Federico Romero
Testo provvisorio dell’intervento al Convegno Sissco, Siena 9-10 Novembre 2000
La democrazia nel Novecento. Un campo di tensione
1) “Democrazia” è stata la parola chiave della visione americana dell’ordine mondiale nel Novecento, almeno fin dai tempi del più famoso slogan di Wilson – “making the world safe for democracy” – e fino all’ “enlargement of democracy” con cui viene sistematizzata la politica estera degli Stati Uniti odierni. Che ciò sia stato vero in termini prescrittivi e declamatori è sotto gli occhi di tutti. Meno chiaro, ma assai più importante, è il fatto che sia stato un concetto chiave anche in termini analitici.
Non è stata l’unica parola chiave, e la sua prominenza è spesso dipesa dal contesto in cui gli Stati Uniti si trovavano ad interagire con altri attori ed altre culture. Ma non c’è dubbio che “democrazia” sia stato e sia non solo un principio, e ovviamente uno slogan pubblico, ma anche la lente attraverso cui gli statisti americani hanno scrutato il futuro del sistema internazionale, soppesato le chances della pace e messo ordine nei loro schemi mentali sulla vita internazionale.
Il problema è dunque quello di raffinare e delimitare i significati compresi in questo termine, e possibilmente di storicizzarli secondo l’invito fattoci dagli organizzatori di questo dibattito. In linea di massima trovo proficua e solidamente motivata la richiesta su cui verte questo convegno, quella di riconsiderare la narrativa lineare di un’epopea di progresso e di lotta per la democrazia. Però discutendo di sistema e cultura internazionale è più difficile datare e in qualche modo archiviare quella lettura, per due motivi.
Il primo è contingente ma cospicuo, e anche significativo. E’ negli anni Novanta infatti, e nel nostro presente, che una lettura del Novecento come lungo scontro tra democrazie e totalitarismi, e insieme come sforzo di riplasmare regole e modalità della vita internazionale, si afferma pienamente non solo come cultura politica ed ideologia – quale era stata in particolare dagli anni Quaranta in poi – ma anche come analisi internazionale e come ricostruzione storica, per non parlare del senso comune. E’ oggi infatti – e non una o due generazioni fa – che riteniamo di vivere in un mondo wilsoniano di globalizzazione, liberalizzazione e affermazione delle democrazie, e che di conseguenza rileggiamo il Novecento alla luce dei percorsi innescati da quello slogan wilsoniano..
Il secondo motivo ci porta già dentro l’analisi del termine, della sua storia e delle sua specificità. Se consideriamo infatti il pensiero internazionale americano dobbiamo essere cauti prima di attribuire ai protagonisti delle crisi del secolo, e agli architetti delle risposte che a queste vennero date, una lettura puramente trionfale del percorso della democrazia.
E’ indubbio infatti che, in termini prescrittivi, l’appello alla democrazia come perno di una convivenza pacifica e principio guida dell’azione internazionale è al centro delle espressioni non solo di Wilson ma, più sistematicamente, di tutti dirigenti americani dal discorso di Franklin D. Roosevelt sulla quarantena, nel 1937, a quello di Ronald Reagan sull’impero del male, nel 1983. Tra queste due date si inscrive la più piena rappresentazione dicotomica di un mondo suddiviso tra principi antagonistici e inconciliabili, e quindi l’esaltazione della democrazia come bandiera, identità e principio cardinale d’azione. Nell’epoca aspra della guerra anti-nazista e poi del contenimento anti-comunista l’esaltazione della democrazia assume spesso i toni della crociata e costruisce una narrazione d’eroismo e di speranza.
Ma è altrettanto chiaro che il sostrato di quelle mobilitazioni pubbliche e istituzionali è dato da un’analisi tutt’altro che trionfale, o anche solo ottimistica, sulle effettive chances della democrazia nel mondo, ed in particolare sulla direzione del moto della storia verso il suo inveramento o piuttosto una sua graduale asfissia. Tra i sobri realismi di Kennan o Kissinger e gli accenti idealisti di Truman o Kennedy corre certo una gran differenza di giudizio sulla vitalità della democrazia americana, sul suo potenziale peso internazionale e in particolare sulla saggezza dei risultati a cui può condurre il suo processo decisionale. Ma tutti i fautori e protagonisti del contenimento – da Kennan al Paul Nitze di NSC-68 fino a Brzezinski – sono accomunati, sia pure in misura assai diversa, da un sentire non poco pessimistico, se non da un vero e proprio timore della storia. L’incubo che la democrazia possa regredire e finire sconfitta, che le sue trame possano disaggregarsi e le sue solidarietà dileguarsi, che i suoi avversari si rivelino più tenaci e implacabili, è sempre sotto la superficie dell’appello progressivo al valore e alle promesse della democrazia.
