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Tutela della privacy e autonomia della ricerca

Stefano Rodotà
Quaderni I/2001
SEGRETI PERSONALI E SEGRETI DI STATO.
Privacy, archivi e ricerca storica

a cura di Carlo Spagnolo
Parte I
Privacy e codice deontologico

Ringrazio molto l’ISLE e la SISSCO per l’ invito e accolgo con grande convinzione lo spirito di questo incontro di lavoro, come sottolineato da Raffaele Romanelli, perché proprio alla vigilia di questo incontro, l’ Ufficio del Garante ha deliberato l’apertura formale della procedura che dovrà portare all’emanazione dei codici deontologici. La delibera sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, per darle il massimo di diffusione.1 Le principali organizzazioni interessate ne saranno direttamente informate, anzi, saranno benvenute indicazioni della SISSCO sui soggetti da coinvolgere. Perché, se è vero quanto diceva poco fa Raffaele Romanelli, che non esiste, nè è evidentemente augurabile che ci sia, un ordine degli storici, dall’altra parte va precisato che i codici deontologici non sono collegati all’esistenza di un ordine professionale. Gli ordini professionali sono messi in discussione da vari punti di vista e una delle piccole preoccupazioni del Parlamento negli anni in cui ne ero membro era di impedirne la proliferazione; potrebbe appartenere ad un piccolo angoletto di folklore parlamentare vedere quali e quanti ordini professionali siano stati proposti per il riconoscimento pubblico. I codici deontologici devono invece evidentemente riflettere il carattere strutturato di un settore e la rappresentatività dei soggetti che li propongono. Sono questi alcuni dei parametri normativi che vi si possono ritrovare.
Fatta questa premessa, il nostro interesse ad un dialogo con gli storici è massimo, avendo delle responsabilità in questa materia. E aggiungo che l’interesse è tale da essere fisicamente rappresentato dalla presenza a questo tavolo del cinquanta per cento dell’Ufficio del Garante, ossia Ugo De Siervo e il sottoscritto. Anzi Ugo De Siervo sarebbe tra noi due il più legittimato a partecipare a questa discussione, per due ragioni: perché è lui ad aver seguito per il Garante questa materia delicatissima e perché è uno studioso di teoria delle fonti. I codici deontologici rappresentano un’innovazione significativa nel sistema delle fonti, tant’è che si applicano al di là degli ordini professionali. Si tratta di un punto importante: il codice, almeno quella particolare fonte che è il codice di deontologia per l’attività giornalistica è, come dicono i giuristi, una norma secondaria e come tale è applicabile certamente dall’ordine professionale, dal Garante, ma anche dalle autorità giudiziarie ordinarie, penali e civili. Con i codici deontologici si entra in un’area nuova della strumentazione normativa, sulla quale non mi soffermo perché ne tratterà Ugo De Siervo.
Come contributo alla discussione vorrei solo rammentare che, come è noto, la pubblicazione del decreto in questa materia ha provocato delle reazioni molto vivaci. Ciò non è un male, dato che ha certamente contribuito a destare quel tanto di attenzione che è bene ci sia quando si affrontano materie così rilevanti. Come ha ricordato Raffaele Romanelli, si tratta della tutela di un valore che si è venuto sempre più specificando e radicando anche nelle nostre organizzazioni sociali. Se si verificassero le risposte che venivano dai magistrati e dagli studiosi, si vedrebbe che ancora trent’anni fa l’attenzione alla dimensione della vita privata non era un valore radicato. Una calzante espressione di Antonio Delfini nella pagina introduttiva a una riedizione del suo Il ricordo della basca 2 parlava anni fa di “privacy clamorosamente esibita dei miei modenesi”. C’erano cioè degli aspetti di esibizione di vite private, nelle virtù e nei vizi, nella ricchezza e nella povertà , piuttosto che il consolidamento di un valore che, invece, aveva altri radicamenti in sistemi giuridici stranieri, anzi più precisamente negli Stati Uniti. A ben guardare non sarebbe corretto collocare genericamente nel “mondo anglosassone” il processo di strutturazione di questo valore. Negli ultimi anni se ne è avuta una massiccia importazione istituzionale, al punto che questo valore oggi ha, per la complicata alchimia del modo in cui l’Europa tutela i diritti fondamentali, una strumentazione istituzionale più forte in Europa, almeno nell’area dell’Unione Europea, che negli stessi Stati Uniti. Quindi ci troviamo di fronte ad un fenomeno rilevante, e però, va detto francamente, le preoccupazioni dell’ Ufficio del Garante sono molto grandi, pur nella consapevolezza dell’importanza del valore di riferimento della nostra attività .
