Silvio Lanaro
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea
a cura di C. Sorba
Nel 1944, in uno dei capitoli centrali della Teoria generale del diritto e dello stato, Hans Kelsen sviluppa intorno al concetto di cittadinanza alcune riflessioni che andrebbero restituite all’intrinseca attualità che ancora possiedono [1] . Dopo aver asserito che la cittadinanza, sinonimo di nazionalità, consiste in uno “status personale” che comporta reciprocità di diritti e doveri previsti da un ordinamento statuale, Kelsen si sbarazza abbastanza in fretta della questione dei doveri: generalmente, sostiene, essi si riassumono nell’obbligo di “fedeltà”, e tuttavia fedeltà è una categoria giuridicamente evanescente – assimilabile piuttosto a un imperativo morale o politico – che acquista spessore solo quando configura l’obbedienza a un sistema di norme positive e dunque si può esigere anche dagli stranieri a cui non è richiesta alcuna professione di lealismo. Quanto ai diritti – ancora distinti in civili e politici, perché la triade marshalliana è di là da venire – Kelsen afferma che i politici sono molto più importanti dei civili (e pertanto vengono attribuiti agli stranieri con oculatezza e parsimonia) perché concorrono in misura maggiore alla “formazione dell’ordinamento giuridico”, ma insiste anche a questo proposito sul principio secondo cui “… l’ordinamento nazionale può concedere i diritti politici a non-cittadini, e specialmente a cittadini di un altro stato, senza violare il diritto di questo stato”.
“Di solito – prosegue – si considerano come diritti politici anche talune libertà garantite dalla costituzione, come la libertà religiosa, la libertà di parola e di stampa, il diritto di tenere e portare armi, il diritto alla sicurezza della propria persona, della propria casa, dei propri documenti ed effetti, il diritto contro perquisizioni e sequestri irragionevoli, il diritto a non essere privato della vita, della libertà o della proprietà senza il procedimento prescritto dalla legge, a non essere espropriato senza giusta indennità, ecc. (…) Le libertà da essa enunciate sono diritti in senso giuridico soltanto se i sudditi hanno la possibilità di appellarsi contro gli atti dello stato da cui siano state violate le disposizioni della costituzione, allo scopo di farli annullare. Tutti questi diritti non sono necessariamente limitati ai cittadini; essi possono essere concessi anche ai non-cittadini”[2] .
Date simili premesse, non stupisce che la cittadinanza detenga agli occhi dell’autore una qualche utilità solo sul terreno del diritto interstatale, perché serve a proteggere gli individui dai soprusi, dagli arbìtri o dalle vessazioni del potere di uno Stato strutturato diversamente da quello a cui sono soggetti. In definitiva, “… quando un ordinamento giuridico statale non contiene alcuna norma che, secondo il diritto internazionale, sia applicabile ai soli cittadini – e le norme riguardanti il servizio militare sono praticamente le sole – la cittadinanza è un istituto giuridico privo di importanza” (p. 246).
Naturalmente proposizioni come queste devono essere subito storicizzate, come si suol dire: infatti esse rinviano, innanzitutto, alla lunghissima polemica fra il giusnaturalismo (che postula l’esistenza di diritti inalienabili consustanziali all’uomo come tale) e il normativismo (che rifiuta la fluttuante soggettività delle nozioni di “natura” e di “uomo” ravvisando la presenza di un diritto solo dove vige una “regola di condotta”), e poi non si può escludere – in piena guerra mondiale – che l’esule austriaco Hans Kelsen sia influenzato dal medesimo sconforto per i crimini della “nazionalità” che nel 1942 permea le pagine dell’esule austriaco Joseph Alois Schumpeter, quando giunge a scrivere in Capitalismo, socialismo e democrazia che “entrando nel raggio della politica il cittadino medio scende a un grado inferiore di rendimento mentale”[3] . E tuttavia, alle soglie del Duemila, l’affievolimento del concetto classico di cittadinanza sembra offrire una rivincita postuma a Kelsen per almeno tre ottimi motivi:
I- perché ormai alcuni diritti comunemente riconosciuti come tali – per esempio il diritto alla salute, al benessere e all’integrità fisica dell’ambiente – non possono più essere tutelati da uno status di cittadinanza che coincida con l’appartenenza nazionale, vuoi a causa di quell’ “ecoimperialismo” che secondo Richard Falk induce i paesi più forti a scaricare sui più deboli le scorie tossiche della loro produzione industriale, vuoi per l’adozione di politiche energetiche difformi da parte dei governi di aree territorialmente contigue [4] ;
II- perché le possenti ondate migratorie e la nascita di società multietniche determinano l’obsolescenza dei tradizionali requisiti della cittadinanza, vale a dire ius sanguinis, ius soli e interiorizzazione “mitica” dei princìpi fondamentali su cui si reggono gli Stati (basti pensare, per quanto riguarda la Francia, alla legge Pasqua del 1993);
III- perché la concessione di prerogative civili, di benefici assistenziali e soprattutto del diritto di voto locale – deliberata nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Svezia e in Norvegia a partire dalla metà degli anni ’70 – costituisce un esempio di dissociazione clamorosa fra cittadinanza e nazionalità e si traduce in un vero e proprio paradigma transcostituzionale.