La narrazione lineare che trionfa in una strategia e un discorso pubblico imperniati sullo sforzo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” non è dunque disgiungibile da una persistente paura. Paura che l’esperimento americano si riveli infine non una promessa di valore universale ma una lunga illusione, non replicabile e forse neppure difendibile se non al prezzo del suo snaturamento (snaturamento statalista, militarista e in ultima analisi anti-democratico). E, soprattutto, una paura più sottile, sotterranea ma tenace: la paura che le grandi trasformazioni della modernità novecentesca – dall’industrialismo alla razionalizzazione organizzativa, dal nazionalismo alla politica di massa, dalla decolonizzazione alle diverse domande d’inclusione sociale – non possano essere incanalate in un ordine internazionale che salvaguardi le democrazie e fondi la propria stabilità sull’estensione delle loro procedure.
2) Trionfalismo e paura, dunque; promessa di rigenerazione e incubo del crollo. A me pare che sia proprio questa persistente, profonda ambivalenza analitica (e intuitiva) la chiave essenziale per dipanare la logica del wilsonismo e cogliere quindi il più importante elemento di continuità nel pensiero internazionale americano del Novecento.
Tutto questo però data solo dal periodo 1914-1917, perché fino ad allora l’internazionalismo delle élite statunitensi era stato segnato da una fondamentale fiducia nella carica pacificatrice e riordinatrice dell’industrialismo, del commercio, della cultura della modernità: in una parola, del “progresso”. Esse vedono ai primi del Novecento un mondo in cui le interconnessioni tra stati, popoli, mercati e culture appaiono per la prima volta davvero globali, e in cui la prima potenza economica mondiale può veder prosperare i propri valori e interessi, che si presume coincidano con la modernità tout court. Mentre assumono lo status e il peso di grande potenza, gli Stati Uniti possono ora trascendere la loro storica percezione di un emisfero occidentale intrinsecamente separato dall’Europa e percepirsi invece sempre più – come esplicitò Herbert Croly – quale parte non solo integrante, ma decisamente epicentrica, di un mondo che va prodigiosamente unificandosi intorno ai dettami della civiltà liberal-industriale.
McKinley e Theodore Roosevelt assicurano i fondamenti geopolitici e culturali di questa emergente centralità con la conquistata egemonia nell’area caraibica, dove gli USA espletano la loro specifica parte di un’universale “missione civilizzatrice” verso le società – e le razze – ritenute premoderne. La dottrina della “porta aperta”, la “diplomazia del dollaro” e le proposte di Taft per l’arbitrato internazionale ombreggiano poi un codice di cooperazione tra le grandi potenze, poiché presuppongono una comunanza di valori, legami e interessi tale da sostituire l’antagonismo con la collaborazione e depotenziare i conflitti in dispute giudiziarie.
Dall’agosto del 1914 – e poi sempre più radicalmente quanto più la guerra diviene totale, socialmente devastante e non mediabile – tutto questo ovviamente finisce, e Wilson intraprende il tortuoso percorso che lo porterà al wilsonismo. La neutralità – una scelta politicamente, economicamente e culturalmente ovvia per l’America – mostra rapidamente una doppia valenza. Da un lato essa incarna una difesa degli interessi nazionali, intrinsecamente non meno “egoistica” delle politiche seguite dai belligeranti. Ma dall’altro essa viene sempre più rigonfiata a comprendere i “diritti” dei neutrali, non solo quelli economici degli esportatori americani, ma quelli umani e politici del Belgio violato e in generale di tutto il mondo che non è parte diretta del conflitto. Neutralità diviene quindi anche, e soprattutto, estraneità alla devastante logica che muove i belligeranti, sinonimo di una superiore civiltà moderna, progressista e pacifica che vuole affermarsi anche nonostante e contro la guerra europea, e quindi anticipazione di quella diversa logica sistemica che muove Wilson a proporsi come mediatore di “una pace senza vittoria”. Wilson è indubbiamente sospinto da un suo personale empito messianico, ma ben più importante è la riflessione che sta maturando sulla natura di un sistema internazionale nel mondo, e nell’epoca, dell’interdipendenza.
