Loris Zanatta
Università di Bologna
[versione provvisoria, da non citare senza autorizzazione]
Sintesi e bilancio di un annoso dibattito
Il Mondo visto dall’Italia
Convegno della Sissco
Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002
“Populista sarà lei!”. L’epiteto, magari altrimenti espresso, riecheggia da tempo in Italia. Dove il populismo suole essere personificato nella sua espressione ritenuta più pura, più certamente populista: il peronismo. Peronisti ne sono stati additati a destra e a manca, negli ultimi tempi. Talvolta, invero, con certa fantasia, per esempio quando è capitato di udire la denuncia del “giustizialismo peronista” rivolta ai cultori delle manette facili, quasi che il “justicialismo” peronista fosse la medesima cosa del “giustizialismo giudiziario” nell’accezione assunta nel dibattito italiano. Ma se lo spettro del peronismo si aggira e imperversa, benché le sue effettive fattezze siano ignote ai più, e se lo sprezzante monito contro il pericolo di vedere l’Italia ridotta ad una “repubblica sudamericana” ritorna giorno dopo giorno, forse c’è un motivo. Al di là dello stereotipo, dell’ignoranza e dell’immancabile altezzosità provinciale. Se si evoca quello spettro, se si addita una realtà vaga ma temuta, è non solo perché si vorrebbe scacciarla, ma anche perché se ne percepisce la presenza. Tanta angoscia per il pericolo populista, insomma, è lo specchio della sua esistenza tra noi; tanto sprezzo per la “deriva latinoamericana” non è che l’intuizione che l’America Latina, come la si suole immaginare, non è così lontana né diversa.
Questo incipit può sembrare astruso, ma ha un senso. Ciò che in fondo dimostra il caso italiano è l’urgenza, e la pertinenza, di costruire un ponte – teorico, va da sé – che colleghi la riflessione europea e quella latinoamericana sul populismo. E ciò come parte di uno sforzo più generale per affinare una categoria concettuale sfocata finché si vuole ma la cui persistenza nel tempo e nello spazio rivela come dietro di essa si celi un “nucleo”, un’anima, un grumo di elementi che inducono a prenderla sul serio ed a codificarla il più possibile. Non che sforzi analoghi non se ne siano fatti, e tanto meno che non se ne stiano facendo. Basti pensare al primo e più ambizioso di essi, quello del volume curato da E. Gellner, e G. Ionescu nel 1969, oppure ai più recenti lavori di autori come Guy Hermet e Paul Taggart, tanto per nominarne alcuni dei non molti che hanno affrontato la storia ed il concetto di populismo abbracciando insieme Europa e America Latina, oltre ai più classici casi russo e nordamericano e svariati altri. Nel complesso, tuttavia, la riflessione europea e quella latinoamericana, o per essere più precisi la riflessione sul populismo come categoria generale e quella sul populismo dell’America Latina in particolare, hanno camminato a lungo su binari paralleli, al punto di dare talvolta l’impressione che il medesimo termine si impiegasse, chissà poi perché, per riferirsi a fenomeni tra loro non assimilabili. Il che, è evidente, non è che giovasse alla sua cogenza, tanto che in una fase durante la quale perlomeno in America Latina il populismo sembrò entrare in un irrimediabile declino, all’inizio degli anni ’80, il suo impiego parve votato all’abbandono. Nel caso del populismo latinoamericano, in particolare, l’approccio “cumulativo”, o “strutturalista”, prevalso per quasi un trentennio a partire dagli anni ’60, costruito cioè su una molteplicità di fattori esplicativi al vertice dei quali troneggiavano le strutture socio-economiche dei paesi della regione, tendeva a vedere nell’esperienza populista dell’America Latina un fenomeno tipicamente “periferico”, legato alla peculiare modernizzazione tardiva di quell’area, e dunque diverso nella sostanza da altri processi storici che pure, in precedenza e altrove, erano a loro volta stati chiamati populisti. Emblematica, in tal senso, era l’importante raccolta di saggi sul populismo latinoamericano curata nel 1982 da Michael Conniff, la quale comprendeva due capitoli introduttivi sul populismo russo dei narodniki di fine ‘800 e sul People’s Party statunitense segnalandone tuttavia l’inassimilabilità ai casi di populismo latinoamericano trattati in quel volume, in virtù delle loro diverse basi sociali e dei difformi contesti economici.
E’ evidente che tale approccio era a suo modo figlio delle due maggiori, e contrapposte, teorie dello sviluppo dell’epoca, quelle della modernizzazione e della dipendenza, e della loro comune propensione a ricondurre in forma più o meno meccanica i fenomeni politici a determinanti socio-economiche. In tal senso, e benché naturalmente le due scuole di pensiero non esprimessero il medesimo giudizio sul populismo, si comprende che quello latinoamericano apparisse loro un fenomeno non solo peculiare di quella regione, ma anche storicamente delimitato ad una precisa fase del suo sviluppo tardivo, coincidente sul terreno economico con il take-off dell’industrializzazione, su quello sociale con la massiccia rottura dei rapporti di produzione tradizionali e dunque con la creazione di un esercito di lavoratori disponibile per la mobilitazione politica, e sul terreno politico con l’incipiente passaggio dalla politica “di pochi” a quella di massa. Certo, chi più chi meno i fautori di quell’interpretazione, peraltro prodiga di risultati e spesso suffragata dall’evidenza empirica nei casi dei populismi classici della metà del XX secolo, riconoscevano che essi solevano condividere talune caratteristiche politiche, come la tendenza ad un esercizio personalista e svincolato da procedure istituzionali dell’autorità, o un’accentuata propensione per uno stile politico plebiscitario, oppure un peculiare rapporto diretto, emotivo e simbolico tra un leader carismatico ed i seguaci del “movimento”. Ma tali elementi restavano ai loro occhi perlopiù accessori, secondari, ed in ogni modo “sovrastrutturali” e privi di sostanziale autonomia rispetto al nocciolo duro del populismo. Nocciolo che era solitamente individuato nelle politiche economiche orientate verso l’industrializzazione e la protezione del mercato interno adottate dai regimi populisti o invocate dai movimenti politici di matrice populista, i quali solevano fare leva su un robusto intervento statale nella vita economica, finalizzato non solo a trasferire risorse dal settore primario-esportatore a quello urbano-industriale, ma anche a ridistribuire ricchezza a favore dei ceti medi ed operai, con l’effetto di dare vita a quella formazione “multiclassista” che sarebbe stata così peculiare dei populismi latinoamericani.
