L’eredità ottomana nella penisola balcanica
Marco Dogo
[versione molto provvisoria, da utilizzarsi per esclusive finalità didattiche]
Il Mondo visto dall’Italia Convegno della Sissco
Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002
Le origini della discussione sulla eredità o retaggio ottomano nei Balcani, che fra gli sviluppi più recenti conta il bel libro di Maria Todorova Imagining the Balkans (Oxford University Press, 1997), ora disponibile anche in traduzione italiana, si possono far risalire a una quarantina d’anni fa, alla raccolta di saggi The Balkans in transition curata da Charles e Barbara Jelavich (University of California Press, 1963, atti di un convegno del 1960), cui hanno contribuito autori che si sarebbero poi affermati nel campo della ottomanistica e della balcanistica, quali Stanford Shaw, Wayne Vucinich, Leften Stavrianos, Traian Stoianovich (quest’ultimo è un gigante, ed è riduttivo parlare di lui come “balcanista”). Più d’uno dei contributori a questo volume trattano o toccano il significato sociale della conquista ottomana dei/nei Balcani, e di questo scrivono diverse cose, tranne una, oggi correntemente ammessa nella storiografia ma a quel tempo oscurata da una sorta di convergenza romantico-marxista nel caratterizzare lo stato ottomano come oppressivo e sfruttatore.
La cosa oscurata era che la conquista ottomana nel XIV-XV secolo ha significato l’annientamento delle aristocrazie indigene e l’instaurazione di un regime agrario che ha consegnato agli stati successori una società fatta di contadini liberi e una struttura fondiaria e produttiva basata sulla piccola proprietà (per gli ottomani: usufrutto) contadina. Per il grande storico dell’economia ottomana Halil Inalcık, che ha insegnato una quindicina d’anni all’Università di Chicago, questa è addirittura “the most important legacy” ottomana (The meaning of legacy: the Ottoman case, in L. C. Brown, ed., Imperial Legacy. The Ottoman Imprint on the Balkans and the Middle East, Columbia University Press, New York, 1995).
Bisogna ammettere che non era e non è facile scorgere questa condizione di “contadini liberi” attraverso il velo della violenza diffusa, del drenaggio selvaggio di risorse dalle campagne balcaniche nel prolungato tempo dei disordini (grosso modo, una quarantina d’anni a cavallo fra ‘700 e ‘800) che ha preceduto e preparato le prime secessioni cristiane dall’impero. E’ vero, tuttavia, che la autorità centrale era a quel tempo abbastanza debole da subire il disordine delle province (autonomismo di governatori, notabili musulmani, bande di giannizzeri), ma non così debole da consentire che questo si consolidasse in un ordine neo-feudale.
Così, la base sociale dei primi stati successori risulta formata da una massa contadina educata da secoli a pagare al sultano il tributo (decima) dovuto per l’usufrutto della terra, e convinta che con la dipartita dei turchi sia cessata ogni ragione di pagare tributi in genere; disposta, tuttavia, a pagarli alla nuova autorità indigena (cristiana) in cambio di sicurezza e non-ingerenza. Rispetto a questo schema le diverse esperienze storiche degli stati successori presentano varianti fra le quali rilevante è il ruolo del notabilato cristiano. Tuttavia è una accettabile generalizzazione quella secondo cui conseguenza politica del retaggio sociale ottomano è che negli stati successori, in una fase iniziale di durata variabile ma pari finanche a due generazioni, si stabilisce una sorta di patto fondamentale di separatezza e non-belligeranza fra masse contadine e autorità indigena.
Indigena: esito a chiamarla nazionale, perché le autorità indigene avviano processi di integrazione nazionale solo più tardi, essendosi consolidate abbastanza da intraprendere politiche estrattive nei confronti dei contadini (fisco, reclutamento) che equivalgono a denuncia di quel patto fondamentale. In tal senso, sul piano politico “retaggio ottomano” è l’insieme di problemi inerenti alla modernizzazione di “nazioni contadine”.
