Francesco Benvenuti
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento
a cura di D.L. Caglioti e E. Francia
Cercherò brevemente di prendere in considerazione l’itinerario del pensiero politico di Lenin dal tempo delle sue riflessioni attorno agli anni della pubblicazione del Che fare? (1902), a quello delle riflessioni dei primi mesi del 1923, idealmente dominate, diciamo, dall’interrogativo: «che cosa abbiamo fatto?». La persistenza di una considerazione storica di questo tema si giustifica, credo, perché, a differenza di quella francese, la rivoluzione di Febbraio e quella di Ottobre furono a lungo previste e pensate, furono a lungo rispettivamente auspicate e temute dai rivoluzionari e dai non-rivoluzionari, dai socialisti e dai non-socialisti.
Ma prima, qualche commento su quanto detto nella prima giornata di questo convegno, che ha attinenza con il tema dell’attuale sessione. Paolo Viola si è chiesto se nell’anno rivoluzionario 1917 non vi sia un dualismo tra il Febbraio e l’Ottobre. Direi che esso esiste, in gran parte, ma essenzialmente dal punto di vista politico e ideale. Ho l’impressione, tuttavia, che esista anche un consistente continuum sociale «dal basso», un movimento che emerge a Febbraio e al quale l’Ottobre conferisce un nuovo impulso, che accelera una corsa già iniziata. Come ha detto Ettore Cinnella, l’immagine di questa continuità incrementale dal basso discende dalla categoria stessa di «rivoluzione plebea», applicata agli eventi di cui trattiamo.
Gabriele Ranzato ha posto il problema: quella russa, 1917-1921, fu una «rivoluzione» o una «guerra civile»? Fu tutte e due, credo. Ancora una volta a differenza dalla rivoluzione francese, quella del 1917 fu un evento a carattere catastrofico. Alla base della dinamica sociale e politica del 1917 russo c’è un evento ingente e catastrofico, che non comincia quell’anno: forse non addirittura dal 1905 ma certo dal 1916, con le sconfitte militari irreversibili, con la crisi e poi il blocco della macchina amministrativa del governo imperiale, con la crisi della burocrazia nelle province, con la crisi profonda del mercato interno, che si sarebbe prolungata per decenni. Credo che la rivoluzione del 1917 abbia minacciato in modo radicale, se non il complesso della particolare versione di civiltà europea creata dall’Impero russo in Eurasia, certo l’esistenza di una compagine statale degna di questo nome sui territori dell’ex Impero russo, in condizioni di mancanza di alternative concrete percorribili ai fini della definizione dell’assetto statale e nazionale di questa immensa ed eterogenea area storico-geografica.
Per ragioni che sono ancora oggetto di un controverso dibattito, una ricostruzione statale di carattere unitario, che ricalcava i confini territoriali della statalità imperiale, prese la forma assai contraddittoria della «rivoluzione» bolscevica. Ciò significa che questa rivoluzione cercò di offrire soluzioni politicamente e storicamente originali alla crisi della statalità storica russa. Queste soluzioni risultarono plasmate, da un lato, da un certo complesso di concezioni proprie del bolscevismo; e dall’altro, da acuti problemi sociali e nazionali emersi con la dissoluzione dell’Impero. I bolscevichi non inventarono i problemi che si trovarono ad affrontare, anche se le soluzioni da essi offerte furono sicuramente determinate, almeno in parte, dalle loro concezioni ideali.