Ora, non è certo il caso di ripercorrere qui nel dettaglio la storia del concetto di populismo negli studi latinoamericanisti. Taluni autori l’hanno in parte già fatto, e comunque tale lavoro trascenderebbe di gran lunga gli scopi di questo intervento. Basti qui osservare come talune circostanze abbiano indotto, all’incirca nell’ultimo decennio, a rivederne le tradizionali interpretazioni. Non che in proposito si sia raggiunto alcun consenso nelle scienze sociali: tutt’altro. La stessa interpretazione “cumulativa” o strutturalista del passato non è affatto stata accantonata, benché i suoi cultori si siano sforzati di adattarla alle nuove circostanze, e quindi di smussarne una certa tendenza ad eccedere in determinismo. Ma di nuovo vi è soprattutto la crescita di una corrente di studi oramai piuttosto nutrita che del populismo si sforza di elaborare un idealtipo incentrato prioritariamente sulle sue caratteristiche politiche, quando non su quei suoi elementi ricorrenti che ne farebbero addirittura una specie di ideologia: un azzardo teorico non da poco, se si considera che uno dei capisaldi, per non dire degli stereotipi, ricorrenti nella tradizionale lettura del populismo è che esso sarebbe aideologico, meramente pragmatico, troppo opportunista per restare legato ad un insieme di valori più o meno normativi. Non è, sia ben inteso, che questa corrente di studi, in crescita sulle due sponde dell’Atlantico, si disinteressi degli elementi economici e sociali che si accompagnano ai fenomeni populisti. Tutt’altro. Tuttavia preferisce lasciare questi ultimi alla rilevazione empirica caso per caso, individuando piuttosto nella dimensione politica, rivendicata nella sua autonomia, il “cuore” del populismo, il quale appare a taluni un mero “stile” politico, ad altri una “strategia” politica, ad altri, per l’appunto, qualcosa di molto simile ad un’ideologia. Comunque sia, visto in tale prospettiva esso appare un fenomeno che può adattarsi a contesti socio-economici anche assai diversi tra loro.
Ma quali sono le circostanze che hanno alimentato tale revisione concettuale di un concetto dato per morto o quasi? Innanzitutto, la comparsa di una rumorosa e robusta ondata di nuovi movimenti politici dall’aspetto decisamente populista in Europa, dapprima in forma più o meno anodina negli anni ’70 in Scandinavia e poi con sempre maggiore vigore in Francia, Belgio, Austria e Italia negli anni successivi ha riacceso l’interesse delle scienze sociali, questa volta soprattutto di quelle europee, per un termine ed un fenomeno da cui l’Europa, oramai proiettata verso la postmodernità, si riteneva immune. Ma anche in America Latina il fantasma populista è ricomparso dopo che la lunga ondata di militarismo degli anni ’60 e ’70 e la restaurazione della democrazia nel corso degli anni ’80 avevano fatto ritenere ai più che esso fosse scomparso, inghiottito dall’approdo finalmente virtuoso di un interminabile processo di modernizzazione politica costato lacrime e sangue. Ben presto, infatti, dapprima nei media e nei dibattiti politici, poi sulle pagine delle riviste accademiche, si è preso a definire senz’altro “populiste” talune peculiari leadership emerse durante la nuova stagione politica dell’America Latina: per esempio quella di Fujimori in Perù, o quella di Menem in Argentina, per limitarci alle più note. Leadership, tra l’altro, che definire “populiste” appariva specialmente fuorviante, per non dire irritante, agli occhi dei sostenitori del paradigma interpretativo “cumulativo”, dal momento che quei nuovi populismi perseguivano politiche economiche neoliberali ed esprimevano alleanze di classe del tutto diverse o addirittura contraddittorie rispetto a quelle dei populismi classici. Politiche ed alleanze che viceversa non apparivano necessariamente in contrasto con il concetto di populismo nella prospettiva della nuova corrente di studi, per la quale, a prescindere da esse, quei nuovi populismi evidenziavano taluni caratteri politici – la leadership carismatica, il loro richiamo al popolo contro determinate élites, l’insofferenza verso i vincoli istituzionali in nome del mandato popolare ecc. – del tutto tipici del populismo. L’emergere di una nuova ondata populista, peraltro, non si può neppure dire che avesse del tutto prosciugato la tentazione del ricorso alle forme più classiche di populismo, come nei casi della presidenza di Alan García in Perù negli anni ’80, in parte di quella successiva di Abdala Bucaram in Ecuador o di quella venezuelana attuale di Hugo Chávez, sempre per restare ai casi più eclatanti. A conferma, in qualche modo, che la democratizzazione non toglieva all’America Latina la palma di continente populista per eccellenza.
Insomma, di qua e di là dall’Atlantico, e sorvolando sulle correnti neopopuliste che nel frattempo andavano prendendo corpo negli Stati Uniti, nell’Europa orientale e balcanica ed altrove, si verificano da tempo dei fenomeni politici più o meno intensi a seconda dei luoghi e delle diverse fasi della vita politica e sociale, ma che comunque assumono particolare forza proprio in Italia, Francia, Belgio ed Austria nel continente europeo ed in paesi come Perù, Argentina, Venezuela, Ecuador in America Latina, i quali presentano taluni aspetti che evocano i populismi classici, quelli alla Boulanger, alla Poujade o alla Uomo Qualunque in Europa, per intenderci, o alla Perón in America Latina. O almeno così è parso a molti osservatori e, come si diceva, ad una nutrita schiera di studiosi che, in Europa e in America Latina, hanno cominciato ad interrogarsi sui nessi tra vecchio e nuovo populismo, e dunque sulla natura stessa di questo fenomeno politico ritornato inaspettatamente in voga. Come si diceva, ne è derivata una forte spinta alla revisione del concetto “cumulativo” di populismo. Dato che esso, o perlomeno fenomeni che si era portati a definire populisti, rinasceva in un contesto sociale ed economico assai diverso da quello che sia in America Latina che in Europa l’aveva visto nascere in passato, non solo la sua dimensione politica ed ideologica, e cioè quella che più di ogni altra pareva fare da trait d’union tra populismo classico e neopopulismo, ha recuperato l’autonomia fino ad allora negatale, ma ancor più ne ha risentito la pretesa che il populismo sarebbe un fenomeno temporalmente delimitato, intimamente connesso ad una precisa fase nello sviluppo economico e sociale. Insomma, si poneva il problema di capire come fosse possibile che esso si ripresentasse, seppur con significativi mutamenti rispetto al passato, in luoghi ed epoche per tanti aspetti così diversi tra loro.