Siamo nel gennaio del 1917, e Wilson condanna senz’appello ogni nozione di equilibrio di potenza sostituendovi l’idea di una “community of power” che trovi le sue radici e il suo linguaggio nella democrazia:
“No peace can last, or ought to last, which does not recognize and accept the principle that governments derive all their just powers from the consent of the governed”.
Per Wilson non è solo questione di una pace giusta, bensì di una pace anche realisticamente sostenibile:
“Any peace that does not recognize and accept this principle will inevitably be upset”.
Esposto all’ingenua inadeguatezza del suo tentativo di mediazione, e privato di altre vie di uscita dalla scelta tedesca della guerra sottomarina illimitata, Wilson quattro mesi dopo porta il paese in guerra per “rendere il mondo sicuro per la democrazia”. La potenza americana viene pienamente utilizzata per prevenire una vittoria tedesca e condizionare i caratteri della pace futura. Forse altrettanto importante è il modo in cui quella potenza viene dispiegata, perché dal dibattito sulla strategia di guerra emerge il wilsonismo che poi conosceremo.
Nell’arco del 1917 – con le vittorie tedesche, il rapido dipanarsi delle rivoluzioni in Russia e i molteplici segni di fatica sui fronti interni dell’Intesa – il progresso della guerra materializza scenari sinistri. La Germania – divenuta ormai nell’immaginario collettivo come in quello personale dei dirigenti americani l’epitome dello statalismo militarista e dispotico – potrebbe arrivare alla vittoria e quindi, sulla base di un’egemonia europea conquistata con le armi, imporre al resto del mondo le proprie regole e diktat. Qui cioè gli incubi della geopolitica navalista teorizzata da Mackinder e Mahan si fondono con le ansie liberali e liberiste per delineare quello spettro che occuperà poi le decadi centrali del Novecento statunitense, quello della corsa alla “conquista” del mondo da parte di un nemico alieno, intrattabile e irriducibile alle norme della convivenza liberale e liberista.
Il secondo scenario è meno focalizzato ma forse non meno ansiogeno: lo spettro della rivoluzione e, più in generale, del disordine sociale che emana con spessore e rapidità crescenti dalle devastazioni e dislocazioni della guerra. Wilson non è tanto spaventato dalla rivoluzione bolscevica – che ritiene aver poco futuro – quanto dalla disgregazione di cui essa è sintomo, dalle forze distruttive che la guerra ha liberato.
E’ anche per questo che il concetto di equilibrio di potenza gli appare ora non solo iniquo ma storicamente superato. Se un piccolo incidente locale nei Balcani è divenuto una guerra europea inarrestabile e poi un conflitto globale di violenza illimitata, che sta mettendo a repentaglio l’intera civiltà liberale, è chiaro che gli antichi meccanismi equilibratori sono tragicamente inadeguati e storicamente obsoleti.
La distruttività della guerra, la rapidità della sua espansione e la catastrofica totalità delle sue conseguenze mettono insomma in luce per Wilson una “dinamica a cascata”, un movimento a spirale potenzialmente inarrestabile che costituisce il rovescio oscuro dell’interdipendenza e della modernità. Per usare le parole di Frank Ninkovich, forse il più interessante analista recente di Wilson e del wilsonismo:
The very forces that made progress possible – technology, trade, a global division of labor, and interdependence – also made possible the system’s destruction if pushed in the wrong direction and not checked. The greater the degree of integration, the more explosive would be the disintegration produced by runaway modernity. Thus Wilson recognized one of modernity’s most prominent and paradoxical features: as the world became more industrialized and integrated, it became more orderly and predictable; at the same time, breakdowns in the system, though perhaps less frequent, were more calamitous
Wilson insomma vede, meglio di altri, anche il rovescio oscuro dell’interdipendenza, in particolare la sua fragilità e vulnerabilità di fronte agli egemonismi di potenza che la vogliono segmentare in aree separate (e quindi facilmente contrapposte); e di fronte alle rivoluzioni e all’incipiente ribellismo nazionalistico dei paesi “incivili” e premoderni, che non ne vogliono sostenere il costo e non ne vedono le opportunità. Queste tensioni verso l’instabilità e la disgregazione possono rovesciare l’interdipendenza da opportunità in pericolo, e in vero e proprio disastro, se non vengono affrontate, contenute e rovesciate con strumenti che devono essere radicalmente nuovi perché adatti alla radicale novità che il Novecento va delineando.