I compiti attribuiti al Garante, in base all’art.1 della legge 675 del 31 dicembre 1996, non attengono alla tutela della riservatezza in quanto tale, ma “dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all”identità personale”. Si tratta quindi di un compito straordinariamente impegnativo. La riservatezza è una specificazione di una missione più generale, quale la tutela delle libertà fondamentali in questa materia. Ci si renderà conto di quale enorme responsabilità viene attribuita, se si considera che dall’altra parte ci sono due valori fondativi e ben più risalenti, ossia la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà della ricerca. Nel dire, quindi, che l’Autorità ha determinati problemi e poteri, non intendo usare notazioni polemiche perché le preoccupazioni che furono manifestate nell’ estate passata avevano dei fondamenti. E’ bene precisare che il Garante punta a rifiutare poteri ulteriori, piuttosto che a cercare di acquisirne di nuovi, non solo perché avere troppi poteri può essere un fattore di ostacolo all’espletamento dei nostri compiti, ma anche perché effettivamente in questo campo non possiamo seguire una preoccupante prassi della nostra vita istituzionale, in cui ci si libera spesso dell’onere di definire precisamente i limiti delle competenze amministrative rinviandone la soluzione alla magistratura o ad altri.
L’Ufficio del Garante ha il dovere di reagire non per chiamarsi fuori o per avere minori responsabilità ma proprio per sottolineare la necessità di formulare, nei limiti del possibile, regole precise. Meglio di me, ripeto, ne parlerà Ugo De Siervo; voglio solo ribadire che ci sono state in passato molte incomprensioni. Va detto pubblicamente che siamo molto grati alla dottoressa Carucci per avere definito con grande precisione l’ambito al quale la disciplina si applicava, nonchè i limiti e gli obiettivi comportati dal decreto legislativo n. 281 del 30 luglio 1999. Oggi bisogna lavorare nell’ottica individuata dalle leggi tuttora vigenti in materia e da quel particolare decreto. Può sembrare una banalità , però merita ricordare come, tra le critiche che sono state espresse, si sia rimproverato a noi il trasferimento di una materia affidata al ministro dell’ Interno. Tale critica, pur legittima, in quel momento era improponibile, perché non era possibile, se non al prezzo di una inammissibile violazione della delega, collocare altrove i poteri in questa materia. Personalmente, l’ho detto tante volte, li ritengo impropriamente collocati, ma resta una mia opinione personale, che però tengo a ribadire in questa sede. Tuttavia non si poteva attraverso quello strumento giuridico eliminare questo problema.
Credo che si debba avere piena consapevolezza della portata e dei limiti del codice deontologico. Non si può richiedere dal codice deontologico la stessa portata di una legge. E’ auspicabile un nuovo intervento legislativo, l’ho detto altre volte e la seconda parte della giornata in questo senso sarà sicuramente utile, sia in prevenzione di interventi normativi che dovessero apparire restrittivi della libertà della ricerca, sia in vista di interventi normativi che ne consentano invece un’estensione per ciò che riguarda per esempio i termini temporali ed i poteri del ministro. Gli storici, che hanno manifestato tante preoccupazioni in passato, hanno in occasione di questa discussione, se non il dovere almeno l’opportunità di segnalare con molta forza al parlamento la necessità di tornare su questi punti della disciplina. Per queste ragioni ritengo che la discussione passata, sebbene disorganica, sia stata molto utile. In questo momento abbiamo bisogno, ripeto, di suggerimenti concreti.
Sempre per chiarezza, vorrei soffermarmi su alcuni punti della normativa, nell’intento di mostrare che l’attività del Garante non è volta a ridurre l’ambito di autonomia della ricerca. La definizione dei “dati personali”, è noto, si trova all’inizio della legge 675, in cui si va al di là della nozione tradizionale di dato nominativo, perché si individua, più propriamente, la categoria di “dati identificativi” nel senso che anche là dove non c’è un’indicazione nominativa del soggetto, la possibilità di collegare quel dato ad una persona determinata lo fa diventare un dato personale. Si tratta di una specificazione di evidente rilievo. Dato personale è tutto ciò che identifichi il soggetto, includendo la voce o l’immagine oltre ai dati che sono di comune evidenza, e quindi ci si trova di fronte ad una categoria estremamente larga. Di questo il Garante deve tener conto quando stabilisce le regole deontologiche.
L’articolo chiave è quello che riguarda i dati sensibili: sono d’accordo con Romanelli che non si dovrebbe continuare a ripetere la parola razza. Però è una questione che investe testi costituzionali e, a mia conoscenza, una discussione intorno alla necessità di eliminare il termine razza dagli stessi testi costituzionali si è avuta cinque o sei anni fa solo in Francia, dove si è spenta dopo una fiammata. La questione rimane aperta. Sarebbe opportuno, certo, che il legislatore evitasse di usare quella parola ma questa terminologia proviene anche da direttive europee in cui una cattiva abitudine linguistica, che riflette una cattiva coscienza culturale, è ancora abbastanza immobile. Da segnalare, al di là della discussione di oggi, è nell’art. 22 quella indicazione molto analitica, sovrabbondante, circa le “opinioni filosofiche”. Perché questa ridondanza? Si voleva probabilmente includere la massoneria, per esempio.