Sui passi fatti nel tentativo di rispondere a tale interrogativo si tornerà. Per adesso è bene precisare che non è affatto scontato, e comunque non condiviso da tutti, che il concetto di populismo costruito a partire dai suoi elementi politici o ideologici possa abbracciare sia i nuovi populismi europei che quelli latinoamericani. Non è detto, per fare un esempio, che il populismo sia davvero comparabile, a meno di ulteriori distinzioni, da un lato nel contesto europeo di democrazia consolidata, dove suole manifestarsi come reazione contro il moltiplicarsi delle funzioni svolte dal “polo costituzionale” della vita politica, cioè da quell’insieme di norme e istituzioni sottratte alla deliberazione diretta del “popolo sovrano”, e dall’altro nelle fragili democrazie latinoamericane, dove viceversa il populismo appare spesso come un macigno che ostruisce proprio la sedimentazione di quel “polo costituzionale”. E neppure è certo che il “welfare chauvinism”, quello caro ai Bossi ed agli Haider e che per molti versi si impone come uno dei caratteri più nuovi e distintivi del rinato populismo europeo, sia comparabile con le massicce dosi di patrimonialismo e patronage cui sono ricorsi i Menem ed i Fujimori. Non deve sorprendere, dunque, che il cammino da fare per portare su un medesimo terreno la riflessione sui due gruppi di casi sia ancora lungo e pieno di ostacoli ed obiezioni più o meno fondate. Per quanto riguarda l’America Latina, per esempio, è chiaro indice di questa difficoltà ad uscire da una certa pervicace insularità degli studi in materia il fatto che la nuova raccolta di saggi curata da Michael Conniff nel 1999 non accogliesse alcuna eco del ricco dibattito che nel frattempo era andato sviluppandosi in Europa sul populismo. Una certa difficoltà ad allargare l’orizzonte oltre i confini della propria realtà la si riscontra a dire il vero talvolta anche sul versante europeo degli studi sul populismo, dove comunque sono tutto sommato abbastanza frequenti i riferimenti sia empirici che teorici al populismo latinoamericano, così come agli studi su di esso, a conferma della rilevanza riconosciuta a quel grande laboratorio del populismo che è stata e continua ad essere l’America Latina per la formulazione di un idealtipo capace di spiegarne la ricorrenza e pervasività. E’ così, per fare solo un esempio, che l’importante numero monografico dedicato al populismo dalla rivista francese Vingtième Siècle nel 1997 ospitava ben due saggi sui casi dell’America Latina, e che anche tra gli interventi dedicati più in generale al populismo nella storia e come concetto non erano rari i riferimenti all’esperienza latinoamericana.
L’Italia e il populismo latinoamericano
Il contributo italiano al dibattito internazionale sul populismo in generale e su quello latinoamericano in particolare è stato episodico, discontinuo. In taluni casi, tuttavia, ha fornito importanti o addirittura decisivi contributi per farlo progredire. Ricostruirlo nelle sue diverse fasi e tendenze meriterebbe una apposita ricerca che resta ancora da fare e la cui mancanza mi giustifica, almeno in parte, nella scelta di dedicarvi appena qualche breve cenno, senza pretese di completezza, ed anzi quanto mai selettivo, finalizzato a sostenere la necessità che in Italia vengano ripresi con un vigore andato ultimamente un po’ perduto gli studi sul populismo latinoamericano in una prospettiva comparativa; tale cioè da abbracciare non solo l’America Latina, ma la stessa Italia. Il fatto che il nostro paese sia diventato oggetto di innumerevoli studi nell’ultimo decennio proprio in virtù del terreno eccezionalmente fertile che pare offrire allo sviluppo del populismo dovrebbe indurre i latinoamericanisti nostrani, la cui familiarità con questa categoria storiografica si suppone sia assodata, a fornire un contributo empirico e teorico ragguardevole all’elaborazione di un idealtipo di populismo applicabile ai casi europei come a quelli d’oltre atlantico.
Comunque sia, si diceva, l’apporto italiano non è stato per nulla trascurabile. A cominciare, ovviamente, da quello pionieristico di Gino Germani, i cui studi sociologici sul peronismo aprirono la strada a quella definizione “cumulativa” del populismo, costruita a partire dai materiali forniti dallo studio delle strutture sociali ed economiche e dalle peculiari composizioni di classe che ne derivavano, destinata a dominare il campo, seppure in versioni talvolta anche significativamente modificate rispetto alla sua, per circa un trentennio. La sua idea, qui semplificata, che quei fenomeni nazional-popolari di cui il peronismo era il prototipo fossero in sostanza delle forme di mobilitazione sociopolitica nelle quali dei leader demagogici manipolavano delle masse “arretrate”, partiva da un’attenta osservazione della realtà sociale argentina e latinoamericana, la cui peculiare struttura gli appariva plasmata dal carattere “periferico” della regione. Era proprio tale carattere, infatti, ed il rapporto di dipendenza dal “centro” che esso contemplava, a far sì che le élite latinoamericane fossero percepite da larga parte dei settori popolari come estranee al tessuto nazionale a causa della loro organicità con le potenze “imperiali”. Ed era il carattere segmentato di quelle società, dove convivevano in simultanea realtà appartenenti a epoche diverse, a spiegare come la nazionalizzazione dell’arena politica vi mettesse a contatto mondi impossibilitati a comunicare. Il che si rifletteva nel fatto che le “masse arretrate”, cioè di recente urbanizzazione, che egli riteneva, in parte rroneamente, avessero rappresentato la principale base del peronismo, si mostrassero disponibili a forme di mobilitazione politica che rompevano gli argini ristretti, e peraltro non rispettati, delle istituzioni liberal democratiche approntate dalle élite che avevano “creato” il paese.
Benché, tuttavia, Germani esprimesse una chiara convinzione che il fenomeno politico populista derivasse quasi in linea diretta da quelle condizioni strutturali, intuì anche taluni elementi che ritroveremo al centro delle nuove interpretazioni del populismo. La constatazione che il peronismo, di cui egli era acerrimo nemico, aveva rappresentato un peculiare canale di integrazione delle masse, senz’altro alternativo nella sua forma autoritaria a quello della democrazia rappresentativa, ammetteva in fondo implicitamente l’esistenza, in vasti strati sociali, di un immaginario “democratico” diverso da quello liberal-democratico. Un immaginario essenzialmente organicistico, potremmo aggiungere, che trovava nello sfinimento dello spirito della democrazia rappresentativa, così tante volte tradito dai suoi stessi apostoli, una portentosa fonte di vitalità e legittimazione. Allo stesso modo, sottolineando l’importanza nell’attrarre consensi verso il peronismo rivestita dalla sua promessa di riscatto della “dignità” dei settori popolari, Germani mostrava di intuire la straordinaria rilevanza della dimensione etica nella conformazione del fenomeno populista. Un elemento, come si vedrà, tutt’altro che accantonato dalla riflessione più recente.