Alla base dell’internazionalismo wilsoniano non sta cioè solo l’utopismo missionario della sua formazione presbiteriana quanto la fosca percezione di un pericolo inedito e quindi di una necessità. Quella di riordinare la vita internazionale alla luce non dei vecchi pericoli – quelli che avevano dettato la tradizione repubblicana dell’isolamento anti-europeo dell’America ottocentesca – quanto delle nuove forze profonde che la minacciano:
“In my opinion – dice Wilson nel marzo 1919 – to try to stop a revolutionary movement is like using a broom to sweep back a spring tide…The sole means of countering Bolshevism is to make its causes disappear”
Ai suoi interlocutori europei egli non rimprovera più tanto una filosofia politica che l’America democratica condanna e rigetta, bensì la pericolosa obsolescenza dei loro strumenti analitici:
“The conservatives do not realize what forces are loose in the world at the present time. Liberalism is the only thing that can save civilization from chaos…Liberalism must be more liberal than ever before, it must be even more radical, if civilization is to escape the typhoon”.
Le soluzioni wilsoniane a questi dilemmi risultano più comprensibili attraverso l’analogia con quell’ingegneria sociale dall’alto in basso che il suo approccio progressista ha privilegiato per i problemi interni della società americana, scossa dalla seconda rivoluzione industriale: regolamentazioni del mercato negoziate tra le principali parti in causa, garantite da strumenti autorevoli ma non intrusivi di controllo statale e sanzionate dal consenso elettorale della democrazia di massa. Se la logica del balance of power non è più in grado di assicurare un equilibrio – proprio come la semplice interazione di domanda e offerta non riesce ad autoperpetuarsi in assenza di regolazione – si deve allora sostituirla con una “community of power” organizzata e diretta razionalmente dall’alto, e legittimata dal consenso: “organized democratic world opinion, institutionalized in a League of Nations, would have to take the place of the Invisible Hand”.
La democrazia quindi come ideale e come speranza negli istinti più pacifici dei governati rispetto a quelli dei governanti; ma soprattutto la democrazia come procedura per conciliare interessi diversi in base a regole formalizzate, secondo le necessità di un mondo più specializzato e interdipendente; e ancora, la democrazia come veicolo di inclusione, purché cautamente controllata e canalizzata dall’alto. Infine – ma elemento più cruciale – la democrazia non come negazione della potenza bensì come luogo e metodo di organizzazione di una potenza che deve essere al tempo stesso superiore (al limite schiacciante) e legittimata agli occhi dell’opinione pubblica.
Quest’ultimo aspetto sfugge retrospettivamente alle molte analisi critiche del wilsonismo che si sono concentrate sui suoi proclami più idealistici e catartici, e che ovviamente erano segnate dal successivo fallimento di una Società delle Nazioni resa imbelle dall’assenza americana e dal permanente dissidio franco-britannico sul trattamento della Germania. Eppure si tratta di una chiave cruciale del wilsonismo, oltre che della sua eredità nel pensiero internazionalista americano.
Perché il nesso democrazia-potenza, pur non teorizzato esplicitamente, attraversa tutta la strategia di Wilson. Wilson non è solo il presidente che usa la potenza americana più di ogni suo predecessore, dal Messico alla Siberia. L’entrata in guerra, l’associazione invece dell’alleanza con l’Intesa, l’invio di un massiccio corpo di spedizione autonomo per imporre la resa alla Germania e dettare le condizioni della pace, sono tasselli di una strategia che non annega la potenza in un concetto idealizzato di pace democratica, ma che ne fa invece il suo perno insostituibile. La Società delle Nazioni, del resto, era per Wilson la leva attraverso la quale la potenza dell’America e delle altre democrazie avrebbe dovuto esercitare una funzione deterrente. E nel 1919 il presidente era persino disposto, compromettendo i suoi proclamati principi di sicurezza collettiva, a considerare l’ipotesi di una garanzia di sicurezza alla Francia.
