Caro, Montanelli,
“Tempi di malafede” è il titolo di un libro, a Lei ben noto dedicato da Sandro Gerbi alla storia dei rapporti tra Guido Piovene e Eugenio Colorni. Ai lettori che non ne avessero conoscenza ricordo che fu scrittore, il primo, di notevole talento e giornalista di regime, memorabile per una entusiastica recensione di un osceno, libello antisemita intitolato “Contra Judaeos”, comunista anomalo nella Roma occupata dai tedeschi, intellettuale irrequieto negli anni della repubblica, Suo seguace, infine, nella secessione dal “Corriere della Sera” di Piero Ottone; Colorni fu filosofo di alto valore, -lo attesta Norberto Bobbio- ebreo, cospiratore, socialista, carcerato e poi deportato a Ventotene, autore con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli del manifesto federalista che dall’isola prese nome, redattore dell’Avanti! clandestino, ucciso da un sicario della banda Koch alla vigilia della liberazione di Roma.
Il caso Piovene -Colorni, per la eccezionalità dei due personaggi e la singolarità della loro vicenda, non si presta a generalizzazioni, ma la trama dei rapporti tra loro che Gerbi ricostruisce con finezza e maestrìa getta anche illuminante luce sulla storia di quel giornalismo italiano che si formò negli anni del fascismo, che accettò e servì il regime rimanendo sostanzialmente scettico di fronte alle sue idealità e alla sua dottrina, ma ne fu una delle insostituibili colonne, che ha messo le sue innegabili capacità professionali, nello stesso spirito, al servizio dei governi democratici del dopoguerra. Capostipite esemplare ne fu Giovanni Ansaldo, che esordì brillantemente sulle pagine di “Rivoluzione Liberale”, primeggiò nella stampa fascista, chiuse la sua carriera da direttore del “Mattino” di Napoli di stretta osservanza governativa e fu inventore nei suoi giovani e presaghi anni della compagnia degli “apoti”, quelli che “non la bevono”, ma non provano riluttanza a dare una mano, magari “turandosi il naso”, perché il grande pubblico beva tutto quello che il potere propina. Si contano sulla punta delle dita i giornalisti che negli anni della “prima repubblica” hanno legato il proprio nome a battaglie di libertà, di giustizia, di democrazia. Guido Piovene che con sensibilità di scrittore visse in lucida coscienza questa condizione e per il suo rapporto, per lui quasi ossessionante, con Colorni ne intuì la drammaticità le dette il nome di malafede e la definì nella prefazione alle “Lettere di una novizia” come l’ “arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza” per concludere che la malafede “non è uno stato d’animo, ma una qualità dell’animo”, non è cedimento all’opportunismo volgare, ma accettazione di una concezione della condizione umana.
A farmi tornare in mente Piovene è stato Lei con una delle sue “stanze” dedicata, questa volta, a Riccardo Lombardi.
A parte I’approssimazione e I’imprecisione dei riferimenti storici e biografici -anche Omero, perdonabilmente, qualche volta dormicchia- quello che mi ha impressionato è stata la carica di frigido e gratuito livore che traspare da ogni Sua riga, mal corretta dal riconoscimento della dirittura e del disinteresse dell’uomo e che non può essere attribuita, a mio parere, a risentimenti personali e tanto meno a passione politica.
La spiegazione va quindi cercata altrove e la mia è che la denigrazione di Lombardi sia episodio di quella caccia all”‘azionista” che, da lungo tempo, vede impegnati gli avanguardisti di quel fenomeno tumultuoso e torbido che ha preso nome di revisionismo e che ha investito con la furia devastante di un’alluvione tutti i campi della cultura. E Lei, che da altrettanto lungo tempo, portandovi la tagliente intelligenza toscana che Le è propria e la lunga pratica del mestiere, si è assunta la parte di padre nobile e di suggeritore esperto, non poteva mancare di dare il Suo contributo nel momento in cui contro l”‘azionismo” parte I’ennesimo attacco: una sua “stanza” – la prenda come un complimento professionale – vale più di un libro.
