistiche eritree i cui sviluppi furono oggetto nel 1988 di un informatissimo lavoro da parte di Stefano Poscia. Un momento significativo della nuova spinta verso un maggiore impegno in direzione della ricerca sul fronte della storia coloniale fu di certo rappresentato dal convegno di Taormina, tenutosi nell’ottobre del 1989 sotto l’egida del ministero dei Beni Culturali e Ambientali e dedicato alle fonti ed ai problemi della politica coloniale. Nel corso degli anni Novanta quella spinta non ha fatto poi che confermarsi: in pratica non v’è stata tematica che non sia stata indagata con un serio approccio scientifico e con un dialogo, più o meno serrato, con la letteratura internazionale di riferimento. Senza volere qui pretendere neppure di abbozzare una generale bibliografia (e del resto v’è chi in tale fatica mi ha già preceduto), si possono ricordare, sul piano della visione d’insieme, lo stimolante studio di Nicola Labanca dedicato al primo colonialismo italiano e, in un’ottica di più lungo periodo, il lavoro di Giampaolo Calchi Novati in cui si ricostruiscono le principali linee evolutive del corso storico dell’intero Corno d’Africa prima, durante e dopo l’esperienza coloniale italiana. Ma è forse a livello di studi settoriali che è più facilmente apprezzabile l’imponenza del percorso compiuto negli ultimi anni: sul piano della storia politico-diplomatica è da segnalare l’impegno di Federica Guazzini. Marco Scardigli ci ha fornito una prima ricostruzione scientificamente fondata sul mondo degli ascari. Al vissuto, concepito nell’accezione più ampia, di alcune figure del colonialismo italiano sono stati dedicati saggi ed articoli approfonditi da parte di Barbara Sòrgoni, di Uoldelul Chelati Dirar (uno storico eritreo, ma formatosi in Italia) e delle già citate Guazzini e Taddia, così come si sono delineati alcuni percorsi di vita di africani segnati in vario modo dal colonialismo italiano: lo hanno fatto ancora la Taddia con una raccolta di testimonianze orali e Marco Lenci ricostruendo la vicenda dell’unico eritreo che ebbe a patire per lunghi anni l’esperienza del confino fascista. Passi importanti sono stati compiuti anche nell’indagine dei modi e dei tempi del razzismo coloniale italiano ove, solo per limitarsi alla produzione più recente, meritano di essere citati un bel volume della Sòrgoni ed alcuni densi interventi di Giulia Barrera. Sulla Somalia infine molto promettenti appaiono gli esiti cui sono approdate la ricerche condotte da Federico Battera. Un settore specialistico che ha avuto un buon sviluppo è stato poi quello relativo alla fotografia come fonte importante non solo per la storia coloniale italiana ma pure per la storia dell’Africa nel suo insieme (e qui per fare alcuni nomi, accanto a Triulzi, si possono citare quelli di Luigi Goglia e Silvana Palma). Infine un campo di ricerche, oggi appena delineato per merito di Irma Taddia ma non privo di potenzialità, è quello che tenta di leggere la vicenda del Corno d’Africa in chiave ecologica. Alla rivista “Clio” spetta poi il merito di avere nell’ultimo decennio ospitato vari interventi dedicati agli aspetti giuridici ed amministrativi dell’esperienza coloniale italiana. Né – trattando di riviste – è possibile sottacere l’importanza di “Studi piacentini”, la testata diretta da Del Boca, che, a partire dal 1987, si è venuta affermando come un’autentica palestra di confronto tra studiosi e storici, africanisti e non, impegnati nell’analisi del colonialismo italiano. Non è il caso di continuare, anche se sono certo di aver compiuto delle imperdonabili omissioni. Vorrei comunque concludere questa parte dedicata all’esame dello sviluppo degli studi dedicati all’esperienza coloniale italiana in Africa con una considerazione finale. Se è vero l’assunto da cui siamo partiti – che uno degli assilli dell’africanistica italiana era stato quella di accreditare la sua piena validità e dignità scientifica