E’ difficile valutare il nuovo sistema di reclutamento dei docenti universitari prescindendo da altri aspetti della vita universitaria che, com’è noto, sta attraversando una complessa e al momento ancora indeterminata transizione. Lo mostrano, ad esempio, aspetti decisivi, subito emersi con il nuovo sistema di reclutamento, come la condizione di privilegio di cui hanno goduto i “candidati interni” sostenuti dalle facoltà. Questa circostanza evidenzia quanto il nuovo sistema sia direttamente influenzato dall’autonomia finanziaria delle università. Com’è noto, infatti, la strozzatura introdotta da tale autonomia rende quasi obbligato l’interesse delle facoltà a chiamare nella fascia superiore docenti che insegnano già, presso la stessa facoltà, nella fascia inferiore. Ciò spinge verso percorsi che favoriscano – per quanto possibile – tale esito, come avviare le procedure solo dopo aver contattato i docenti del gruppo disciplinare interessato e aver sondato le possibilità di riuscita del candidato locale.
Nel caso della Storia contemporanea, inoltre, sono intervenuti alcuni elementi specifici, come l’alto numero di procedure bandite dalle facoltà nel corso di un anno e mezzo e il consenso – o almeno la non opposizione – dei membri della “corporazione” contemporaneistica alla dilatazione dei ruoli di professore ordinario e associato, attraverso una accettazione in buona parte “passiva” di condizionamenti indotti dalla nuova situazione. Tali comportamenti hanno costituito forse il maggiore elemento di sorpresa, anche perché capaci di determinare l’accantonamento dell’ipotesi – a parole sostenuta da molti – di costituire una consulta della disciplina. Intorno a tale orientamento è emerso un atteggiamento non privo di paradossi: pur venendo adottato quasi unanimemente dai membri della “corporazione” è stato oggetto, in modo quasi altrettanto unanime, di molteplici critiche da parte degli stessi.
Vorrei qui illustrare brevemente due diversi ordini di motivazioni che mi è sembrato di cogliere all’origine di questa “contraddizione”. Da una parte, mi pare che i contemporaneisti abbiano visto, nella nuova situazione, opportunità che meritavano di essere colte; dall’altra, molti di essi hanno ritenuto inevitabile accettare nuovi condizionamenti che sono emersi con le nuove procedure.
1) Come è stato più volte sottolineato, le nuove modalità di reclutamento nascono dal tentativo di superare problemi presenti nel vecchio sistema dei concorsi nazionali. Indubbiamente, la complessità e la macchinosità dei procedimenti concorsuali era diventata difficilmente sostenibile: nel caso della Storia contemporanea, si configuravano concorsi con centinaia di candidati, in cui i commissari erano chiamati ad apporre – per tacere di altri obblighi – migliaia e talvolta decine di migliaia di firme, con il rischio che il concorso venisse annullato da una piccola irregolarità formale. è un evidente motivo per cui una riforma si imponeva.
2) Al di là di questi aspetti divenuti nel tempo quasi folkloristici, c’erano anche questioni di maggior importanza, come le situazioni di “blocco” che si determinavano all’interno delle singole discipline, con effetti – in alcuni casi – di vere e proprie congestioni.
Un primo blocco scaturiva dai molti anni che intercorrevano abitualmente tra i vari concorsi, con la conseguenza di rendere molto lenta e vischiosa la “carriera” dei docenti, con ripercussioni complessivamente negative sulla vita universitaria. Sotto questo profilo, credo si possa concordare che il nuovo sistema ha semplificato molte cose (ma altre ancora potrebbero essere semplificate ulteriormente) decongestionando in particolare casi limite come Storia contemporanea.
3) Meno visibile, ma anche questa rilevante, era poi la possibilità – nel vecchio sistema – che all’interno dello stesso settore disciplinare “gruppi” diversi di docenti si ostacolassero a vicenda con la formazione di “veti” nei confronti di intere scuole o di singoli candidati, il cui valore era peraltro noto a tutti. Al blocco “naturale” se ne aggiungevano così altri prodotti “artificialmente”. Tale problema non è venuto automaticamente meno, ma l’affidamento alle Facoltà del “diritto di bando” lo ha reso meno acuto, laddove siano attivate numerose procedure di reclutamento. è il caso della Storia contemporanea: l’elevato numero di idoneità messe a disposizione ha favorito la caduta di meccanismi di occupazione degli spazi da parte di alcuni a danno di altri gruppi culturali.