Si è parlato e si parla ancora della “egemonia’ esercitata dai comunisti sulla cultura italiana. Giorgio Amendola, che era un intenditore, diceva che essa era la capacità di intimidire gli avversari e di indirizzare gli alleati senza ricorrere al bastone. Ora, quella egemonia ci fu e fu pesante, – da socialista ne sono buon testimone – fu in certi momenti e in certi aspetti dogmatica, faziosa e settaria, ma fu conquistata stando all’opposizione, contro le politiche discriminatorie dei governi e delle forze reali del paese, contro la scomunica che vietava al bracciante in odor di marxismo il matrimonio e il funerale religiosi.
Tanto fu possibile perché quella egemonia si alimentava di una cultura che si dipartiva dal pensiero storicistico nelle sue molteplici e dialettiche articolazioni e fu manovrata con tanta genialità che finanche Croce si trovò, contro la sua volontà, a consolidarla. Oggi I’egemonia ha cambiato segno, colore e natura, la sua cultura è senza pensiero, anzi si potrebbe dire è nemica del pensiero, ma essa può valersi di tutti gli strumenti, dalla cattedra alla editoria, dalla grande stampa alla televisione fino al messaggio pubblicitario e ha sviluppato, anche in virtù della duttilità consentita dal proprio agnosticismo ideale, una capacità di intimidazione che ha gettato nel terrore gli esangui eredi di Giorgio Amendola, riducendoli, direi quasi letteralmente, al balbettio.
Il revisionismo odierno ha potuto cosi portare a compimento una operazione di strumentalizzazione della cultura di un’ampiezza e di una profondità senza precedenti. Le scienze giuridiche sono state scisse dai principii e degradate a una somma di virtuosismi tecnici, opportunisticamente e anche dilettantescamente manipolati; l’economia riportata ai tempi del capitalismo nascente quando c’era ancora tutto un mondo non da governare, ma da conquistare; la morale rimodellata secondo la legge della giungla; la sociologia divenuta tecnica della interpretazione delle statistiche e dei sondaggi al servizio del mercato delle merci e di quello dei voti, mentre quella sua sottospecie che è la politologia ha preso il posto dell’astrologia nella e nella conduzione della politica.
Di questi ingredienti si è venuta costituendo quella che, lasciandone il merito a Piovene, può esser definita I’ideologia della malafede, quella che adatta la coscienza alla regola della convenienza, quella, direbbe Arturo Carlo Jemolo, che vede il mondo non in nero ma in sporco.
Nel campo degli studi storici il neo-revisionismo, sapientemente mescolando mezze verità e mezze bugie, presentate le une e le altre con la prosopopea della mezza scienza e condite con la banalità del buon senso, è venuto sostituendo alle vulgate della più opaca storiografia comunista, una propria versione ideologica della storia che si propone di epurarne il corso di quel filone sovversivo e sanguinario che parte da Spartaco, che passa per Robespierre e Stalin e arriva a Pol Pot e a Milosevic, sul quale si colloca anche la “guerra civile” fomentata dai comunisti, che lacerò l’Italia dal 1943 al 1945. L’obiettivo, lo sappiano o non lo sappiano i professori di storia – Lei, che non è professore, lo sa – è quello di dissolvere quanto resta del patrimonio ideale e morale della repubblica, nata, come si suol dire e come è storicamente vero, dalla Resistenza e di affossare la Costituzione che di lì trasse vita. Demolire la cultura storica ispirata all’antifascismo, e con essa I’ideologia di massa che ne era nata era e resta la condizione perché si compia per intero il passaggio dalla repubblica dei partiti alla repubblica delle compagnie di ventura, dalla democrazia parlamentare alla democrazia plebiscitaria. Il criterio metodologico – Benedetto Croce ne inorridirebbe – è quello di svalutare e di tralasciare nella ricerca la presenza, e la funzione nella storia dei fattori di natura etico-politica e di ignorarli nella formulazione del giudizio storico. La storiografia, quella vera, è scientificamente asettica, non conosce i buoni e i cattivi, non fa distinzioni moralistiche tra Gesù Cristo e chi lo inchiodò sulla croce, racconta le vicende di esseri umani ciascuno dei quali ha i suoi torti e le sue ragioni ed è carità di patria nel nostro caso – la storia del fascismo e dell’antifascismo – stendere, un velo sugli uni e sulle altre.