Le interpretazioni ottimistiche di questo frantume sollecitano alcuni fautori della “mondializzazione democratica” – come David Held e Roland Robertson – a sollecitare l’accelerazione dei processi che possono comunque approdare a una forma di cittadinanza multipla:
“Agli individui si potrebbe (…) garantire (…) l’appartenenza politica alle diverse comunità politiche che influiscono su di loro in modo significativo. Essi sarebbero cittadini della comunità politica a cui appartengono direttamente, e delle più ampie reti regionali e globali che incidono sulla loro vita. Questa comunità politica rifletterebbe e abbraccerebbe, per forma e sostanza, le diverse modalità di potere e autorità che operano attraverso i confini e all’interno di essi e che, prive di controllo, minacciano di riportarci alla frammentazione di un nuovo medioevo”[5] .
Ciò che Held sembra qui sottovalutare, peraltro, è il carattere spesso duplice, binario, conflittuale dei flussi di decomposizione della dottrina classica sulla cittadinanza, e che si manifesta – proprio nelle società multietniche – sotto specie di regressione degli universalia dello stato di diritto e di rivendicazione da parte delle minoranze allogene di uno “spazio pubblico” dall’impronta accentuatamente monoculturale. Il caso delle comunità musulmane residenti nell’Unione Europea è da questo punto di vista particolarmente istruttivo. I seguaci dell’islamismo – la cui identificazione oltretutto non è per nulla pacifica, come dimostra il dibattito in corso fra i pakistani della Gran Bretagna – si fanno generalmente latori di ripiegamenti e pretese identitarie che creano difficoltà al sistema occidentale di codificazione: cessione di terreni per l’edificazione di moschee e di cimiteri; possibilità di alimentazione halal in tutti i locali di ristoro; diffusione di macellerie e mattatoi controllati da religiosi; libertà di abbigliamento nelle strade e nelle scuole; facoltà di rispettare la scansione musulmana del tempo di lavoro (ramadan, orari di preghiera, Venerdì festivo); separazione dei sessi nelle scuole e nelle attività sportive; diritto di assistenza religiosa nelle carceri, negli ospedali e nelle caserme; apertura di scuole islamiche parificate; definizione di un concordato che renda valido agli effetti civili il matrimonio religioso; deduzione dalle imposte della zaka coranica; applicazione della sciaria almeno al diritto di famiglia (divorzio, tutela dei figli, diritto successorio).