Negli anni successivi, naturalmente, gli studi italiani che in modo più o meno diretto ed esplicito si sono imbattuti nel populismo si sono mossi, di solito in modo originale, entro le sponde dell’interpretazione strutturalista, il cui paradigma risaliva per l’appunto a Germani. In sintonia, peraltro, con l’evoluzione degli studi sul populismo latinoamericano che allo stesso tempo si realizzavano fuori dall’Italia. In tal senso la lettura del populismo proposta da Marcello Carmagnani riconduceva espressamente il populismo come fenomeno politico alla particolare composizione di classe che lo sviluppo dipendente aveva determinato in America Latina. In questa prospettiva il populismo appariva come una risposta di tipo nazionalista alla diffusa percezione che le società latinoamericane fossero attraversate da una profonda frattura che ne separava i settori moderni da quelli arcaici, tradizionali, e che il dominio dell’influenza straniera ne ostacolasse il cammino verso lo sviluppo e l’integrazione nazionale. Non a caso esso era sorto soprattutto in reazione agli effetti devastanti sulle economie latinoamericane della grande crisi del 1929 ed aveva il suo principale connotato nel ruolo dirigista assegnato allo Stato per promuovere un’industrializzazione fondata sulla sostituzione di importazioni ed integrare le masse nella vita politica neutralizzandone il potenziale sovversivo. Non a caso del populismo Carmagnani tendeva ad enfatizzare la natura perlopiù autoritaria e conservatrice, a discapito della sua apparenza spesso riformista. Come tale, comunque, il populismo in quanto fenomeno politico non era da considerarsi che un precipitato di quelle condizioni strutturali e la sua sostanza si poteva individuare in un sistema corporativo e clientelare volto a manipolare le masse, cioè a prosciugarne l’autonomia assorbendola nell’alveo statale. Visto così il populismo politico vero e proprio poteva dunque presentarsi solo fino a quando fossero esistite le condizioni economiche e sociali che lo avevano determinato; ed infatti, coerentemente con questa premessa, Carmagnani racchiudeva l’età del populismo negli anni compresi tra il 1930 e il 1945, dopodiché, mutate profondamente quelle condizioni, il progetto che esso aveva incarnato sarebbe entrato in crisi. Una posizione, quest’ultima, condivisa nelle sue linee generali anche da Angelo Trento, che pure prolunga l’arco temporale del populismo “classico” fino agli anni ’50 nell’ambito di un’interpretazione fedele alle premesse strutturaliste, in base alle quali le esperienze populiste sono ricondotte ad una determinata fase del processo di modernizzazione dipendente ed a peculiari alleanze di classe di cui la “forma” politica populista è il mero riflesso. Tutto ciò, invero, al prezzo di enfatizzare le innegabili divergenze tra il populismo classico e quelli contemporanei, e di evadere l’inquietante interrogativo sulle altrettanto evidenti affinità tra di essi proprio nell’ambito politico.
Chi, invece, ha affrontato l’analisi del populismo latinoamericano a partire proprio dai suoi elementi politici è stato, già nel 1979, Gianfranco Pasquino, il quale non si nascondeva l’intrinseca polisemia del concetto e l’insoddisfacente formalizzazione che a quel tempo ne era stata proposta, ma neppure la straordinaria ricchezza di fenomeni prettamente politici che quel termine cercava di raffigurare. Esso, infatti, poteva alludere, banalmente, ad un determinato stile politico, ma anche, in modo più articolato, a partiti con determinate caratteristiche, a certi movimenti o regimi politici, o addirittura ad una peculiare ideologia. A tale proposito Pasquino introduceva un’importante distinzione tra il populismo come situazione storico-politica concreta ed il populismo come ideologia. Riguardo alla prima, e cioè nella fattispecie al populismo latinoamericano classico, egli condivideva l’idea allora prevalente secondo cui esso corrispondeva ad una specifica fase del processo di modernizzazione, coincidente col passaggio da un’economia perlopiù agricola ad una industriale ed all’ingresso delle masse sulla scena politica, in un contesto storico contrassegnato dagli elementi strutturali già segnalati da Gino Germani. Questa, in sintesi, era la “situazione populista”, cioè l’insieme di condizioni che rendeva perlomeno probabile il manifestarsi di fenomeni politici di tipo populista, la cui espressione concreta dipendeva però dalle peculiarità di ogni specifica realtà nazionale. In quanto all’ideologia, invece, Pasquino riconosceva che quella populista, per quanto vaga e non riconducibile ad un corpus dottrinale elaborato e coerente, potesse adattarsi a diversi tempi e luoghi e fosse in sostanza riconducibile a due caratteristiche essenziali: la nozione di supremazia del popolo e quella di un rapporto diretto tra di esso ed un leader. Non solo, ma coglieva anche la natura tutt’altro che tradizionalista di quest’ideologia, al di là delle apparenze in tal senso, tanto da coglierne la capacità di proiettare in un progetto di modernizzazione taluni elementi ideologici tradizionali e fortemente evocativi, come il comunitarismo o l’egualitarismo. Ora, la constatazione di Pasquino in base alla quale, sul finire degli anni ’70, il populismo, dopo avere assolto con “differenziati livelli di successo” la sua “funzione” storica, e cioè quella di favorire l’integrazione sociale, la crescita economica e la mobilitazione politica, appariva in franco declino, era senz’altro corretta se applicata alla situazione storico-politica cui egli aveva rivolto la sua attenzione. In tal senso, lo stesso populismo aveva consentito il superamento della fase di modernizzazione che suole produrre una “situazione populista”, passata la quale anch’esso era destinato alla scomparsa, o a diluirsi in partiti o movimenti di altro genere. Ma il prepotente ritorno sulla scena, da un decennio a questa parte, di fenomeni politici di tipo populista invita a riprendere le riflessioni di Pasquino e svilupparle oltre i limiti cui egli le aveva portate a quell’epoca. In fondo, come egli stesso aveva affermato, si può affermare che esista un’ideologia populista pronta a manifestarsi in concrete espressioni storiche qualora si presentino determinate condizioni, ed anche ammettendo che essa possa assumere aspetti assai difformi tra loro nei diversi contesti storici. Vale dunque la pena definire in termini più ampi che non quelli di una particolare fase della modernizzazione le condizioni che danno luogo ad una “situazione populista” nei diversi tempi e luoghi storici, ed occorre parimenti analizzare in modo più articolato il nucleo dell’ideologia populista, della quale Pasquino aveva individuato due elementi importanti, ma ancora insufficienti per comprenderne la complessa natura. A questi compiti, non a caso, si è dedicata larga parte della nuova corrente di studi sul populismo cui si è fatto più volte cenno, e si cui si tornerà.