In questa operazione, caro Montanelli, Lei è stato un fiancheggiatore insuperabile. Sarebbe impresa di grande interesse raccogliere e allineare tutti i riferimenti storici disseminati nei Suoi scritti giornalistici per erigere un monumento alla Sua sagacia e alla Sua destrezza. Lei ha maneggiato e mescolato con arte il giudizio sereno e la malignità cattiva, la “banalité solennelle” e I’aneddoto arguto, il pettegolezzo tratto da remote memorie e la testimonianza di chi ne ha viste tante e non sa rinunciare al gusto di “épater le bourgeois“.
L’egemonia comunista appartiene a questo punto al passato. Gli storici della prima generazione, sono sepolti o si sono chiusi nel silenzio o addirittura sono passati in campo avverso portandovi il settarismo e la protervia degli apostati. Chi non ha capitolato è costretto a ricorrere alla stampa semiclandestina o al foglio fotocopiato da distribuire, a mano, agli amici.
A resistere agli assalti rimane ancora la cittadella “azionista” non sfiorata dal crollo del muro di Berlino e non sfiorata dall’onda di Tangentopoli, e questo spiega la furia ricorrente e accanita della offensiva che contro di essa si conduce e che vadall’attacco dottrinale al “gramsci-azionismo” alla polemica ideologica contro il giacobinismo, mite o feroce che sia, dei suoi adepti, alla denuncia politica dell”‘azionismo” come copertura consapevolmente offerta al comunismo, dallo sciacallaggio archivistico al pettegolezzo da cortile, alla malevola caricatura ,come Lei ha fatto con Riccardo Lombardi.
Il fatto è che l”‘azionismo” con la sola esistenza ha vittoriosamente sfidato tutte le saccenterie, ideologiche e metodologiche, degli storici e dei politologi. Il partito d’azione, dal quale il fenomeno ha preso nome, ebbe vita tanto breve quanto travagliata: si scisse alla vigilia delle elezioni del ’46, mandò alla Costituente sette deputati che lasciarono nella Costituzione il segno della loro presenza – basti ricordare Piero Calamandrei – rappresentanti di un partito che si sciolse, senza risse e con altissima dignità, in una con I’Assemblea. In quella occasione Lombardi parlò di un crisma che avrebbe accompagnato i suoi militanti per la vita quali fossero le scelte che essi avrebbero fatte.
E’ stato vero. L'”azionismo” non soltanto sopravvisse al partito che gli ha dato nome ma crebbe rigoglioso e ha concorso a dare un’impronta alla migliore storia della politica e della cultura dell’Italia repubblicana. E questo è potuto avvenire perché l’unità degli “azionisti” stava non in una dottrina, ma in ethos politico, in un modo di concepire e di praticare la politica regolandola non “sul metro della convenienza” ma su quello della fedeltà alle idealità e ai principii che li avevano portati e sfidare via via l’isolamento dalla vita della nazione, il confino, la galera, la tortura, i plotoni d’esecuzione negli anni che corsero, tra I’avvento del fascismo e la fioritura della Resistenza, da Carlo Rosselli a Duccio Galimberti. Le loro scelte politiche furono diverse, a volte divergenti e contrastanti tra loro, ma dovunque essi portarono il rifiuto reciso e totale del dogmatismo, del settarismo, dell’opportunismo, la permanente apertura al dialogo politico e al dialettico scambio delle idee, furono gli uomini del “ponte” costruito da Calamandrei, sul quale transitavano senza confondersi, ma senza ignorarsi, aperte allo scambio, esperienze ideali e culturali diverse che avevano in comune il culto della dignità della persona umana.