Alla radice di questo scarto fermenta l’ambiguità originaria del termine “cittadinanza”, contrassegnato per secoli – non solo, si badi, nell’età delle democrazie moderne – dall’intreccio o dalla compresenza di una stanzialità variamente disegnata e di una titolarità di diritti altrettanto variamente articolata. Nel Dictionnaire de l’Académie Française del 1964 il cittadino è “il residente di una città”, mentre nel Petit Larousse del 1989 è diventato “il membro di uno Stato considerato dal punto di vista dei suoi diritti e doveri politici”. In Italia, secondo il Dizionario etimologico di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, agli inizi del Trecento “cittadinanza” compare in Dante con il significato di “insieme degli abitanti di una città” [6], mentre già verso la metà dello stesso secolo si affaccia dalle pagine della Cronica di Matteo Villani per indicare l’ “appartenenza del singolo a uno stato” (cioè a un altro e superiore status). Ancora. In tempi più recenti il Vocabolario nomenclatore di Palmiro Premoli (1912) designa il cittadino come colui che “appartiene ad uno Stato e deve rispettarne le leggi” [7], quando invece il Vocabolario della lingua italiana dell’Enciclopedia Treccani (1986) lo definisce come “chi appartiene ad uno stato (cioè a una comunità politica, a una nazione), e per tale sua condizione è soggetto a particolari doveri e gode di determinati diritti”.
Si commetterebbe un errore, però, se si ritenesse che nel delineare il perimetro della cittadinanza i “diritti” si aggiungano allo “stato” e alla “città” solo con il progredire della civiltà liberal-borghese e segnatamente dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’itinerario storico del concetto, e delle pratiche legislative che se ne diramano, è sinusoidale piuttosto che lineare o curvilineo. Nella repubblica romana la condizione di civis optimo iure, che con la Lex Plautia Papiria de civitate danda viene estesa nell’ 89 a.C. agli italici insediati a sud dell’Arno, comporta tutta una serie di diritti positivi: ius commercii (diritto di proprietà), ius connubii (diritto di contrarre matrimonio legale), ius suffragii (diritto di voto), ius honorum (diritto di essere eletto a una magistratura), ius provocationis (diritto di appellarsi al popolo nelle cause criminali). Viceversa all’epoca delle monarchie assolute, all’incirca diciassette secoli più tardi, essa è ridotta a una vaga obbligazione di scambievolezza fra il sovrano e i suoi sudditi: come annota Jean Bodin nei Sei libri sulla repubblica (1583), perché appunto sussista un vincolo di cittadinanza il primo è tenuto ad assicurare al secondo – “per la fede e l’obbedienza che riceve” – “giustizia, conforto, aiuto e protezione” [8].
Nemmeno è da credere, come sembrano ritenere alcuni politologi anglosassoni, che l’accesso ai diritti civili sia temporalmente anteriore alla conquista dei diritti politici. Fin dal 1814 la Norvegia è retta dalla Costituzione più democratica d’Europa: l’assemblea parlamentare – lo Storthing – viene eletta a suffragio larghissimo, non può essere sciolta se non alla scadenza naturale della legislatura, emana provvedimenti anche contro la volontà del re, si divide in due tronconi il secondo dei quali (la Camera alta) è composto da alcuni membri del primo, eletti con voto di secondo grado e competenti solo sul controllo della regolarità dei bilanci. Con tutto ciò, le confessioni cristiane “dissidenti” ottengono la tolleranza di culto nel 1845, gli ebrei guadagnano l’emancipazione nel 1851 e la libertà religiosa è loro accordata nel 1887, mentre l’adesione al luteranesimo rimane obbligatoria per tutti gli impiegati dello Stato. In questo paese, che introdurrà il suffragio universale maschile nel 1898 e il suffragio universale femminile nel 1913, può accadere che il leader della sinistra contadina Sverdrup – il quale quattro anni prima si era battuto per il miglioramento dell’istruzione pubblica e per un’ulteriore estensione del diritto di voto – nel 1886 scateni un’offensiva violentissima per ordinare che siano radiati dall’albo delle parrocchie – con perdita conseguente della capacità elettorale, perché le parrocchie fanno tutt’uno con i consigli comunali – coloro che si siano staccati dalla Chiesa ufficiale o che abbiano lasciato trapelare una condotta immorale [9].
D’altronde, anche il cammino apparentemente ascensionale dei diritti politici stricto sensu – specialmente in materia di suffragio – è disseminato da arresti, lentezze e paradossi. Proprio nei paesi che più precocemente si dotano di un assetto parlamentare liberale o liberal-democratico resistono a lungo istituti anacronistici e sostanzialmente incompatibili con la ratio della rappresentanza: sarà sufficiente ricordare la persistenza del voto plurimo in Gran Bretagna, e la sopravvivenza – durata fino a tempi recentissimi – della tassa elettorale in non pochi degli Stati Uniti d’America.