Va però notato che non si tratta di un “merito” – o, secondo un diverso punto di vista, di un “demerito” – che si possa attribuire automaticamente al nuovo sistema in quanto tale. Forme di preclusione e occupazioni degli spazi persistono più facilmente in altre discipline, soprattutto nei casi in cui viene bandito un numero limitato di procedure di reclutamento. Il nuovo sistema ha insomma reso possibile un superamento di blocchi precedenti, ma non lo ha garantito automaticamente: occorre che si verifichino anche altre condizioni, tra cui il consenso dei docenti del gruppo o quantomeno la loro impossibilità di opporsi.
4) Le forme di controllo precedentemente diffuse – e talvolta ancora persistenti in altri ambiti disciplinari – favorivano anche un elevato grado di omogeneità all’interno dello stesso raggruppamento. Mentre un certo sistema “baronale” di antica origine era imperniato su una cooptazione dall’alto – con i difetti del caso ma anche con qualche pregio: il “maestro” poteva scegliere sia il “portaborse” sia il “genio” – il sistema prevalso successivamente ha favorito l’omogeneità, ma sul piano culturale omogeneità vuol dire conformismo: è anche questa una forma di blocco. Il pluralismo delle prospettive di ricerca e la vivacità degli interessi culturali coltivati all’interno di una specifica area del sapere costituiscono viceversa questioni cruciali e, nel caso della Storia contemporanea, i risultati delle procedure di reclutamento introdotte recentemente sembrano aver evitato alcune “strozzature” che si erano create in passato.
Mi pare, insomma, che i contemporaneisti abbiano colto, nelle nuove procedure, la possibilità di “sbloccare” una situazione in precedenza frenata da vari fattori negativi. Sotto questo profilo, l’orientamento da loro adottato sembra rispondere ad esigenze reali, anche se naturalmente si può discutere se tale orientamento costituisca la migliore risposta possibile a tali esigenze.
Personalmente, mi pare da condividere la preoccupazione di favorire uno “sblocco” della situazione precedente. In particolare, ritengo apprezzabile che i contemporaneisti abbiano rinunciato ad utilizzare strumenti di controllo o di veto che in genere finiscono per essere soprattutto mezzi di lotta fra gruppi contrapposti all’interno dello stesso ambito accademico. Tale condotta mi sembra in ogni caso preferibile a quella di gruppi in cui – secondo vociferationes forse infondate ma che tradiscono comunque una significativa ammirazione – si sarebbero create “cupole” capaci di esercitare un ferreo controllo sulla materia. è infatti difficile che – al di là di una certa retorica d’obbligo in questi casi – le forme di controllo e i casi di discriminazione corrispondano (solo) ad un effettivo giudizio di qualità.
Tali osservazioni, però, non impediscono di guardare ad altri aspetti della questione. In questa situazione di “sblocco”, si potrebbe obiettare, è facile passare da un eccesso all’altro: c’è ad esempio la possibilità che il nuovo sistema, in presenza di un alto numero di bandi e di una certa “acquiescenza” della corporazione, possa favorire un numero più elevato di idonei che non abbiano elevate qualità scientifico-culturali. Il problema è reale e va riconosciuto, ma anche distinto dalle considerazioni precedenti e soprattutto ricondotto alle sue cause reali: non nasce, infatti, da un atteggiamento troppo lassista dei docenti incaricati delle verifiche di idoneità, ma dall’esistenza di nuovi – meno visibili – elementi di rigidità, di cui provo qui di seguito a indicare i più immediati. Non si vede infatti l’interesse di una corporazione a cooptare membri che non considera validi, mentre si può capire – senza necessariamente condividere – che tale corporazione consideri inevitabile pagare prezzi che permettano la propria espansione.