Prima di inoltrarci nell’analisi dell’ideologia populista e delle condizioni storiche favorevoli al “momento populista”, in America Latina come altrove, occorre però riconoscere che anche da questo punto di vista il dibattito italiano ha seguito l’evoluzione di quello sviluppatosi fuori dai confini nazionali. Lo rivelano, forse meglio di ogni altro contributo, la voce “populismo” redatta nel 1990 da Ludovico Incisa di Camerana per il “Dizionario di politica” curato da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino e la successiva “postilla” aggiuntavi dallo stesso autore nel 1996, dove egli sviluppa in modo originale molti elementi di riflessione sul populismo come concetto e come ideologia elaborati in precedenza nella già menzionata raccolta curata da Ionescu e Gellner nel 1969. Non foss’altro perché in questo testo di Incisa il populismo latinoamericano non viene sottratto artificiosamente alla comparazione con altri generi di populismo comparsi altrove o in epoche diverse, bensì è chiamato proprio a testimonianza del carattere pervasivo di tale fenomeno nel tempo e nello spazio, e del suo fondamento in taluni elementi ideali comuni pur nelle immense differenze delle sue concrete espressioni storiche. Dalla nozione mitica di “popolo” quale depositario della virtù a quella di unità omogenea quale carattere distintivo di tale “popolo”, dalla natura manichea della sua visione del mondo alla sua propensione a vagheggiare una sorta di armonia sociale perduta, da perseguirsi attraverso un disegno di conciliazione tra le classi e di unità intorno ad un leader che esprime la comunione del “popolo”, a diversi altri elementi, affiorano nel testo di Incisa molti degli elementi che, come vedremo tra breve, possono annoverarsi a ragion veduta tra quelli che formano il “nocciolo duro” dell’ideologia populista.
Il populismo, un’ideologia debole con un nucleo forte ed una lunga storia
Come sempre capita ai concetti, il rischio è che un eccesso di specificità o di genericità li renda inservibili. Quello di populismo, va da sé, non fa eccezione; anzi, ciò vale a maggior ragione proprio per esso, visto il suo proverbiale polimorfismo, la sua inconsistenza teorica, l’impossibilità di piazzarlo in un punto fisso lungo l’asse destra-sinistra e di ricondurlo ad una base sociale univoca, la sua vaga e polisemica invocazione del “popolo”, per non parlare del suo ricorrente assurgere al rango di epiteto politico. Ed infatti non si può dire, come osservava Pasquino a suo tempo, che si sia raggiunta una definizione soddisfacente e consensuale del populismo. Ad ogni modo sono sempre più numerosi coloro che la cercano, anche perché il populismo pare oggi più che mai “un fenomeno ubiquo nella politica moderna”. Va così sempre più diffondendosi nel corso di tale ricerca, come si diceva, la convinzione che quel fenomeno che si suole chiamare populismo abbia un’”essenza” celata dietro la sua aria sgradevole. Insomma, che esso possieda caratteri ricorrenti nel tempo e nello spazio tali da farlo rassomigliare a un’ideologia. In che cosa consisterebbe il “cuore” del populismo? Cioè quel nucleo ideologico che gli dà sostanza al di là della sua innegabile, ma più superficiale, caratteristica di “sindrome”, di “patologia” connaturata alla democrazia, o di “stile” politico adottabile dalle ideologie più diverse? In generale, il suo richiamo al senso comune popolare e la sua vena anti-intellettuale formano uno “schema ideologico” mediante il quale esso organizza a livello discorsivo la reazione a un processo di dis-integrazione in corso in una determinata comunità umana, diagnosticandone le cause e prescrivendone i rimedi. Processo di dis-integrazione che può corrispondere, per tornare al nostro dibattito, ad una specifica fase della “modernizzazione periferica”, ma anche ad innumerevoli altre situazioni, compresa l’attuale disarticolazione sociale e culturale connessa agli effetti della cosiddetta globalizzazione. Ciò non implica negare che come ideologia il populismo sia essenzialmente debole, invertebrato, tanto da essere spesso “colonizzato” da ideologie più strutturate; ma è innegabile che abbia un sedimento ideale specifico e persistente. Cos’è questo “nocciolo duro”? Molti suoi elementi li aveva già evocati Isaiah Berlin nel lontano 1969, intervenendo nel già menzionato “summit” sul populismo coordinato da Gellner e Ionescu: il populismo, egli osservava, invoca una Gemeinschaft, cioè un’idea di comunità; è apolitico, in quanto radicato perlopiù su valori attinenti la sfera sociale; possiede un afflato rigeneratore fondato sulla volontà di ridare al popolo la centralità sottrattagli; intende impiantare i valori di un mondo idealizzato del passato in quello attuale; esprime la convinzione di parlare per la maggioranza del “popolo”; emerge in società soggette a profonde trasformazioni.
Per cominciare, comunque, il populismo è caratterizzato da un appello diretto al popolo quale fonte della sovranità, al di sopra di ogni forma di rappresentanza. Tanto che esso è inconcepibile fuori da un contesto ideale democratico. Va da sé che “il popolo” del populismo, come peraltro suole accadere con l’idea di “popolo”, sia un’astrazione, un’invenzione, che esso identifica abusivamente con “il” popolo tout-court. Tale “popolo”, a sua volta, ricava una considerevole forza dalla sua già menzionata polisemia. A volte infatti è il popolo-sovrano deprivato dei suoi diritti da una classe politica divenuta un’oligarchia autoreferenziale; altre è il popolo come classe, e allora prevale l’antitesi tra “piccoli” e “grandi”; in genere è il popolo della nazione, o di una data comunità, evocato come custode della sua identità eterna. Ora, in tutti questi registri, peraltro sovrapponibili, il popolo appare come il depositario esclusivo della virtù e di un senso comune del quale il populismo si presenta come il naturale interprete. Se poi si va ancora oltre, si vedrà come il populismo “costruisca” il proprio popolo richiamandosi a un immaginario sociale latente e verosimilmente “antico” nel quale il popolo è concepito, o “sentito”, come un’unità organica indifferenziata che sovrasta i singoli individui, perlopiù fondata su legami culturali, etnici o religiosi. Proprio la rivendicazione di tale unità organica, da rigenerarsi allorché si trova minacciata dall’anomia sociale causata da rapide e dolorose trasformazioni, conferisce al populismo in certi frangenti un forte potenziale evocativo. In tal senso la “comunità” del populismo è sia un luogo fisico, una “patria” con un destino comune, che un luogo “dell’immaginazione”, impermeabile al mutamento, colmo di simboli ed emozioni, dove si ricreano idealmente l’armonia e omogeneità primigenie. Il popolo di quella comunità è per l’appunto un’entità mitica che non si esprime con la partecipazione, ma per la via di una “democrazia d’incarnazione”, o della “rassomiglianza” tra rappresentati e rappresentanti, che si separa e contrappone ai “non rassomiglianti” riparandosi in una contro-società incontaminata dalla differenza.