I diritti sociali infine (diritto all’istruzione, all’assistenza gratuita in caso di malattia, all’indennità di quiescenza e così via) non sempre sono il frutto delle lotte dei lavoratori e del movimento operaio raccolto nei sindacati e nei partiti di sinistra. Se i francesi strappano le ferie pagate ai governi di Fronte popolare, frequentemente le misure di perequazione salariale e di limitazione del lavoro minorile e femminile scaturiscono dall’iniziativa di filantropi ambiziosi, di politici abili e intriganti di funzionari idealisti, di apostoli della dottrina sociale della Chiesa, di notabili che riescono a trasformare in leggi le consuetudini del bonum facere di ancien régime: quando non capita addirittura (l’Inps è pur stato fondato in Italia durante il fascismo) che il nascente état providence provenga da un baratto perverso, per quanto talora inconsapevole, delle garanzie di sicurezza economica con la rinuncia alla libertà personale. In altri casi ancora, poi, recenti ricerche empiriche hanno dimostrato che i paesi più precoci (almeno nell’espansione dei diritti sociali) non sono quelli in cui esiste una rappresentanza operaia che li rivendica, ma piuttosto monarchie non parlamentari come la Germania, la Danimarca, l’Austria e la Svezia. Alcuni studiosi spiegano il fenomeno con il fatto che questi regimi vantano un esecutivo forte e compatto, e quindi più idoneo a imporre decisioni radicali e tempestive; inoltre le loro scelte si basano soprattutto sul consenso della grande proprietà terriera, e quindi essi possono far ricadere i costi del neonato Welfare sulla borghesia industriale e sulla stessa classe operaia.
Questo percorso accidentato, e non di rado caotico, dipende dal fatto che i diritti – tutti, nessuno escluso – sono affidati alle norme più facilmente espungibili dal corpo di un ordinamento giuridico, e rappresentano un campo d’intervento in cui si realizza con maggiore difficoltà la traduzione della legge in comando predicata da Hegel nel primo libro della Fenomenologia dello spirito. Il che vuol dire, molto probabilmente, che è scorretto parlare di cittadinanza e di diritti come se la prima fosse l’arca santa dove sono custoditi gelosamente i secondi, a parte il periodo del secondo dopoguerra – con le debite varianti – quando la legislazione ordinaria consolida il Welfare State sottraendolo alla precaria quanto solenne proclamazione d’intenti delle Costituzioni modellate sul testo weimariano dell’agosto 1919. Ma allora, da dove sgorga l’idea della cittadinanza come condizione tendenzialmente perfetta della vita collettiva e della saldezza delle compagini sociali? Forse qualche breve incursione lessicografica gioverà un poco a schiarire l’orizzonte.
Nel cosiddetto “triennio rivoluzionario” (1796-1799) la parola “cittadino” assume anche in Italia una gamma assai vasta di connotazioni e sfumature, di cui rende adeguatamente conto il ricchissimo glossario collocato da Erasmo Leso in appendice al suo studio su Lingua e rivoluzione. La cittadinanza, in primo luogo, è il braccio semantico dell’eguaglianza, e trasferisce sul piano del linguaggio e della comunicazione sociale una trasformazione già acquisita o in stato di avanzata esecuzione: “La legge dell’uguaglianza – scrive il ‘Monitore napolitano’– non permette di riconoscere alcuno de’ titoli vani e fastosi che l’antica tirannia prodigava; ella non conosce che quello di cittadino” [10] .
Nonostante qualche abbozzo di definizione sociologica – come quella di Giuseppe Compagnone, che negli Elementi di diritto costituzionale democratico (1797) sentenzia che per cittadino “(…) non altri s’intende che un uomo nato in uno di que’ luoghi che per essere un’aggregazione di famiglie notabili si addomanda città, e più propriamente s’intende chi appartiene alla seconda classe degli abitanti della città, essendo la prima quella de’ nobili e la terz’altra de’ plebei (…)” – costui è prima di tutto un patriota, un individuo che tramite l’esercizio delle virtù civili costruisce appunto la “patria dei cittadini” in forma di comunità olisticamente organizzata: “Sai tu cosa significa cittadino? – si interpella retoricamente Girolamo Bocalosi in Dell’educazione da darsi al popolo italiano – Significa un uomo i di cui pensieri, le parole, le opere e gli affetti denno tutti dirigersi alla prosperità della repubblica”; e ancora più esplicito è Melchiorre Cesarotti, il quale nel suo saggio sul Patriottismo dichiara che “(…) un cittadino è una specie di cenobita patriottico che non ha nulla di proprio. Talenti, attività, fatiche, sostanze, amor proprio, tutto sia subordinato, tutto sacrificato alla patria”.