sul piano storiografico – non si può non rilevare con soddisfazione che un recente numero della prestigiosa rivista “Quaderni Storici” sia stato dedicato proprio al colonialismo italiano ed affidato alla cura di Triulzi. Tale fatto da solo può essere assunto – io credo – a simbolo di un dato importante: il ritardo degli studi storici africanistici italiani denunciato oltre vent’anni fa da Ruggiero Romano può dirsi oggi per lo specifico campo della storia coloniale brillantemente colmato. La sopra ricordata lunga stagione autoassolutoria che caratterizzò gli studi sul colonialismo italiano in Africa fu di certo assecondata anche dal fatto che il nostro paese, privato dei suoi possessi coloniali a seguito della sconfitta bellica, non dovette misurarsi in maniera diretta con i tormenti, gli stimoli e le tragedie del processo di decolonizzazione. A ciò deve essere imputato anche un atteggiamento di sottovalutazione dei nuovi temi emergenti a livello internazionale nella storiografia africana che altrove erano invece incoraggiati dal confronto diretto dell’intellettualità della potenza coloniale con le élites e le popolazioni dei territori sottomessi. Gli africanisti italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, per lo più formatisi nel quadro della politica coloniale, non furono spinti alla revisione dei loro assunti dall’incalzare dell’indipendentismo africano come avvenne per i loro colleghi francesi ed inglesi e rimasero così ingabbiati in schemi di lettura desueti sino a ridurre la grande portata emancipatrice della decolonizzazione ad un esito benefico della stessa esperienza coloniale. Fu questa la posizione sostenuta da Carlo Giglio al XII Congresso internazionale di scienze storiche tenutosi a Vienna nel 1965 in polemica con chi cercava di dare maggiore rilievo al ruolo svolto dagli attori africani nel processo che stava conducendo il continente all’indipendenza. Un simile atteggiamento condusse inevitabilmente a marginalizzare ogni impegno per una riscrittura “decolonizzata” della storia dell’Africa. Il panorama tuttavia prese a mutare sul finire degli anni ’60 quando, nel quadro della mobilitazione politica ed ideologica di sostegno alle lotte di indipendenza, alcuni giovani studiosi presero con entusiasmo a fornire una lettura più africanocentrica della decolonizzazione e dei suoi più immediati sviluppi e ciò sotto il segno di una marcata influenza di suggestioni neo-marxiste operanti nel campo della storiografia ed in quelli collaterali dell’antropologia, della sociologia, e dell’economia. In tale contesto si collocò – solo per citare un caso – il volume Le rivoluzioni dell’Africa nera dedicato nel 1967 da Calchi Novati al variegato processo di decolonizzazione operatosi nell’Africa subsahariana: opera di rapida sintesi ma nuova nel quadro, allora stagnante, della nostra africanistica. Da allora la storiografia africanistica italiana ha seguito un costante processo di sprovincializzazione che l’ha portata, soprattutto a partire dal decennio scorso, ad un coinvolgimento sempre più diretto nelle tematiche proprie del dibattito internazionale. Ciò è testimoniato, fra l’altro, dalla comparsa nel giro di un biennio di due opere di largo respiro: l’una dovuta a Claudio Moffa, apparsa nel 1993, e l’altra, pubblicata nel 1995, frutto del lavoro di Anna Maria Gentili. Il volume di Moffa (L’Africa alla periferia della storia) intende fornire una lettura di lunga durata del divenire storico della porzione subsahariana del continente africano. Si tratta di un’opera decisamente ambiziosa che tenta di dare un’interpretazione generale delle cause profonde dell’arretratezza dell’Africa al di là delle più immediate ragioni collegate agli effetti deleteri indottivi dalla dominazione coloniale. Insomma Moffa, attraverso una lettura dell’intera vicenda africana dalla fase precoloniale ad oggi, cerca di spiegare la costante permanenza del continente per