La nozione di popolo, dunque, sfocia nel populismo in quella di comunità organica, intesa come riflesso dell’ordine naturale piuttosto che di un contratto razionale tra i suoi membri; una comunità votata all’armonia ed all’unità, poiché proprio come in un organismo vivente i suoi diversi organi devono mantenersi in armonia per assicurarne la salute, scacciando il conflitto e le differenze come malattie che ne minacciano l’esistenza. Tale concezione organicistica è centrale nell’ideologia populista, ed in talune congiunture si rivela capace di suscitare comprensione, simpatia o addirittura empatia in strati più o meno vasti della popolazione, per la quale, evidentemente, ha un che di familiare e rassicurante. Nel discorso populista, peraltro, essa si presenta nella veste di “vera democrazia”, poiché solo in una società che recuperi le sembianze della comunità organica il popolo ritornerebbe il depositario della sovranità. D’altra parte il populismo si sviluppa sul medesimo terreno della democrazia ed assume forza dirompente per la credibilità con cui si propone come veicolo della sua rigenerazione allorché essa si è distaccata oltre il tollerabile dalla fonte che la legittima: il popolo. In effetti, una crisi di legittimità in cui “lui”, il rappresentante, comincia ad essere percepito come “loro”, cioè come un’élite endogamica, ed in cui “io” diventa sensibile a un discorso politico che lo definisce come “noi”, il popolo, è un elemento chiave di quella che Mény e Surel definiscono la “struttura di opportunità” che favorisce il populismo. La democrazia che esso invoca, infatti, promette di essere espressione “diretta” del popolo emancipandolo dalla “trappola” della rappresentanza. Detto ciò, se è vero che populismo e democrazia condividono l’universo semantico democratico, lo è altrettanto che l’immaginario organicistico comporta un’idea di democrazia del tutto diversa da quella rappresentativa di tipo liberale, della quale si può dire che il populismo contesti la legittimità. Parafrasando Durkheim, la “comunità” populista, sorretta da vincoli di “solidarietà meccanica”, è l’opposto della “società” aperta, differenziata e cosmopolita liberale. Tanto che è lecito definire il populismo come la più robusta corrente antiliberale in circolazione.
Di questo “cuore” del populismo non bisogna poi trascurare talune caratteristiche, non meno ricorrenti, che ne rappresentano per così dire il “lato oscuro”; tali cioè da farne un’ideologia che se per un verso può fungere da anticorpo di democrazie sclerotizzate, per un altro può condurle alla tomba. Si tratta delle sue tendenze ad esprimersi in una leadership di tipo carismatico e a coltivare una cosmologia dicotomica, manichea. Il rapporto diretto tra un leader e il “suo” popolo è un elemento ricorrente nei populismi. Il che non sorprende, poiché la leadership carismatica svolge funzioni vitali: nell’ambito dell’immaginario cui si richiamano l’identificazione con un leader è decisiva affinché si formi un’identità univoca tra gli adepti. Il leader dovrà inoltre essere un outsider, in grado di esibire, nei suoi comportamenti o nella sua biografia, una “patente” di “rassomiglianza” col suo popolo e di non appartenenza all’élite politica, perché vi è estraneo o perché ne è stato escluso. Il suo stile politico rivelerà tale condizione badando a violare le convenzioni, semplificare i problemi, esibire certezze in quanto portavoce di un “altro” mondo, quello del “popolo”, di cui egli impersona i modi di pensare ed esprimersi. In sintesi: la leadership carismatica è lo sbocco più logico di un immaginario organicistico, essendo naturale e coerente che una comunità indifferenziata si esprima con un’unica voce, che più che rappresentarla la incarni. Al medesimo “nucleo” ideale è riconducibile la cosmologia manichea che suole caratterizzare i populismi, in certa misura tipica del linguaggio politico in generale, ma che nel populismo assurge a impenetrabile muraglia eretta contro l’essenza stessa dei suoi nemici, cui esso tende a negare legittimità e perfino moralità. D’altra parte, così come produce una straordinaria forza inclusiva verso i suoi seguaci, il populismo ne produce una altrettanto vigorosa in senso escludente verso coloro che ricadono fuori dalle mura della sua cittadella, entro le quali non sono ammissibili significative differenziazioni. Insomma, il mondo ideale populista è bianco o nero; di qua c’è l’essenza virtuosa della nazione o comunità, di là i nemici che la negano e contaminano. Questa struttura ideale manichea può affiorare sul terreno economico, dove il populismo impugna le bandiere del lavoro produttivo contro i soprusi dell’economia smaterializzata, ma più sovente la troviamo su quello dell’etica, centrale nel discorso populista, dove esso accampa il monopolio della virtù. Un aspetto, quest’ultimo, che tradisce l’origine religiosa di molti populismi e la natura protoreligiosa che spesso conservano. D’altra parte l’ordine “naturale” di cui per i populisti è riflesso la comunità organica formata dal popolo ha molto in comune con l’ordine divino dal quale, in una prospettiva religiosa tradizionale, discenderebbe direttamente l’ordine temporale. Nei due casi la natura legale-razionale del vincolo politico è rigettata in nome di un ordine “rivelato” cui si deve il fondamento legale e morale della polis. Non per questo, comunque, il populismo ha nulla della teocrazia. Anzi, come espressione politica è autonomo dalla sfera del sacro, al punto da essere lecito intenderlo come una trasposizione sul terreno moderno della polis fondata sulla sovranità del popolo di un immaginario religioso antico. Insomma, si direbbe una sorta di “religione secolare”, col suo “verbo” e il suo “profeta”, i suoi culti e le sue liturgie: il tutto, però, non in nome di Dio, ma del “popolo”. Per finire, l’idea di popolo come comunità organica e la cosmologia manichea che ne segue portano a un logico sviluppo, e cioè l’insofferenza del populismo per il pluralismo. Lo si è visto: la pluralità di storie, culture, ideologie in una medesima comunità appare, nella concezione populista, una patologia da sanare più che la condizione fisiologica di una società moderna.