L’accezione del sostantivo è sempre e rigorosamente politica, anzi politico-militare. “Perché i Democratici prendono il nome di Cittadini?”, domanda il Catechismo rivoluzionario veronese; e risponde: “Il titolo di Cittadino è il solo titolo che conviene alla dignità di un uomo libero, perché questo nome esprime che esso è membro di un governo libero ed è a parte della sovranità”. “Quella città è libera veramente – incalza Ugo Foscolo negli Scritti letterari e politici – in cui tutti i cittadini sono soldati al di fuori e in cui tutti i soldati tornati alla Patria sono tanti magistrati”.
“Quando la Costituzione – ammonisce un deputato dell’Assemblea della Repubblica cisalpina – comincia a parlare de’ diritti e doveri dei cittadini essa intende cittadini attivi“. Il “cittadino attivo”, che “è tenuto di non essere inutile” e di “promuovere i vantaggi della società senza pregiudicarla” (Nicio Eritreo, Grammatica repubblicana), si distingue dunque dal “cittadino semplice” perché è essenzialmente un legislatore e un milite della nazione. Secondo la Costituzione del 1797 “(…) ogni uomo nato e dimorante nel territorio della Repubblica, il quale abbia compiuta l’età di anni venti e siasi fatto descrivere nel registro civico del suo comune, purché non sia mendicante o vagabondo è cittadino della Repubblica cisalpina”; di conseguenza può “dar voto nelle assemblee primarie” ed essere chiamato a svolgere le “funzioni stabilite dalla Costituzione”.
Del pari Eleonora Fonseca Pimentel addita la necessità di arruolare una “truppa civica” dove “ciascuno è sull’armi non perché soldato ma perché cittadino”.
In questo universo ideologico e verbale i diritti sono sempre dell’uomo e i doveri sempre del cittadino, di un “buon cittadino” che “con le leggi dee formare de’ costumi” e pertanto ha l’obbligo di essere “buon figlio, buon padre, buon fratello, buon amico, buon marito” (Costituzione della Repubblica romana, 1798).
Nella discussione teorica contemporanea si sono perdute anche le tracce di questi incunaboli. Marshall come Giddens, Alber come Rokkan, Bendix come Wilensky – nonostante le loro diversità di opinione – parlano abitualmente di “diritti di cittadinanza”, mostrando di considerare quest’ultima come una sorta di tessuto connettivo delle libertà civili, sociali e politiche che negli ultimi due secoli hanno conosciuto un processo di espansione provocato dalla comparsa sulla scena di attori sociali inesistenti all’epoca della Rivoluzione francese. Eppure la petrosa eredità del vocabolario giacobino, con il suo intenso fervore deontologico, sedimenta ancora producendo equivoci, anatropismi e in gorghi concettuali. È certo comprensibile che si coniughino i diritti con la cittadinanza, perché è dalla loro maggiore o minore ampiezza che deriva il grado di partecipazione collettiva alla vita pubblica, ma quando scompaiono i confini di fruizione dei diritti stessi – o si disperdono i siti visibili del potere legittimo – ritorna prepotentemente a galla l’inconsistenza di una categoria storicamente nata come sinonimo di nazionalità. La “patria dei cittadini”, appunto.