Rispetto allo schema del libero contadino ottomano e post-ottomano c’è una vistosa variante che peraltro conferma la validità della generalizzazione. Nei principati danubiani (Moldavia e Valacchia) si stabilisce fra XV e XVI secolo un dominio ottomano indiretto: un regime di vassallaggio tributario, alla cui ombra una aristocrazia indigena concentra nelle sue mani potere politico ed economico (fondiario). Nell’800, le fasi di avvicinamento dei principati danubiani all’indipendenza politica sono marcate da un aumento del drenaggio dalle campagne (stimolato dal mercato europeo dei grani) e scivolamento dei contadini in condizione semi-servile nei confronti della loro propria, “nazionale”, nobiltà fondiaria. Retaggio ottomano, qui, (attraverso la dipendenza tributaria) è una configurazione dei rapporti agrari che inibisce ogni rapporto integrativo e modernizzante, e che sarà eliminata dopo la Grande Guerra con la più spazzante riforma agraria attuata in Europa orientale. Ciò che questo caso ha in comune con gli altri casi balcanici è che il problema centrale del nation-building sembra consistere assai più nella incorporazione delle masse contadine in strutture politiche moderne, che non nella loro integrazione etno-culturale.
Poiché, tuttavia, il discorso sul nation-building come integrazione etno-culturale non è del tutto obsoleto, e poiché al fattore religioso viene solitamente (almeno per l’ambiente dell’Europa sud-orientale) attribuito un certo rilievo nel processi integrativi-identitari, converrà dire qualcosa sulla dimensione religiosa del retaggio ottomano.
Qui il campo è stato a lungo occupato dalla concezione del sistema dei millet come “preservatore” di culture nazionali a base religiosa, o almeno di identità comunitarie a base religiosa. Si tratta a mio avviso di una esagerazione, di derivazione romantica e funzionale al paradigma romantico della nazione “assopita” per effetto di dominazione straniera. Storicamente, il millet non è che l’insieme dei sudditi ottomani cui si applica un sistema giuridico separato da quello dominante musulmano, un sistema separato a base religiosa ma non esclusivamente religiosa, limitato all’ambito del diritto familiare con estensioni in campo ereditario e commerciale. E’ anche un sistema di solidarietà per lo svolgimento di funzioni, fra le quali spiccano l’istruzione (elementare con forte impronta religiosa) e la carità, che nessuno stato pre-moderno annoverava fra i propri compiti. Visto dall’alto, era uno strumento di controllo sul gregge tramite il pastore, e implicava un’idea di governo indiretto e di responsabilità collettiva: definiva uno status, non un’identità. Vista dal basso, tale comunità religiosa (stiamo parlando del millet-i rum, del patriarcato greco-ortodosso) era tanto ecumenica quanto poco integrata, se non negli strati superiori della gerarchia ecclesiastica, che possiamo tranquillamente considerare (e così erano percepiti dai fedeli!) una struttura ottomana.
Ebbene, quella ecumenica comunità religiosa si è decomposta mano a mano che diverse autorità nazionali hanno avanzato le rispettive rivendicazioni di sovranità sulle gerarchie ecclesiastiche. La statalizzazione e nazionalizzazione delle chiese ortodosse va dunque letta, a mio avviso, in chiave di rottura e discontinuità rispetto ad un sistema di millet che è impensabile al di fuori di un contesto imperiale e gerarchico.