l’appunto alla “periferia della Storia” (come indicato nel titolo). Moffa si muove nell’ambito di un’impostazione che intende superare il revisionismo storiografico, nato sulla scia delle lotte indipendentistiche, che, rovesciando la immagine coloniale di un’Africa selvaggia e “senza storia”, approdava alla raffigurazione di una sorta di Africa Felix precoloniale, poi irrimediabilmente violentata dall’intrusione occidentale. Per Moffa l’arretratezza è invece un elemento strutturale e di lungo periodo della realtà africana un cui elemento esplicativo sarebbe da individuarsi nella conflittualità interetnica connessa ad un cosiddetto “modo di produzione intertribale” inteso come momento intermedio tra un più elementare modo di produzione primitivo ed un più strutturato modo di produzione tributario. In conclusione un libro che ha il pregio – come rivelava Carlo Carbone in una nota pur non esente da critiche anche di sostanza – di aver trasferito nel panorama italiano i termini di un dibattito già ben sviluppato all’estero ma assai meno frequentato in Italia per una tradizione di studi avulsa da generalizzazioni coraggiose ma non prive di rischi. Rischi del resto puntualmente rilevati da Calchi Novati che proprio nella pretesa del volume di giungere, senza il supporto di dati incontestabili, ad una sorta di “legge generale” dell’arretratezza del continente, ne ha colto un limite intrinseco. Assai diverso per impianto e concezione appare il volume dovuto ad Anna Maria Gentili (Il leone e il cacciatore) che, in oltre quattrocento pagine, tenta di fornire una lettura unitaria della vicenda storica dell’Africa nera nel corso degli ultimi cruciali due secoli. Un’opera che ha il merito indubbio di essere venuta a colmare l’assenza di una sintesi aggiornata e criticamente valida per chiunque voglia – per motivi professionali e di studio – comprendere il corso dei più recenti sviluppi africani. Ben pochi erano stati i tentativi operati in tale senso dagli studiosi italiani sino ai primi anni Settanta. Due opere di riflessione generale erano invero poi apparse (il già citato volume dedicato all’Africa per la collana Il mondo contemporaneo, che conteneva però anche interventi di studiosi stranieri, e l’altro, intitolato Africa come storia, curato nel 1980 dalla stessa Gentili), ma entrambe, concepite per problematiche, non erano volutamente organizzate in un tessuto narrativo lineare. La carenza di una “manualistica” adeguata, prima della comparsa del lavoro della Gentili, era tale che in pratica la scelta dei docenti di storia dell’Africa di rivolgersi nell’esplicazione della loro attività didattica alla produzione straniera era poco meno che obbligata. Ovviamente un libro di così vasta concezione dedicato ad un continente tanto variegato come l’Africa non poteva non presentare un andamento diseguale: migliore e più convincente là dove la studiosa si sofferma su aree di cui ha più ampia ed approfondita conoscenza (in primo luogo il Sudafrica e il Mozambico); più esposto a critiche là dove la Gentili si misura con regioni e problemi su cui ha minore dimestichezza. Ma, in generale sempre calzanti e stimolanti appaiono le tante pagine di commento critico dedicate ai grandi snodi che la narrazione via via viene intersecando e ciò a partire dalla lunga introduzione che costituisce una vera e propria puntualizzazione su concetti e tematiche chiave della storiografia africanistica. Si tratta in definitiva di un apprezzabilissimo volume di manualistica universitaria, almeno per il tipo di università in cui molti di noi hanno insegnato sino a ieri. Dovremmo comunque chiederci se un lavoro così denso sia oggi pienamente fruibile per gli studenti inseriti nel nuovo modello universitario – così attento a rendere più agevoli i percorsi didattici – o se non si debba tentare di procedere verso sintesi più essenziali seguendo l’esempio di Calchi Novati che, nell’ormai lontano 1987, compilò