1) Come si è già accennato, l’autonomia finanziaria induce le facoltà a preferire i candidati “interni”. Questa tendenza è in contraddizione con l’obiettivo, spesso ripetuto, di stimolare la concorrenza fra le diverse università. In astratto dovrebbe essere interesse delle facoltà attirare i docenti più bravi e più qualificati; in pratica, la preferenza è fortemente concentrata sul candidato interno, che non necessariamente coincide con il più bravo e il più qualificato. Si tratterà di vedere se è “ancora” così, in attesa che si mettano in moto meccanismi più “virtuosi”, o se invece questa tendenza verrà confermata nel tempo. In ogni caso, i motivi più forti per l’affermazione di tale tendenza esulano dai meccanismi di reclutamento in quanto tali: come eventuali “meriti” del nuovo sistema di reclutamento non sono automaticamente attribuibili ad esso, lo stesso si può dire per eventuali “demeriti”.
2) Un altro elemento di rigidità, collegato al precedente, è costituito dalla “localizzazione” delle carriere. Com’è noto, il vecchio sistema favoriva una certa “circolazione” dei docenti: i grandi centri universitari tendevano a non bandire i concorsi, banditi invece in numero più elevato da sedi minori o periferiche. Le prime praticavano un’attenta politica delle chiamate per trasferimento, mentre le seconde cercavano di favorire i locali e scoraggiare chi proveniva da grandi università.
Ne scaturiva una concordia discors, in cui generalmente prevalevano gli interessi delle grandi sedi: i candidati di queste vincevano i concorsi in misura superiore a quelli delle sedi periferiche, venivano poi chiamati ad insegnare in queste ultime per alcuni anni, per poi tornare al punto di partenza. Tale circolazione penalizzava i candidati locali e rendeva per alcuni anni la vita difficile a vincitori di concorsi provenienti da grandi sedi nazionali; permetteva, però, una certa circolazione di docenti sul territorio nazionale, utile per stabilire reti di contatti e iniziative culturali che altrimenti non sarebbero mai sorte.
I nuovi indirizzi normativi avrebbero dovuto favorire una circolazione di qualità: in nome di una sana concorrenza, anche le sedi periferiche avrebbero potuto attirare docenti di valore. In Italia, però, ciò non è avvenuto e, presumibilmente, non avverrà, almeno alla breve, per motivi di fondo che riguardano sia il sistema-università sia, più in generale, il sistema-paese.
Davanti a questi nuovi elementi di rigidità, i contemporaneisti non hanno opposto una valida resistenza. è questo uno degli aspetti forse più discutibili del loro atteggiamento, ma occorre considerare che: a) è stata la nuova normativa a conferire maggiori poteri alle facoltà; b) non è facile individuare alternative immediatamente praticabili.
Malgrado la loro schematicità, queste brevi considerazioni mi paiono confermare l’osservazione iniziale: è impossibile giudicare il nuovo sistema di reclutamento prescindendo dal contesto più generale. Anche i “cedimenti” dei contemporaneisti ai condizionamenti imposti dalle sedi evidenziano un problema che non riguarda solo loro e che non può essere affrontato solo attraverso una “strategia” tutta interna ad un gruppo disciplinare.
A me pare che l’esperienza compiuta nei primi mesi del nuovo sistema di reclutamento dei docenti evidenzi soprattutto problemi “esterni” a questo sistema e in particolare rinvii al grande nodo dell’autonomia. Occorre cominciare ad affrontare il problema con chiarezza e in tutta la sua ampiezza: per il momento, l’autonomia presenta aspetti problematici, che rischiano di essere enfatizzati dal passaggio al pieno regime del cosiddetto “tre più due”. Credo che l’effettivo funzionamento di tale autonomia, diverso da attese e previsioni, mostri alcuni limiti insiti nel modo in cui essa è stata concepita, in linea con una modellistica sociologica non priva di una qualche astrattezza. Forse, spetta proprio agli storici, per loro formazione inclini a una maggiore concretezza, aprire il dibattito e suggerire correttivi aderenti alla specifica situazione italiana.