Tra tali concezioni non tutte si rivelano, a mio avviso, a distanza di circa un secolo, storicamente incongrue. Una lo è sicuramente, tuttavia, e parecchio: l’idea che la rivoluzione bolscevica dovesse raddrizzare il corso del socialismo internazionale, che secondo Lenin era stato deviato gradualmente (a partire dalla Bernsteindebatte del 1896-99) dall’«opportunismo» della maggioranza dei partiti dell’Internazionale socialista. A una tale pessimistica analisi Lenin comincia a pervenire almeno dal Congresso della SPD del 1908, allorché crede di vedere che perfino A. Bebel oscilla teoricamente ed è disponibile a concessioni all’ala sindacalista del partito. Lenin presentì una «degenerazione» della SPD, pilastro dell’Internazionale, presidio dell’ortodossia marxista rivoluzionaria. Negli anni successivi la sua sindrome antirevisionista si aggravò e una tale persuasione contribuì (questa è, almeno, la mia opinione) a deformare e a rendere incongrua alla rivoluzione nazionale russa del 1917 una parte dei programmi e dei metodi politici che i bolscevichi impiegarono prima e dopo la presa del potere; e che nelle intenzioni di questi ultimi avrebbero dovuto riflettere lo spirito incorrotto del genuino socialismo. Credo anche, in ogni caso, che in Lenin, a differenza che in molti dei suoi colleghi e compagni, sia rimasta in seguito, fino alla sua morte, una strisciante consapevolezza della dimensione propriamente nazionale della propria opera rivoluzionaria.
Volgiamoci ora al tema del carattere «nazionale» della rivoluzione in R. nel pensiero di Lenin di prima della guerra mondiale. Qual è il problema che egli si pone, lui che è un socialdemocratico di tipo «classico», per quanto intellettualmente originale? Il problema è: quale tipo di rivoluzione democratica convenga alla Russia autocratica. Non può trattarsi, infatti, che di una rivoluzione «democratica»: Lenin su questo non ha dubbi. Non segue Trockij, con la sua caratteristica telescopizzazione/accorciamento delle fasi preparatorie della rivoluzione socialista. Lenin diffida anche dei socialisti-rivoluzionari. Essi credono che la rivoluzione contadina da essi patrocinata sboccherà nel socialismo agrario ma questa è solo un’«utopia reazionaria»: in realtà, i contadini russi apriranno la strada a una rivoluzione democratica radicale. Lenin è un socialdemocratico europeo e pertanto, per lui, la Russia ha bisogno di una rivoluzione antiassolutista e antifeudale, democratico-borghese, e di un deciso impulso al capitalismo.
Qui è una delle idee storiche meno incongrue di Lenin: una rivoluzione democratica e una trasformazione capitalistica della Russia di quale genere? Lenin pensa che la storia dell’Occidente avanzato mostri un ampio spettro di «vie» per conseguire quella che oggi chiameremmo la «modernizzazione». Ai due poli di questo arco di possibili itinerari storici stanno, rispettivamente la «via prussiana» e la «via americana». La Russia è talmente arretrata sul piano storico generale che, dopo il 1905, essa può ancora scegliere consapevolmente la via della propria modernizzazione: nei termini di Lenin, la via al proprio futuro democratico-capitalistico e, successivamente (ma fin da ora, con l’una o l’altra «via») al proprio futuro socialista. L’idea di questa perdurante possibilità di scelta avvicina Lenin a P. Tkachev e lo distingue dai menscevichi, molti dei quali pensano che, dopo il 1905, la Russia abbia, in realtà, già «scelto» e che sia già passata la Russia capitalistica e moderna, per quanto nella forma limitata e distorta del costituzionalismo autocratico e della riforma agraria di Stolypin.
La «via prussiana» alla modernità capitalistica è caratterizzata dal «compromesso» tra gli Junker e il capitalismo e dal «tradimento» dei liberali tedeschi dopo il 1848. E’ questa una celebre visione propria di Marx, raccolta da una larga parte del pensiero democratico radicale russo della seconda metà del XIX secolo: ad esempio, dall’amico di Herzen, Dobroliubov, che negli anni ’60 parla dei possibili «binari tedeschi» della rivoluzione borghese in Russia. Ne parlarono, in seguito anche diversi populisti, cadetti, menscevichi.
Neppure la «via americana», come categoria storica, fu inventata da Lenin. Come mostrerà tra breve un saggio di A. Masoero, se ne parlava molto sulle riviste democratiche e socialiste russe negli stessi decenni.