Nel suo complesso, dunque, il “nocciolo duro” dell’ideologia populista contiene un’intrinseca ambivalenza, consistente nella peculiare convivenza, nel suo seno, di una pulsione democratica ed una vocazione autoritaria. Da un lato, infatti, esso appare come un canale di “integrazione”, materiale o simbolica, del “popolo”, laddove non esistono ancora o si sono inceppati i meccanismi che l’agevolino, oppure delle rapide e profonde trasformazioni abbiano diffuso una sensazione di dis-integrazione in una comunità prima coesa. Benché radicale e talvolta violento nel suo linguaggio dicotomico, il populismo suole essere “integratore” anche in un altro senso: esso aspira infatti a ristabilire l’armonia tra le membra dell’organismo sociale, convinto che il potere acquisito al suo interno da taluni organi a scapito di altri l’abbia spezzata. In quest’ottica il suo fine è una specie di “rivoluzione preventiva” volta a creare le condizioni che favoriscano la collaborazione tra le classi necessaria allo sviluppo armonico della società. Storicamente, e l’esperienza latinoamericana lo dimostra in abbondanza, questo genere di pulsione integrazionista del populismo si è espressa nella sua tendenza ad incarnare una terza via verso la modernizzazione, né liberale né socialista, che coerentemente con l’immaginario organicistico si ispira a qualche forma di corporativismo. Ma come si diceva il populismo denota anche una profonda pulsione autoritaria, proprio perché la sua nozione di popolo e di comunità erode il pluralismo, sia delegittimando gli avversari che minando la divisione dei poteri in nome del primato della volontà popolare. Così facendo esso esprime una vocazione ad impossessarsi del monopolio della cittadinanza politica, spesso anche attraverso forme estreme di etnonazionalismo. In sintesi: la sua peculiare ambivalenza fa sì che il populismo possa essere impiegato dalla sinistra per inneggiare alla centralità del popolo ed alla giustizia sociale, ma anche dalla destra autoritaria nella sua connotazione plebiscitaria e visceralmente antiliberale.
Ma se il populismo ha un “cuore”, e tuttavia non si manifesta con regolarità, per coglierne l’essenza occorre individuare le condizioni che ne favoriscono la comparsa. In generale, come si è detto, si può dire che esso attecchisce come reazione alla percezione dell’esistenza di una crisi di “dis-integrazione” che attenta all’unione organica del “popolo”. Le forme storiche in cui si manifestano crisi di tal fatta possono essere assai varie. A proposito dell’odierno risorgere dei populismi in Europa, per esempio, Mény e Surel hanno osservato come, sul terreno politico, la percezione della crisi abbia ricevuto un forte impulso dalla crescente sensazione che la bilancia democratica si inclinasse verso il polo costituzionale a danno di quello “popolare”. Insomma, dalla percezione che si sarebbe sbilanciato a favore del polo “pragmatic”, quello che tutela specifici diritti degli individui anche contro la volontà della maggioranza, il delicato equilibrio che in ogni sistema democratico lo unisce al polo “redemptive”, anch’esso necessario alla vitalità dell’insieme. Detta altrimenti ed in senso più generale, si può dire che quando nella percezione di settori sociali più o meno vasti lo scarto tra “democrazia immaginata” e “reale” si fa intollerabile, allora si produce il “momento populista”. Allo sviluppo di tale percezione possono contribuire vari elementi, come il distacco tra governanti e governati, la corruzione, la scarsa circolazione delle élites e così via, che sommati tra loro e ad altre variabili fanno sì che ciò che era parso tollerabile cessi di esserlo, aprendo la porta al discorso populista ed alla sua rivolta contro “i politici”. Ma non meno importante delle trasformazioni politiche, per comprendere la comparsa del populismo, è l’effetto dis-integratore di quelle sociali ed economiche. In generale, sia in passato che oggi, tali trasformazioni favoriscono la diffusione del verbo populista allorché disarticolano i cleavages socio-economici esistenti, lasciando ai margini settori sociali e produttivi che prima si trovavano ben inseriti nel ciclo economico, oppure quando deludono le aspettative di certi gruppi in quanto a collocazione e mobilità nella scala sociale. In tali casi, infatti, il messaggio populista ha buon gioco nel promettere l’annientamento del “nemico” individuato come causa delle loro disgrazie e la loro re-integrazione nella posizione di sicurezza e prestigio perduta. Che mutamenti del genere se ne siano verificati di assai profondi e rapidi negli ultimi due decenni c’è poco da dubitarne, in America Latina come in Europa, come è indubbio che l’ondata di populismo dei decenni centrali del XX secolo avesse a sua volta fatto seguito ad un lungo ciclo di trasformazioni dagli effetti per certi versi analoghi a quelli odierni. Anche tralasciando l’incertezza generata dal rallentamento generale dell’economia globale e dall’endemicità assunta sempre più dalla disoccupazione, basti ricordare come la globalizzazione dei mercati abbia reso vorticosi i trapianti da un luogo all’altro di prodotti, capitali, consumi e stili di vita, nonché di uomini, con flussi migratori più accelerati di quelli già frenetici dell’età delle grandi migrazioni. Sono questi i tipici casi in cui, quando determinate popolazioni vedono erosi i loro punti di riferimento culturali o le loro identità tradizionali e non possiedono ancora nuove norme capaci di dare altrettanto senso alle loro vite, i populismi gliele offrono. Di fronte all’incertezza derivata dalla percezione della fine di un ordine, il populismo offre la scintillante promessa di ricostruire la coesione perduta, la sicurezza personale e collettiva, “l’ordine morale e patriottico della somiglianza”.