per la collana dei Libri di base l’agile volumetto dedicato per l’appunto all’Africa. Va da sé che lavori come quello della Gentili manterrebbero un loro ruolo e peso, ma solo per i momenti più avanzati dell’insegnamento accademico. Un terzo volume merita, a mio avviso, d’essere collocato tra quelli specificatamente dedicati ad una visione d’insieme della storia e della realtà africane. Un lavoro breve, ma ricco di problematicità, pubblicato da Calchi Novati. Ci riferiamo a Dalla parte dei leoni, apparso nel 1995 in contemporanea quindi con il libro della Gentili. Si tratta di una libro di taglio non accademico e dunque non specificatamente concepito per i cultori della materia, ma che tuttavia offre notevoli spunti di riflessione su svariate tematiche quali la percezione deformata dell’Africa da parte della cultura occidentale, le difficoltà incontrate dall’Africa nella riappropriazione della sua storia, il complesso e contraddittorio inserimento dell’Africa nel processo di globalizzazione. L’esperienza del colonialismo vi è vista come una dato omogeneizzante per tutto il continente pur considerando la diversità sia delle varie pratiche coloniali sia degli ambiti regionali, culturali e storici in cui la realtà africana si è venuta articolando. Ciò è particolarmente vero sul piano della statualità giacché il colonialismo ha disseminato in tutta l’Africa lo stesso tipo di Stato: un entità ispirata alle più svariate coloriture ideologiche (neocoloniale, democratica, riformista financo rivoluzionaria), ma sempre immancabilmente esogena rispetto alla consuetudine continentale. Lo Stato forgiato dal colonialismo è oggi – secondo Calchi Novati – una realtà così radicata da non poter più essere soppiantato da qualsiasi spinta, vera o supposta che sia, verso un qualche recupero dell’autenticità. In un simile contesto i sedimenti tradizionali, che pure sussistono, appaiono destinati ad essere assorbiti se non addirittura annullati attraverso una cooptazione di sostanza nella nuova struttura statuale. La loro sopravvivenza può essere solo prolungata in quanto espressioni di ideologie etnicistiche utilizzate strumentalmente in contese che hanno per obiettivo l’occupazione o la spartizione del potere nazionale. Quest’ultimo aspetto è stato oggetto di una replica da parte di Pier Luigi Valsecchi per il quale non si può ridurre l’autorità tradizionale africana ad una traduzione istituzionale dell’etnia che avrebbe come sbocco obbligato la regressione etnicistica. L’etnia non è qualcosa di compiuto e definito che si rapporta in maniera compatta ed omogenea con la dimensione politica delle società africane. Già nel passato precoloniale l’Africa ha conosciuto l’articolazione di forme di società politica comune, interetniche, transetniche o superetniche. Per cui, se è vero che il modello statuale indotto dal colonialismo appare oggi sostanzialmente accettato e condiviso, ciò non significa però che esso annulli la componente tradizionale e permanente del vivere sociale africano. Al contrario si può supporre che la tradizione continui ad avere un tipo di legittimità ed autonomia reale e non fittizio. Ci siamo prolungati sul confronto tra Calchi Novati e Valsecchi giacché i temi di quel dibattito sono quelli che caratterizzano oggi larga parte della riflessione storiografica e politologica africanistica italiana, in particolare là dove essa si è venuta intersecando con la ricerca antropologica. In effetti uno dei settori su cui si è meglio precisato l’impegno di studiosi italiani africanisti – storici ma anche antropologi – è stato quello dell’etnia. Al riguardo si è cercato – e lo si è fatto in maniera inevitabilmente variegata – di rispondere ai seguenti quesiti: l’etnia è una costruzione mitica o un elemento reale? Quale il ruolo da essa giocato nel diverse strategie coloniali? Come il riferimento etnico si è venuto modificando nell’epoca postcoloniale? Gli africanisti