Detto questo, è pur vero che residui del sistema dei millet sussistono negli stati nazionali balcanici post-ottomani per effetto della protezione in materia religiosa prevista dal Trattato di Berlino e dai Trattati sulle minoranze annessi ai Trattati di pace del 1919-20 e poi dal Trattato di Losanna 1923: per cui hanno goduto di giurisdizione separata in materia di diritto familiare, con qualche annesso, i musulmani nei Balcani fino alla seconda guerra mondiale, e i non-musulmani in Turchia fino all’adozione del codice civile nel 1926. Dopo il 1926 si crea una situazione asimmetrica e paradossale: i musulmani possono regolarsi sulla sheriat negli stati balcanici cristiani e non in Turchia, dove la giurisdizione del giudice civile non ammette riserve o deroghe; però gli stati balcanici non reciprocano l’eliminazione di quel residuo di millet in Turchia eliminando a loro volta la giurisdizione separata dei gruppi musulmani: la lasciano intatta. Si può avanzare in proposito l’ipotesi che si trattasse di “maligna tolleranza” (il concetto è di Wolfgang Höpken), nutrita dalla aspettativa che ignoranza e conservatorismo del personale religioso musulmano locale avrebbero contribuito alla marginalizzazione sociale di quei gruppi. Questa osservazione ci introduce al tema del retaggio demografico ottomano.
La struttura demografica ottomana, al tempo in cui l’impero stava diventando retaggio, si era formata attraverso secoli di colonizzazioni forzose, migrazioni spontanee, conversioni religiose. Sebbene nessun gruppo di popolazione fosse estraneo a questi processi, il risultato più gravido di conseguenze, riguardo alla questione del retaggio, è la presenza nei Balcani di una numerosa, qua e là maggioritaria, popolazione musulmana che a più riprese viene espulsa o incapsulata dagli stati successori. Tre osservazioni in proposito:
1. senza esagerare con l’importanza degli antagonismi religiosi, che andrebbero in ogni caso contestualizzati, occorre tener conto del movente delle pressioni espulsive: alcuni di questi gruppi musulmani, in determinate zone, erano visti dalle nuove autorità come il prodotto di deliberate politiche ottomane di controllo territoriale popolazionista (talora effettivamente lo erano); c’era poi per la gente comune, al cambio di regime, la tentazione di metter le mani sulla ricchezza immobiliare dei musulmani;
2. la posizione dei musulmani negli stati successori dal 1878 è oggetto di regolamentazione internazionale: estensione automatica della cittadinanza, accompagnata però dal diritto di opzione; protezione dei diritti di proprietà e di libertà religiosa;
3. ad ogni passaggio successivo dell’arretramento delle frontiere ottomane il problema del retaggio demografico ottomano è stato trattato in termini di pressione espulsiva di fatto, e di duplice intervento normativo internazionale (o bilaterale ma con approvazione internazionale): protezione minoritaria, emigrazione convenzionata.
A quest’ultimo proposito, va sottolineato il contributo della Turchia alla eliminazione del retaggio demografico ottomano nei Balcani, contributo dato con il proporsi della Turchia come fattore pull della emigrazione musulmana (negli anni ’30 e di nuovo negli anni ’50): posizione motivata da bisogno di recupero demografico, dopo il dissanguamento degli anni 1912-1922, e legittimata da un incrocio di percezioni e auto-percezioni per cui quella emigrazione era accettata da tutte le parti in causa nonché dagli osservatori europei come “rimpatrio”: accettata come tale dagli stessi musulmani balcanici, spesso non-turchi, che cercavano la patria perduta nella Turchia repubblicana e laica, eppure erede dell’impero ottomano.
I gruppi musulmani balcanici non emigrati sono evoluti in senso nazionale:
– i turchi di Bulgaria come minoranza nazionale, non più “orfani del sultano”;
– Bosnia-Erzegovina: gli elementi identitari sono stati cercati nella specificità dell’esperienza storica provinciale, più che nella appartenenza della provincia al contesto ottomano;
– albanesi di Albania: vale l’osservazione di Nathalie Clayer che nessun profondo cambiamento sociale si verifica per loro fino all’avvento del regime comunista; fra il distacco dall’impero ottomano e gli inizi del processo di identificazione e integrazione nazionale c’è un buffer di quarant’anni, quasi due generazioni, che toglie urgenza al fare i conti con il passato ottomano per accettarlo o ripudiarlo: tranne che per la ripresa di un tema sollevato dalle élites albanesi nel tardo ottocento, quello del ruolo divisivo della differenziazione religiosa rispetto a possibili sviluppi politici unitari entro il contesto ottomano; e salva anche un’osservazione di Ismail Kadarè, di cui si dirà fra poco, e che riguarda, più che il retaggio ottomano, la percezione dello stesso.