Visto così, il populismo è antiliberale e allergico al costituzionalismo, ma rappresenta una componente essenziale delle democrazie occidentali, sia europee che latinoamericane, fin dalle loro origini, tanto da potere essere indicato come l’erede diretto della tradizione democratica radicale risalente a Rousseau. La sua ricorrenza nel tempo e nello spazio non fa in fondo che rivelare la tensione che in ogni democrazia attraversa il rapporto tra rappresentanza e sovranità popolare. Assodato ciò, non si può però concludere prima di avere osservato come proprio l’America Latina sia stata più volte individuata, credo a ragione, come la terra d’elezione del populismo. Come il luogo, per esempio, dove esso non solo si presenta cronicamente sotto forma di stile politico, idee e movimenti, ma è assurto anche a regime. Più che in ogni altro luogo, insomma, è forse proprio in America Latina che la corrente ideale rappresentata dal populismo si è imposta come una formidabile sfida alla democrazia rappresentativa liberale ed alla sua leadership legale-razionale. Come mai? Le condizioni che favoriscono la comparsa di un “momento populista”, già analizzate, sono particolarmente importanti per comprenderne l’assidua ricorrenza in America Latina. Perché proprio lì si direbbe che tendano a riproporsi con una certa regolarità e intensità. Come si ricorderà, infatti, quel “momento” si crea allorché la forbice tra “democrazia immaginata” e “democrazia reale” si allarga oltre una certa soglia di tolleranza, o quando un lungo e profondo ciclo di trasformazioni produce in vasti settori della popolazione la sensazione della perdita dei punti di riferimento tradizionali. In quei casi, il leader populista può sorgere come vettore di una promessa di re-integrazione, materiale o simbolica; specie laddove questo compito non è svolto da istituzioni democratiche rappresentative che già patiscono di una cronica carenza di legittimità perché espressione di una classe sociale endogamica; oppure dove l’immaginario organicista conserva profonde radici, minando l’idea stessa della rappresentanza politica. Ora, entrambe queste condizioni si attagliano in modo particolare alla realtà storica dell’America Latina. Ed è infatti proprio questo peculiare mix tra l’anchilosi delle istituzioni democratico rappresentative e la persistenza di un radicato immaginario sociale olistico che troviamo alle origini dell’affermazione del carisma di Perón, Velazco Ibarra, Haya de la Torre, Paz Estenssoro e molti altri. E più recentemente, perché no, di Hugo Chávez ed altri potenziali emuli.
A spiegare la persistenza nel tempo di tali condizioni concorrono verosimilmente molti fattori. Di certo, conta il retaggio dell’architettura sociale organicistico-corporativa innalzatavi in età coloniale. Di sicuro, la persistenza di quell’immaginario deve molto alla concezione cattolica dell’uomo e della società, che ha così profondamente impregnato mentalità e istituzioni in America Latina. La natura tradizionalmente patrimoniale dell’autorità ha il suo ruolo, così come l’ha la peculiare conformazione dello spazio politico in questa regione, uno spazio “clonato” sul modello metropolitano nel quale lo Stato e chi l’impersonava – prima il Re, poi il presidente o il capo militare di turno – hanno mantenuto a lungo il monopolio dell’iniziativa politica, favorendovi l’integrazione sociale “dall’alto”. Altrettanto certamente, e qui vale la pena soffermarsi, conta la natura segmentata, solcata da profonde fenditure, delle società latinoamericane. Fenditure legate al trauma della conquista, ovviamente, col tempo arricchitesi di nuovi elementi e poi sedimentatesi in una struttura di disuguaglianze cumulative, dove le differenze sociali si sono sommate a cleavage di tipo etnico, a barriere culturali e psicologiche spesso insormontabili. Su questo sfondo, la formazione di valori e istituzioni politiche legittime agli occhi dei più e di una “cultura politica” passabilmente condivisa si sono rivelati passaggi quanto mai problematici, per non dire chimerici.
Tutti tali fattori storici aiutano a comprendere la vitalità del retaggio ideale organicistico in America Latina. E dunque il radicamento storico dell’immaginario populista. Nella comunità organica, nell’ideale della sua “solidarietà meccanica”, nella sua natura chiusa, omogenea, protettiva, hanno trovato rifugio accogliente e famigliare tutti coloro che nelle istituzioni liberali della democrazia rappresentativa solevano vedere le diavolerie di un mondo estraneo, cui non appartenevano, in cui non si riconoscevano; di un mondo che spesso ricorreva a loro come mere comparse solamente nell’atto liturgico della propria legittimazione: le elezioni. Non è così strano che quel “popolo”, in particolari momenti, quando tutto intorno sembrava cambiare, fosse sensibile ai richiami di un leader che lo aizzasse alla rivolta contro i soprusi di quel mondo ostile ed estraneo: cosmopolita, laico, bianco, benestante, colto. Contro quella che nel linguaggio dei populisti prese ad essere chiamata l’”oligarchia”, il nemico del “popolo”. Purché quel leader usasse le parole adeguate e facesse le cose giuste, sapendo guadagnarsi la fiducia di quel popolo in cerca di autore, collerico ma senza voce. A quel leader, insomma, non poteva mancare un attributo: doveva rassomigliare al “popolo” in nome del quale ambiva a parlare, o almeno comportarsi come se gli rassomigliasse; doveva condividerne o adottarne il linguaggio, lo stile, i gusti, le abitudini; doveva farlo sentire ascoltato, blandirlo con una visione semplificata del mondo, dimostrare la sua stessa insofferenza per i tempi dilatati ed il parassitismo della politica. Se tale somiglianza era anche fisica, come nel caso del “negro Gaitán” o del “cholo” Sánchez Cerro, allora l’empatia col “popolo” veniva da sé; ma anche quando non era così, a risultare decisivo era che il leader esibisse una patente di non appartenenza all’”altro mondo”, all’élite: solo così la scintilla dell’identificazione sarebbe potuta scoccare. Il che spiega, tra l’altro, una circostanza piuttosto ricorrente, e cioè il fatto che molti leader populisti – da Perón, a Ibañez, a Chávez – fossero o siano dei militari. Membri, cioè, di un’istituzione apolitica, organica a sua volta, garante, almeno nella percezione di gran parte dei suoi membri, dell’unità e dell’armonia della nazione al di sopra delle sue divisioni politiche, e custode della sua identità. E’ da quel luogo “incontaminato” dalla politica che Perón scende, richiamato dai clamori del “popolo”, per riscattarlo e rigenerare così, restituendogli la sua armonia originaria, il corpo sociale; d’accordo, peraltro, con un “modello dell’arrivo” comune ad altri leader populisti – Velasco Ibarra, per esempio, o Paz Estenssoro – il cui mito cresce con l’assenza, e con la corrispettiva attesa del “redentore”. Termine non casuale, nella sua allusione ad un immaginario religioso: sono venuto, afferma Perón, “a soddisfare l’ansia di redenzione del popolo argentino, che la Provvidenza ha voluto io sapessi comprendere e fare mia, per farne la guida di tutte le mie azioni”.