italiani, anche con attive ricerche sul campo, sono giunti a dare nel complesso una risposta articolata: l’esistenza dell’etnia ed il suo peso ne sono usciti confermati, ma, al tempo stesso, non si è mancato di sottolineare il loro diverso posizionarsi in ambito socio-politico a seconda del variare del contesto storico in cui essa si è venuta collocando. Su tale piano un interessante momento di riflessione è stato realizzato nel corso del convegno svoltosi a Teramo nel 1997 incentrato proprio sul dibattito attorno all’etnia che ha visto confrontarsi studiosi stranieri e italiani di formazione storica, antropologica e sociologica. La problematica etnica ha rappresentato un tema obbligato in particolare per chi ha scelto come propria area di approfondimento la regione dei grandi laghi e più precisamente, in tale ambito, il caso del Ruanda e Burundi salito dolorosamente alla ribalta internazionale a seguito dei terribili sanguinosi disordini della metà degli anni Novanta. In relazione a tale area è da segnalare l’attività di studio di Carlo Carbone che pare essere giunto alla conclusione che, pur esistendo tra gli hutu ed i tutsi, una differenziazione in qualche modo ascrivibile ad una specificità etnica pur temperata storicamente da una forte osmosi, ciò non avrebbe dovuto necessariamente comportare il conflitto. Al contrario si sarebbe potuti approdare – come del resto era stato in epoca precoloniale – a forme di pacifica cooperazione e convivenza se solo la pratica amministrativa perseguita dalle potenze coloniali (quella tedesca prima e poi la belga) non avesse fatto assumere alla differenziazione etnica quella coloritura di contrapposizione ideologica e politica poi degenerata verso forme di conflitto assoluto. Abbiamo sopra accennato a come l’africanistica italiana si sia nel corso degli ultimi decenni caratterizzata per una sempre più intensa collaborazione tra i settori della storia e dell’antropologia. Ciò è avvenuto in sintonia con quel processo di avvicinamento tra le due discipline che ha portato alla definizione dell’antropologia storica e dell’etnostoria come nuovi campi in cui si sono venute concentrando le rispettive competenze specifiche. Si sono così avuti contributi in cui acquisizioni prodotte da ricerche di tipo antropologico si sono incrociate con risultati tratti da indagini di tipo propriamente storico; esemplare in tal senso lo studio condotto da Alice Bellagamba relativo ad alcuni contesti regionali del Gambia pubblicato nel 2000. Un ambito ove la simbiosi tra la ricerca storica ed antropologica si è fatta più stringente e promettente è stato di certo quello concernente i gruppi akan compresi negli Stati del Ghana e della Costa d’Avorio. Lo studio interdisciplinare dell’insieme akan nella dimensione della lunga durata ha permesso l’avvio di un approccio di ricerca che dovrebbe rendere l’oggettiva continuità della vicenda storica di quelle popolazioni riconducendo l’esperienza coloniale alla dimensione di un semplice “passaggio”. E’ questo l’obiettivo che ha mosso un gruppo di studiosi animato sul versante storico dal sopra ricordato Valsecchi e su quello antropologico da Fabio Viti e che ha già concretizzato un importante momento di puntualizzazione in occasione del convegno internazionale di studi akan tenutosi ad Urbino nel 1996. Ma su ciò meglio di me relazioneranno gli stessi Viti e Valsecchi così come tutti gli altri colleghi chiamati a riferire su particolari casi di studio potranno apportare a questa traccia introduttiva tutte le necessarie critiche e integrazioni. Una traccia introduttiva che – spero – abbia per lo meno avuto il merito di attestare i modi ed i tempi attraverso cui la storiografia africanistica italiana ha contribuito a far sì che oggi l’immagine dell’Africa “vista dall’Italia” (per riprendere il titolo del presente convegno) sia più aderente alla realtà di quanto non lo sia stata sino a non molti anni or sono.