Mi limito a far pochi nomi come mi vengono in mente: – Gaetano Salvemini che dell'”azionismo” fu il patriarca, Norberto Bobbio, Riccardo Bauer, Giacomo Brodolini, Piero Calamandrei, Guido Calogero, Aldo Capitini, Tristano Codignola, Francesco De Martino, Guido De Ruggiero, Guido Dorso, Tommaso Fiore, Vittorio Foa, Sandro Galante Garrone, Aldo Garosci, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Adolfo Omodeo, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria, Paolo Sylos Labini, Altiero Spinelli, Giorgio Spini, Leo Valiani, Franco Venturi. Mette conto di ricordare che dall”‘azionismo” proviene anche Carlo Azeglio Ciampi. Ci troviamo di fronte a un’aristocrazia del rigore morale, della intelligenza e del coraggio, consapevole, si può convenirne di essere tale ma che ha conquistato sul campo i propri titoli di nobiltà, e ha voluto e saputo dimostrare con l’esempio offerto per una intera vita di esserne rimasta degna. I “se” a volte servono a capir meglio la storia: provi, caro Montanelli, a immaginare quanto impoverita e sbiadita risulterebbe la vita politica e culturale dell’Italia repubblicana se questi uomini non ci fossero stati.
lo sono “sceso in politica” giovanissimo in un gruppo clandestino di ‘Italia Libera’, che era emanazione del partito d’azione, ho militato nella Resistenza “giellista’, ho avuto il privilegio, favorito dalle circostanze, di essermi legato negli anni con rapporti di filiale affetto o di fraterna amicizia con molti degli uomini che ho ricordati e con tanti altri, “azionisti” e no, i cui nomi non sono entrati nella storia e che mi furono anch’essi maestri di vita morale: tutti uomini che, per dirla con Piovene, non regolarono mai la conoscenza di loro stessi sul metro della convenienza, per i quali, sempre, la buonafede e non la malafede fu “qualità dell’anima”.
E questo mi suggerisce di chiudere con una confidenza che faccio a Lei, da uomo a uomo. lo non ho ancora raggiunto la sua età, anche se me lo auguro, come a Lei sinceramente auguro di toccare e superare il traguardo del Suo primo secolo nelle condizioni di invidiabile lucidità di cui dà continua prova. Anch’io, però, ho varcato la soglia della vecchiaia e ho scoperto che la si può vivere, anche da laici, in stato di grazia, quello che si raggiunge quando si può guardare al passato, senza superbia, che è peccato, ma con I’intimo convincimento di aver conservato il rispetto di se stessi e la stima e I’amicizia delle persone che incontrammo lungo la nostra via, di poter dialogare ancora idealmente con loro, di poter immaginare i loro consigli, di poter sentire ancora il calore del loro affetto.
C’è una eutanasia che è difesa della propria dignità umana quando si può essere non più in grado di salvarsela da soli e può diventare necessario ricorrere a mani esperte e pietose e ce ne è una che è tutta e solo nelle nostre mani. Il caso ha voluto che a insegnarmelo – l’ho capito col passar degli anni – sia stato il padre spirituale degli “azionisti”, Salvemini, che morì dicendosi felice di avere intorno a sé tanti amici i quali non avevano le sembianze di compunti e sussiegosi colleghi, ma erano i suoi compagni di avventure, di fede e di passione, i vivi e i morti. Spero – la speranza è virtù – che tocchi anche a me lo stesso destino. E tra gli amici, oscuri e illustri che in quel momento vorrei avere accanto c’è anche, col suo cipiglio e col suo candore, Riccardo Lombardi.
Gaetano Arfè.