La percezione del retaggio ottomano negli stati successori è negativa, senza remissione. Come ha ben sintetizzato la questione Maria Todorova, il regime ottomano non rappresentava solo l’ancien régime, ma anche un regime oppressivo straniero. Questo, almeno, è lo stereotipo vincente negli stati che si chiamano successori perché ereditano territorio, popolazione e qualche obbligo giuridico dall’Impero ottomano, ma la cui ideologia ufficiale è programmaticamente all’insegna della rottura, della discontinuità. Chi voglia farsi un’idea di quanto pervasivo fosse, materialmente ed emozionalmente, il programma di de-ottomanizzazione negli stati successori, potrà leggere il bellissimo libro di Bernard Lory, Le sort de l’héritage ottoman en Bulgarie. L’exemple des villes bulgares 1878-1900 (ISIS, Istanbul, 1985).
Con il passare delle generazioni e l’affievolirsi del retaggio fino alla scomparsa, si sono sviluppate riflessioni postume, di diversa ampiezza e profondità, ma che hanno in comune una percezione selettiva, variamente selettiva, del retaggio ottomano. Ne cito alcune tipiche, alla rinfusa.
Ömer Barkan rivisita la storia ottomana in chiave etnica nel famoso saggio Les déportations comme méthode de peuplement et de colonisation dans l’Empire Ottoman (“Revue de la Faculté des Sciences Economiques de l’Université d’Istanbul”, XI, 1949-50), in cui egli attribuisce il successo della conquista ottomana nei Balcani e piana pannonica alla superiorità demografica e organizzativa del ceppo turco, e sembra dire: altro che “accampamento militare”, i nostri avi hanno ripopolato e rivitalizzato economicamente intere regioni d’Europa!
Ismail Kadarè, una decina d’anni fa, nello sforzo di omologare alla civilizzazione cristiana europea il suo paese che conta il 70% di cittadini di fede o tradizione musulmana, “assolve” per così dire i passati processi di islamizzazione ma imputa agli ottomani la responsabilità di avere, secoli addietro, troncato i rapporti del suo paese con il mondo esterno, così condannandolo a uno sviluppo separato dal suo “naturale” alveo europeo.
Le nazionalità minori (“minori” in senso puramente quantitativo) possono aver percepito l’Impero ottomano come una struttura protettiva nei confronti di nazionalità maggiori e più aggressive:
– in un convegno di storici a Skopje, una quindicina d’anni fa, ho sentito celebrare il quadriennio costituzionale e riformista ottomano 1908-1912 come la breve epoca d’oro del popolo macedone, prima che gli stati limitrofi si spartissero la regione;
– e ancora, gli ebrei di Salonicco nel novembre 1912, all’arrivo delle truppe greche in città non avevano bisogno di aspettare un convegno di storici per percepire che con la partenza degli ottomani se ne stava anche andando la loro posizione localmente dominante.
Kemal Karpat, cittadino statunitense, professore all’Università del Wisconsin, ottomanista, di famiglia turca della Dobrugia, noto ai lettori italiani per un saggio di qualche anno fa nei “Quaderni storici”, percepisce l’Impero ottomano come una struttura sana e vitale, distrutta dalle Grandi Potenze con il grimaldello di “nazionalità artificiali”: egli tiene così fuori in blocco dal campo percettivo proprio quella genuinamente ottomana “epoca dei disordini” da cui si sono prodotte le prime secessioni dall’Impero.