Due punti vorrei ancora toccare, sia pure di sfuggita. Il primo concerne il ruolo che fra Otto e Novecento è stato svolto da istituti non politici nella difesa dei diritti individuali. Le Costituzioni e le leggi sono infatti l’involucro di enunciati le cui prescrizioni non sono affatto automatiche, perché
“(…) la libertà oggi deve cercarsi – come sosteneva Silvio Spaventa in un celebre discorso del 1880, pronunciato davanti all’Associazione costituzionale di Bergamo – non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative. Nell’amministrazione, la libertà è essenzialmente il rispetto del diritto e della giustizia; è ciò che costituisce quello che i tedeschi chiamano Rechtstaat, il carattere cioè della monarchia moderna, per cui non solo i diritti relativi ai beni privati, ma ogni diritto e interesse che ciascun cittadino ha nell’amministrazione dei beni comuni, siano morali, siano economici, è a ciascuno sicuramente garentito e imparzialmente trattato” [11].
Ora, la diffusione della dottrina giuridica di Georg Jellinek ha grandemente contribuito – distinguendo i diritti pubblici soggettivi dagli interessi legittimi – a difendere il cittadino dagli abusi della pubblica amministrazione e a trasformare in un moderno strumento di giurisdizione il vecchio “contenzioso” paleo-liberale.
Analogamente, lo sviluppo della stampa e la proliferazione dei mezzi d’informazione sono riusciti almeno in parte a fugare i timori di quella dittatura dell’opinione pubblica che angosciava John Stuart Mill, per il quale la legge non era sufficiente a garantire la più preziosa di tutte le libertà: la libertà del costume e dello stile di vita.
“L’inclinazione degli uomini, siano essi governanti o semplici cittadini – osservava nel 1858 in una pagina del Saggio sulla libertà – a imporre agli altri, come norma di condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente appoggiata da alcuni dei migliori e dei peggiori sentimenti inerenti all’umana natura, che quasi sempre è frenata soltanto dalla mancanza di potere; e poiché quest’ultimo non è in diminuzione ma in aumento, dobbiamo attenderci che se non si riesce a erigere una solida barriera di convinzioni morali contro di esso nell’attuale situazione del mondo il male si estenda”[12] .
L’ultima questione. Da quanto si è detto sin qui si deve dedurre che l’idea di cittadinanza – polverosa e claudicante – dev’essere relegata nelle soffitte del pensiero politico e delle tecniche di governo della società? Nient’affatto. Anche se non è più lo scrigno di tutte le franchigie, io credo, essa va piuttosto ricuperata pazientemente in chiave solidaristica e identitaria, perché può porre un freno all’individualismo, all’edonismo, al nuovo feudalesimo economico e finanziario, all’inflazione di “diritti” superflui o addirittura dannosi perché forieri di nuove disuguaglianze.
NOTE
1- H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello stato, Milano 1963, p.241. 2- Ibidem. 3- J.A.SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano 1955. 4- Sull””ecoimperialismo” cfr.R.FALK, Per un governo umano. Verso una nuova politica globale, Trieste, Asterios, 1999, pp.111-116. 5- D.HELD, Democrazia e ordine globale. Dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Trieste 1999, p. 235. 6- M.CORTELAZZO e P.ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna 1979, ad vocem. 7- P.PREMOLI, Il tesoro della lingua italiana. Vocabolario nomenclatore, I, Bologna 1989, ad vocem. 8- J.BODIN, I sei libri dello stato, a cura di M.ISNARDI PARENTE, Torino 1997, passim. 9- Sul caso norvegese, per quanto ormai remote, sono ancora ineguagliabili le osservazioni di C. SEIGNOBOS, Histoire politique de l’Europe contemporane. Evolution des partis et des formes politiques, Paris 1897, pp.532-538. 10- E.LESO, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, 1991. A parte il testo della ricerca vera e propria – sempre acuto e penetrante – del volume di LESO è fondamentale per lo studioso il ricchissimo Glossario (pp.350-392), di cui mi sono avvalso per tutte le esemplificazioni che seguono. 11- S.SPAVENTA, Giustizia nell’amministrazione. Discorso pronunciato nell’Associazione costituzionale di Bergamo la sera del 7 maggio 1880, in I liberali italiani dopo il 1860, a cura di F.PICCOLO, Firenze 1934, p.139. 12- J.STUART MILL, Saggio sulla libertà, con prefazione di G.GIORELLO e M.MONDADORI, Milano 1997, pp.17-18.