Il «leninismo» di prima del 1914, credo, è tutto qui: esso nasce dalla tematica delle «due vie» e consiste nella proposta della scelta della «via americana» da parte dei socialisti russi, avanguardia della rivoluzione antiassolutista in Russia. Per i socialisti di un paese arretrato è più conveniente fare in modo che la rivoluzione democratico-borghese nel loro paese segua la via più conseguente possibile. Una tale scelta influenzerà in modo determinante anche i futuri sviluppi storici, che stanno più a cuore ai socialisti: quanto più la rivoluzione democratica sarà radicale e conseguente, tanto più rapidamente e pienamente sopravverranno la rivoluzione e gli ordinamenti socialisti.
Si tratta, allora, di creare le condizioni politiche e sociali per un pieno sviluppo della democrazia e del capitalismo, stabilire innanzitutto un capitalismo agrario egualitario, a fortissime possibilità di differenziazione economica e sociale, di sviluppo economico: una «repubblica di farmers», giusto gli Stati Uniti delle origini. Se passasse, invece, la «via prussiana», vi sarebbero in Russia (come già in Prussia-Germania) decenni di stenti contadini, di artifici costituzionali non risolutivi, non si svilupperebbe né una democrazia piena, né un forte movimento operaio e socialista organizzato. Qual è l’atto che apre la strada all’affermazione della «via americana»? E’ la rivoluzione di tipo giacobino, la rivoluzione plebea radicale, che spazza via l’assolutismo e i resti del feudalesimo e stabilisce una repubblica democratica, proiettata dinamicamente verso il socialismo.
Ora, la tematica delle «due vie» e dei caratteri della rivoluzione nazionale russa scompare dagli scritti di Lenin dopo il maggio 1914. Ciò perché, a mio giudizio, si produce nel pensiero di Lenin una specie di corto circuito: con lo scoppio della guerra e la plateale dimostrazione del «tradimento» della maggioranza dei partiti socialdemocratici, per Lenin il problema principale diviene quello di come rigenerare il socialismo internazionale. Senza di questo, niente rivoluzione socialista nei paesi avanzati; e di conseguenza, in prospettiva, niente rivoluzione socialista neppure nei paesi arretrati, come la Russia è. L’obiettivo della rigenerazione del socialismo diviene importante quanto quello di fare una qualche rivoluzione in Russia. A un certo momento, i due obiettivi si unificano in uno solo: la presa del potere in Russia da parte di un genuino partito socialista stimolerà la ripresa del genuino socialismo nei paesi avanzati e l’avvento della rivoluzione internazionale: siamo alle «Tesi» di Lenin dell’aprile 1917.
In realtà, Lenin finisce ora per dare per scontato qualcosa che, mesi e anni dopo, tornerà a mettere in discussione: che la guerra mondiale abbia di per sé annullato le differenze tipologiche di sviluppo storico-nazionale, da lui osservate prima del 1914. Via americana o via prussiana, sembra a questo punto che ai fini della rivoluzione russa e mondiale ciò non abbia più importanza. Il capitalismo, con la guerra, ha politicamente unificato il mondo intero; non è più molto importante il modo, la «via», attraverso cui il capitalismo è giunto alla sua «fase suprema». Nell’ottobre 1917, l’idea della rivoluzione in Russia diviene quella, teoricamente ibrida e senza precedenti (anche nel confronto con l’analisi dello stesso Lenin di prima della guerra), di una rivoluzione non socialista (anche se massimamente democratica) ma a guida esclusivamente socialista (cioè, bolscevica).
Credo che questo corto circuito abbia avuto conseguenze profonde nella forma storica presa dalla rivoluzione bolscevica negli anni successivi. In primo luogo, esso influì sull’affermazione del monopartitismo sovietico: come si fa a prendere il potere in Russia assieme alla propaggine estrema dell’«opportunismo» socialista europeo, cioè il grosso dei partiti menscevico e socialista-rivoluzionario? Ma il corto circuito politico influisce anche sul tentativo di spezzare socialmente le campagne nella tarda primavera del 1918, quando i bolscevichi cercano disastrosamente di far emergere un proletariato rurale indipendente, che non esiste come tale nei villaggi russi. E questo corto circuito influenza il ritardo del passaggio al mercato nel 1920, una misura che è all’ordine del giorno del Politbiuro bolscevico fin da febbraio di quell’anno ma che sarà realizzata solo nel marzo dell’anno successivo.