La Turchia repubblicana ha avuto come parola d’ordine ufficiale, per generazioni, “dimenticare i Balcani”: ciò che non ha impedito una deliberata, pragmatica manipolazione delle percezioni, se e quando qualche aspetto dell’eredità è parso capitalizzabile.
Fin qui si è detto di autopercezioni, da parte di soggetti direttamente implicati nell’instaurazione di un rapporto immaginario con il passato. Quanto alle percezioni esterne, dovremmo scavare nella ricca letteratura lasciata nell’800 da viaggiatori, visitatori e osservatori professionali e occasionali europei che hanno descritto e valutato il regime ottomano negli anni in cui esso stava diventando retaggio. Rinvio a Maria Todorova per la discussione dei punti di vista di classe e dei paradigmi di giudizio dei diversi scrittori. Mi interessa qui segnalare che il tema più frequente, l’interrogativo ricorrente in testi che pur spaziano fra rappresentazioni dell’Impero ottomano come “guardiano dei pazzi” o come oppressore corrotto, è quello del confronto con l’Europa occidentale, constatazione del divario di sviluppo, ipotesi sulle cause dell’arretratezza, sulla sua possibile riformabilità, sulla pesantezza del fardello trasmesso ai successori: ricco materiale per una costruzione orientalistica del retaggio ottomano, ovvero della questione della appartenenza/diversità dei Balcani rispetto alla storia europea. Il tema della arretratezza è stato ripreso negli ultimi venticinque anni da una storiografia non-orientalistica. Gli sviluppi più positivi della discussione si sono registrati a mio avviso nel campo della storia economica, dove le argomentazioni si sono appoggiate a una definizione del campo d’indagine e dell’evidenza documentaria secondo i seguenti tre criteri:
1. qualsiasi discorso sull’arretratezza ha senso se riferito al periodo in cui è finita o sta finendo l’autosufficienza del sistema economico ottomano, che prima funzionava (e prosperava) secondo criteri di razionalità interna non comparabili a quelli dell’Europa occidentale (sono possibili diverse datazioni della fine dell’autosufficienza e dell’inizio della periferalizzazione ottomana, secondo il diverso peso attribuito alla penetrazione commerciale europea);
2. comparazione in forma diacronica (conseguenze economiche del cambio di regime politico, da provincia imperiale a stato nazionale) e sincronica (sviluppo economico dell’Impero e degli stati successori): qui si confrontano le due tesi opposte di John Lampe e di Michael Palairet;
3. l’ipotesi sulla capacità di autoriforma dell’Impero, mentre per i viaggiatori ottocenteschi riguardava un processo in corso, per gli storici odierni riguarda un processo concluso, e quindi tende a svolgersi in forma di ragionamento controfattuale, focalizzato in particolare sulle riforme ottomane degli anni ’60 (un mio assaggio in tal senso, sulla riforma dell’amministrazione provinciale 1864-67 [dovrebbe essere disponibile tra breve nella “Rivista storica italiana”], ha dato risultati negativi circa l’attitudine delle più avanzate sperimentazioni ottomane a modernizzare il fisco, garantire la sicurezza dei sudditi, rendere continua l’azione della burocrazia).
Se mi si chiedesse quanto di tutto questo è stato visto dall’Italia, tenderei a rispondere che il paradigma romantico delle nazioni oppresse e risorte ha certamente veicolato un’attenzione empatica, nell’800, per le vicende degli stati successori, ma certo ha anche inibito qualsiasi propensione a cercare aspetti di continuità fra l’assetto balcanico imperiale e quello nazionale. Salvo qualche felice e isolata intuizione di osservatori italiani dopo Berlino e in età giolittiana, l’efficacia inibitoria del paradigma romantico è durata fino ai nostri giorni. Naturalmente è possibile che questo giudizio rifletta i limiti della mia conoscenza più che la qualità delle osservazioni e lo stato effettivo degli studi.