Il wilsonismo cioè non sostituisce la logica di potenza con la democrazia, ma integra, o meglio cerca di integrare i due termini in una visione che scaturisce dalla constatata pericolosità di un’interdipendenza che è positiva e irrinunciabile, ma a condizione che sia strutturata, regolamentata e difesa. Le sue intrinseche tensioni, infatti, non possono essere confinate in un angolo né risolte attraverso guerre ormai disastrosamente distruttive: esse vanno prevenute, disinnescate, se necessario frenate e battute con la forza.
3) La fiducia nella globalizzazione della modernità si sposa quindi con la percezione della sua fragilità, e quindi con una nozione globalista della sicurezza, degli interessi e della prosperità americana, che non possono essere difesi e affermati in chiave nazionale ma vanno ancorati a una trasformazione dinamica, ma controllata, dell’intero ambiente mondiale. Un ambiente globale, un mondo che non sia sicuro per la democrazia, sicuro per il capitalismo liberale e sicuro per un equilibrio pacifico tra le grandi nazioni non è tanto sfavorevole o eticamente ripugnante: nel Novecento industriale e moderno esso è intrinsecamente instabile e pericoloso. O si avanza o si scivola indietro. La stabilità non esiste, per Wilson, se non come dinamica continua e positiva di una modernità – incarnata in primo luogo dall’America ma comprensiva di tutti i fenomeni di maturazione della civiltà industriale – che se non è globale è subito minacciata, e in ultima analisi rischia di non essere.
Da Wilson in poi questo è il sostrato intellettuale ed emotivo dell’approccio americano alle relazioni internazionali, come riemergerà in forma cristallina con la Carta Atlantica del 1941 e poi con lo schema di Bretton Woods del 1944. Ciò che è intervenuto nel frattempo, com’è ovvio, è un più urgente e profondo apprezzamento del ruolo insostituibile della potenza americana quale cardine e garante di quell’ordine globale dinamico. Wilson questo lo intuiva ma non lo aveva teorizzato né proclamato apertamente. Con Franklin D. Roosevelt esso diviene un assunto esplicito e indiscusso.
La parola chiave è naturalmente “national security” ovvero quel concetto cruciale, ancora ben vivo oggi, che sorge per la prima volta tra il 1938 e il 1941, quando l’espansionismo aggressivo delle dittature prospetta non tanto un diretto pericolo territoriale per gli USA, quanto appunto una trasformazione inaccettabile dello scenario mondiale. Nel linguaggio geopolitico che viene allora emergendo la minaccia è rappresentata dalla potenziale dominazione delle risorse dell’Eurasia da parte di potenze ostili. Nel linguaggio più consolidato delle idee e dei valori politici, la minaccia è quella del progressivo soffocamento della democrazia.
Nell’uno come nell’altro codice – e i due sono sempre inestricabilmente intrecciati – il pericolo è che possa finire un mondo in cui l’America vede incarnato il proprio futuro: il mondo dell’interdipendenza, di una condivisa legalità internazionale, del libero accesso alle risorse e ai mercati, della sovranità democratica come principio universale. La sicurezza nazionale che si sente minacciata è cioè quella che ipotizza una proiezione internazionale dei valori democratici e della struttura liberista dell’esperienza storica americana come unica base sana e affidabile per una pace sostenibile. Per converso, il totalitarismo non è solo un avversario da rintuzzare e magari contro-bilanciare secondo i dettami classici dell’equilibrio di potenza. Esso è invece un nemico mortale con cui non si può convivere: con la logica rooseveltiana della resa incondizionata si inaugura, da parte americana, quella delegittimazione assoluta dell’antagonista che definirà poi i caratteri della guerra fredda. E intanto – con la riformulazione più egemonica delle Nazioni Unite intorno all’idea rooseveltiana dei “quattro poliziotti”, in cui gli USA avrebbero un ruolo di arbitro ultimo e supremo del sistema – il nesso tra potenza e consolidamento di un ordinamento favorevole alle democrazie diviene non solo esplicito ma cardinale.
Quando si rivela impossibile, o comunque troppo rischioso, integrare anche l’URSS staliniana in quell’ordine insieme democratico ed egemonico, quello stesso concetto di sicurezza nazionale fornisce la matrice per la definizione di una minaccia sovietica, nel 1947-49, e quindi per l’elaborazione del contenimento.