Tuttavia, dopo gli anni del corto circuito politico-teorico si verifica un ritorno del problema della dimensione storico-nazionale della rivoluzione russa nel pensiero di Lenin: il problema di quale paese sia la Russia e di che tipo di governo essa abbia bisogno nel XX secolo. Il problema si riaffaccia, dapprima, alla mente di Lenin nell’aprile del 1918; poi torna a insabbiarsi, per riemergere nel maggio 1921. Lenin riflette sul concetto della natura «multistadiale» della società russa post-rivoluzionaria: la Russia è una pluralità di formazioni socio-economiche, dalla grande industria statale all’economia patriarcale contadina, passando per la produzione contadina per il mercato. Un paese difficile da tenere insieme e da governare: in particolare, come farlo avanzare verso lo sviluppo economico e verso il socialismo? Lenin non parla più delle «due vie» ma è tornato sull’idea dell’eccezionalità storica della Russia. E’ significativo che questi spunti analitici in chiave di particolarità nazionali si accompagnino, ora, ad un’inclinazione politica «moderata» e gradualistica. Nell’aprile del 1918 Lenin non lanciò l’approfondimento della rivoluzione socialista ma una prosaica battaglia per l’instaurazione di un regime disciplinare in nome del «capitalismo di stato», per riportare la «rivoluzione plebea» nell’ambito della governabilità. In questo senso il bolscevismo si tingeva ora di kornilovismo, assume un’inclinazione propriamente controrivoluzionaria. Come suggeriva M. Reiman due decenni or sono, in una prospettiva storica il bolscevismo presenta due aspetti: esso portò a conseguenze estreme la rivoluzione plebea ma, dall’altra parte, svolse il ruolo che i generali bianchi non poterono svolgere, quello di disciplinare le masse sociali ed etniche uscite dall’Impero russo in dissoluzione. Nell’ultimo Lenin c’è moderazione politica e autoritarismo di tipo tradizionale. Soprattutto, moderazione: c’è il senso delle «concessioni» da fare necessariamente all’«arretratezza» russa: alle sue strutture socio-economiche più antiche, ai nascenti sentimenti nazionali.
Non è facile, come è noto, interpretare il gruppo di scritti che costituiscono il «testamento» di Lenin (1922-23). Egli sembra sempre più estraneo alla dimensione internazionalista del 1917, non parla più di «rivoluzione mondiale», se non con grande prudenza e limitando questa prospettiva essenzialmente al mondo coloniale. Ciò non sorprende: qui l’ipotesi politica dell’Ottobre 1917 aveva clamorosamente fallito. Per contro, Lenin si sforza di continuare a dare un senso al proprio operato, un senso ancora socialista e marxista. Polemizza sordamente con le critiche vecchie e nuove dei suoi ex compagni/rivali del marxismo russo, i menscevichi (Martov, Sukhanov). La domanda che lo assilla negli ultimi mesi di vita è: siamo stati giustificati nel voler prendere il potere in un paese impreparato per il socialismo? Se non abbiamo realizzato il socialismo in Russia, o in qualche importante paese avanzato nel mondo, cosa abbiamo dunque fatto; e cosa ci sta davanti? Il completamento della rivoluzione socialista in Urss? O una prosaica e lenta opera di modernizzazione del paese, su di una base economica e politica diversa da quella seguita in passato dall’Occidente? Lenin espose questo secondo concetto nella formula: «raggiungere e superare» con il tempo i paesi capitalistici avanzati. Neppure questa locuzione fu inventata da lui: era stata usata prima della guerra dallo scienziato Mendeleev, fervente nazionalista e un propugnatore della pianificazione economica a fini nazionali e di difesa. L’ultimo Lenin rispose affermando la fiducia di poter tenere inestricabilmente uniti insieme l’obiettivo finale di un genuino «socialismo» e la strategia dell’incivilimento e della modernizzazione della Russia nella politica dello Stato sovietico. Ma in tal modo, egli precluse a sé e ai suoi successori la via di una revisione in chiave «nazionale» e non ideologica del significato storico della rivoluzione bolscevica, contribuendo a eternizzare le contraddizioni e le aporie della decisione insurrezionale dell’ottobre 1917.