Fino alla fine del 1949 quella sovietica non è vista come una minaccia eminentemente militare. Il nocciolo delle preoccupazioni americane risiede invece nel sovrapporsi di fattori di fragilità e incertezza in Europa e nel Mediterraneo. La debolezza della Gran Bretagna, il vuoto di potere in Germania, la precarietà politico-economica della Francia e dell’Italia, il “dollar gap”, prospettano uno scenario di prolungata instabilità che offre opportunità alla contigua potenza sovietica. L’influenza sovietica potrebbe estendersi, come spesso dicevano i diplomatici trumaniani, “by default”, cioè per la passiva inazione degli USA e dell’occidente. Come su un piano inclinato, nuove aree e soggetti scivolerebbero sempre più verso Mosca, fino magari a prefigurare la materializzazione dell’incubo geopolitico delineatosi dal 1940: il dominio di una potenza ostile sull’intera Eurasia.
Per questo la “risposta” americana è articolata nella divisione della Germania, la riorganizzazione economica dell’Europa occidentale e un Patto atlantico concepito in prima battuta come rassicurazione politica e psicologica: si tratta cioè di consolidare le democrazie come attori e baluardi dell’interdipendenza, con gli Stati Uniti che divengono potenza garante di questo assetto europeo in costruzione.
A partire dal 1950 – con la bomba sovietica, la rivoluzione cinese e la guerra in Corea – assistiamo poi alla rapida militarizzazione del confronto bipolare, e la “national security” assumerà sempre più un volto, e un linguaggio, di carattere strategico-militare legato ai problemi della deterrenza. La sua razionalità primaria, e la sua fondamentale legittimazione politico-culturale, resteranno tuttavia sempre ancorate ai concetti originari. Affermare e difendere l’interconnessione vitale tra tutti i poli economico-politici di quello che ci si sta abituando a chiamare Occidente (anche se ormai comprende pure il Giappone), e poi con altre aree della cosiddetta “periferia” post-coloniale. Essa si incardina cioè sulla promozione dell’interdipendenza globale, sulla ri-proposizione di un mondo in cui democrazie, mercati e valori liberali possano crescere e radicarsi, altrimenti deperiranno.
Molti storici hanno spesso additato criticamente le imperfezioni storiche e la grossolanità analitica che stava alla base di questa reiterazione, da parte americana, dello schema ripetibile di un’analoga minaccia (insieme ideologica e geo-politica) che di volta in volta fu vista incarnarsi nella Germania nazista, nell’URSS staliniana e, sia pure in chiave più localizzata, nella Cina di Mao a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Qui non voglio tornare alla discussione sul concetto di totalitarismo, ma sottolineare come quella reiterazione – imperfetta o meno che fosse – vada ricondotta primariamente a una perdurante percezione di fragilità sistemica. Sotto il profilo della strategia internazionale americana il problema non era quello delle matrici più o meno simili di comunismo e nazismo, ma della ricorrente vulnerabilità del tessuto dell’interdipendenza democratica e liberista che tali antagonisti evidenziavano. Gli Stati Uniti della guerra fredda protessero il sistema dell’interdipendenza occidentale con una forza non solo riequilibratrice e deterrente solo il puro profilo militare, ma a tutti gli effetti “preponderante” in chiave sia strategica che politico-economica, proprio perché ritennero sempre che tale sistema, per quanto intrinsecamente multilaterale, necessitasse della potenza americana come garanzia indispensabile della sua saldezza e permanenza.
4) Intorno a questo connubio tra democrazia e potenza i campi di tensione dunque abbondano, e vorrei concludere discutendo brevemente alcuni dei più rilevanti. Tralascio volutamente di addentrami nel problema – complesso e assai sfaccettato – del rapporto tra democrazia e capitalismo. Come sapete la critica più radicale e ricorrente all’atteggiamento internazionale americano ritiene che in realtà la potenza statunitense sia stata e sia finalizzata a rendere il mondo sicuro per il capitalismo, e che ciò sia andato a discapito delle sorti della democrazia sia in molte aree del mondo che negli stessi Stati Uniti. Nel vasto spettro di opinioni che spaziano dalla inconciliabilità tra democrazia e capitalismo fino alla inseparabilità dei due termini, è del tutto ovvio che il pensiero internazionalista americano, pur con varie sfumature, si colloca a ridosso di quest’ultimo polo. Il punto che mi interessa sottolineare è però un altro.
Nei processi di globalizzazione attuali così come in quelli impetuosi di un secolo fa, la moltiplicazione degli scambi commerciali e finanziari, e la propagazione di norme e culture che originano dai centri metropolitani del capitalismo (ed in particolare dagli Stati Uniti), generano tanto crescita e interdipendenza quanto instabilità, tensioni e vera o potenziale disgregazione del tessuto internazionale. Portano quindi sconvolgimenti che inducono o facilitano reazioni radicali e dissonanti, ed è qui che, spesso, interviene poi l’attivismo di potenza degli Stati Uniti. Gli effettivi trasformativi sono cioè continui, e scuotono le società coinvolte provocando una molteplicità di risposte e aggiustamenti che possono andare sia verso un’allargamento della democrazia che una sua radicale negazione. L’Europa – se considerata nel suo complesso – ha sperimentato nel corso del Novecento tutte o quasi queste possibili risposte, ed è evidente che è approdata al consolidamento democratico in diretto rapporto con il dispiegamento della potenza americana. Anche in Asia e in America Latina la gamma degli aggiustamenti politici alle ondate trasformative della modernità è stata ed è molto ampia.
Il wilsonismo, come ho cercato di mostrare, fonda le sue premesse proprio sull’assunzione di questa duplice, ambivalente dinamica come sfida essenziale a cui il sistema internazionale deve rispondere. Il wilsonismo (o meglio l’internazionalismo americano) non è tuttavia una dottrina formalizzata e immobile. Essa si è costituita in corpo di idee e robusti assunti culturali nell’arco di un secolo che ha posto di volta in volta sfide specifiche agli Stati Uniti, ed è attraverso quelle successive contingenze che il wilsonismo è divenuto progetto, strategia e, soprattutto, cultura radicata e condivisa.
Quando parliamo di un “secolo americano” ci riferiamo in genere alle sue fonti nella cultura, nell’economia, nel tipo di relazioni sociali e di soluzioni politiche maturate nella storia degli Stati Uniti. Ma il processo che ha amalgamato questi elementi traducendoli poi in una peculiare visione e strategia internazionale non può essere letto in termini puramente americani. Altrettanto cruciali – nell’ordinare le priorità e i nessi che convergono a delineare la concezione internazionale degli Stati Uniti – sono stati i contesti storici, i mutevoli scenari di opportunità e sfide disegnati dagli altri attori del sistema.
Ricorrere all’immagine di un “secolo americano” può essere utile solo a patto di non trascurare mai il fatto che si è trattato di un processo eminentemente inter-attivo. Il Novecento come “secolo americano” è letteralmente inconcepibile se non consideriamo anche quegli altri aspetti della vita internazionale che l’hanno plasmato: il secolo (mancato) della Germania, il secolo dell’auto-distruzione dell’Europa, del comunismo sovietico, della liberazione ed organizzazione post-coloniale, dell’ascesa dell’Estremo oriente ecc.
Dico questo non tanto per riconoscere agli altri il loro luminoso o terrificante protagonismo – cosa comunque non irrilevante – ma per focalizzare meglio il carattere di acquisizione storica incrementale che caratterizza la lettura americana del rapporto tra democrazia e potenza. Da Roosevelt in poi l’interpretazione wilsoniana viene declinata come sforzo consapevolmente egemonico per consolidare dei regimi di democrazia liberale in aree selettivamente identificate come cruciali. Non si tratta solo di dar vita a un sistema di democrazia mondiale istituzionalizzato in un’organizzazione paritaria, e funzionalmente maggioritaria, delle Nazioni Unite, ma soprattutto di collegare quelle aree in una trama di fitta interdipendenza economica e politica ancorata alla preponderanza della forza americana. Quest’ultima agisce sia da garante ultimo di questo sottosistema “occidentale” – rispetto all’esterno – che da gerarchizzatore interno, per conciliarne le tensioni, ordinarne le priorità, garantirne una coesione che è costantemente rinegoziata e riadattata, ma mai lasciata in balia di un multilateralismo assoluto e privo di confini.
La lettura delle sfide incorse dalla democrazia e dall’interdipendenza – nel 1914 e soprattutto negli anni Trenta – dice infatti a Washington che queste possono decadere e perire in assenza non solo di uno scudo ma di un robusto collante. La leadership americana non è solo il portato di una superiorità economica, tecnologica o “ideale”, è la precondizione per la sopravvivenza e la funzionalità del multilateralismo.
E’ qui, a mio parere, che sta la chiave di alcuni dei problemi del presente, e presumibilmente del prossimo futuro. La lettura storica delle vicissitudini dell’interdipendenza ha radicato nel pensiero internazionale americano la nozione secondo cui la sopravvivenza, l’espansione e la stabilità delle democrazie necessita di una dose variabile ma comunque robusta di egemonia statunitense. Da qui deriva il ripetuto privilegio dato alla NATO sulle Nazioni Unite come organismo cardinale di peace-making e peace-keeping. Da qui deriva anche il carattere ambivalente dell’atteggiamento verso la costruzione dell’Europa come attore unitario e forte nello scenario internazionale. Da qui deriva infine lo stato di endemica frizione – certo controllabile ma difficilmente eliminabile – con quegli stati che, come la Cina e la Russia, sono assai riluttanti ad accettare l’unipolarità insita nell’odierno sistema internazionale.
Voglio chiudere sulla questione dell’Europa, e in particolare sulla domanda che attraversa tutto il Novecento e che ha assunto oggi una nuova attualità. In chiave storica dobbiamo chiederci quale sarebbe stato, nel corso del Novecento, il tipo di egemonia in Europa che gli Stati Uniti avrebbero ritenuto sufficientemente sicuro ed accettabile. In altre parole: è stata solo la natura militarista, autarchica e totalitaria dei progetti egemonici che emanavano dalla Germania nazista e dall’URSS a renderli inaccettabili ? Sicuramente queste caratteristiche sono quelle che, per nostra fortuna, hanno suscitato e reso possibile la mobilitazione dell’America, sia nel 1940-41 che poi con la guerra fredda.
Ma sappiamo anche che in ripetute occasioni il tipo di Europa delineata dalle aspirazioni francesi – un’Europa assertiva guidata da Parigi, forse parecchio protezionista e mercantilista ma sicuramente democratica – fu scartato da Washington non solo perché appariva fragile e inaffidabile nel contesto dell’antagonismo bipolare, ma anche perché risultava di per sé scarsamente desiderabile. Il quesito sul tipo di egemonia non è quindi solo controfattuale, ma del tutto congruo con il presente.
Fino a che punto e in quale misura un’Europa unita, più sicura di sé ed autonoma potrebbe trovare posto nella visione americana dell’interdipendenza globale ? In teoria il livello di frizione connesso a questa ipotesi dovrebbe essere minimo, e sostanzialmente legato al grado di adesione di quell’ipotetica Europa alle trame di interdipendenza economica e politica ormai ampiamente consolidate. Cooperazione nella NATO e libertà di scambi sono i parametri fondamentali sui cui l’internazionalismo americano giudica la positività o meno dello sviluppo di un’Europa più autonoma e assertiva.
Ma la storia del Novecento ha fissato profondamente un assioma in quelle concezioni internazionaliste: la convinzione cioè che la stabilità del regime internazionale delle democrazie verte in ultima analisi sulla benevola ma ferma egemonia americana, e quindi, per ciò che ci riguarda specificamente, sulla leadership esercitata dentro e attraverso la NATO. Dopo la guerra fredda la vicenda bosniaca ha ulteriormente confermato a Washington l’apparente immutabilità di questo assioma.
Per immaginare un rapporto di cooperazione più paritario tra un’Europa unitaria e assertiva e gli Stati Uniti bisogna innanzitutto congetturare la soluzione di non pochi dilemmi intra-europei, ma prima o poi si dovrà anche fare i conti con questa lunga eredità novecentesca. Solo un’Europa che riesca effettivamente – in qualcuna delle crisi che verranno – a difendere con autorità ed efficacia la stabilità propria e delle aree immediatamente vicine potrebbe iniziare ad allentare quel nesso tra democrazia e potenza americana che qui ho cercato di riassumere.
Solo allora la visione americana dell’ordine internazionale potrebbe venire davvero testata, perché sarebbe finalmente disgiunta dal cruciale corollario di una unipolarità – prima virtuale e poi reale – che fino ad oggi ha saldato la democrazia con l’egemonia. Quando ciò accadesse, infatti, si supererebbe per la prima volta quella equazione tra interdipendenza democratica e indispensabilità della potenza e della leadership americana che ha colorato l’internazionalismo statunitense da Wilson ad oggi.