Centrale, mi pare, sia per gli archivisti che per gli utenti degli archivi è che la legge 675, partendo da quella nozione molto larga di dato personale, determina modalità diverse di tutela dei dati a seconda del loro contenuto. L’ inferiore tutela assicurata ai dati economici, per esempio, segnala una scelta di valore, nel senso che il dato economico viene ritenuto meno meritevole di tutela di altri dati. La stessa legge dice che per il trattamento dei dati riguardanti l’attività economica dei soggetti non è necessario il consenso dell’interessato. La finalità è di assicurare la massima trasparenza al mercato, ma di fatto quei dati sono meno protetti di altri. Poi si arriva ai dati sensibili, ma all’interno dei dati sensibili c’è una sottolineatura particolare dei dati riguardanti la salute e la vita sessuale, la quale costituisce un punto estremo di tutela rafforzata. Sulle ragioni di tale cautela e sulla possibilità di considerare storicamente determinata l’individuazione di questa categoria, non credo si debbano spendere particolari osservazioni in questa sede.
Per capire come si possa organizzare la tutela dei dati, conviene invece riflettere sulla collocazione, accanto ai dati sulla vita sessuale, di quelli riguardanti le opinioni politiche e sindacali (mettendo un momento da parte quelle religiose che sicuramente rispecchiano una diversa problematica). In altra sede, diversi anni fa, ho proposto una classificazione dei “paradossi della privacy” e questo ne è un caso dei più evidenti, perché in una società democratica il dato riguardante le opinioni politiche e sindacali è per definizione destinato ad essere professato in pubblico. Che nel proprio privato ci si senta di aderire al partito A o al partito B, lo si può fare nel più dittatoriale dei paesi, il fatto è che lo devo professare in pubblico. Si potrebbe pensare che si tratti di una tutela legata al nostro passato fascista, la verità è, però, che questa norma si trova, per la prima volta, nel 1970, nell’ art.8 dello Statuto dei lavoratori ed è una reazione evidente alle schedature FIAT. C’è stato un processo ed è stato pubblicato un libro curato da Bianca Guidetti Serra e indegnamente prefato dal sottoscritto. 3 Se voi andate a leggere quelle schede, come probabilmente molti di voi hanno fatto, saprete che la discriminazione per ragioni politiche, sindacali e religiose, veniva fatta in modo massiccio. Quindi, l’art.8 dello Statuto dei lavoratori è la prima forma di tutela della sfera privata che entra in modo esplicito nella legislazione italiana, con un bel paradosso, perché quello che è stato definito il diritto borghese per eccellenza entra in Italia attraverso lo Statuto dei lavoratori.
Appare chiaro che là c’è una ragione diversa dalla mera tutela della sfera privata. E’ anche una norma di tutela della sfera privata, ma si tratta in primo luogo di una norma contro la discriminazione, il che ci impone di leggerla insieme a quella riguardante la scala delle durezze di tutela della privacy, ossia ridotta per le informazioni economiche, massima per quelle riguardanti la tutela della salute e della vita sessuale. Si tratta di un discorso importante nella prospettiva che ci interessa, perché quando il dato riguardante l’opinione politica e sindacale è svincolato dal rischio della discriminazione che ne giustifica l’inserimento tra i dati sensibili, evidentemente il suo uso nell’ambito della ricerca storiografica è legittimo. Questa è una mia opinione, legata più alla mia ottica di studioso che alla mia posizione istituzionale. E’ evidente che il dire che un certo signore è stato il “segretario di un partito”, non costituisce una rivelazione di un dato sensibile, in quanto sarebbe ridicolo pensare che là ci sia una tutela particolare. Ma anche in altre situazioni di minore evidenza, si può invocare la ratio di quel pezzo dell’elencazione, per dire: attenzione, non costituisce una violazione della privacy il fatto che io dica che una persona era stata iscritta al partito X o al sindacato Y, o che aveva sottoscritto quel tale manifesto filosofico o politico. La normativa, a questo punto, destituita di ragione la tutela particolare prevista in quel momento, consente un margine maggiore rispetto a questa categoria di dati piuttosto che altre.
Queste indicazioni possono essere di utilità ai fini della ricerca storica, perché ci sono dei valori fondanti che dobbiamo ponderare tra loro: riservatezza, libertà di manifestazione del pensiero, libertà della ricerca. Tali garanzie non possono diventare una copertura per l’estensione ulteriore di arcana imperii. In questo senso – anche se non voglio rassicurare per quello che sarà il futuro lavoro del Garante – ci è stato rimproverato di aver lavorato più come garanti della trasparenza che non della riservatezza. Per tutta una serie di categorie di dati, in particolare i dati economici, credo che il Garante abbia operato in perfetta linea con il sistema normativo, che discende dalla Costituzione, perché le situazioni a contenuto economico sono uscite nella Costituzione dall’area dell’inviolabilità che assiste invece i diritti fondamentali. La proprietà non è più, come nello Statuto Albertino, ossia Statuto del Regno, assistita dall’aggettivo dell’ inviolabilità , e quindi, già nella Costituzione voi trovate due diverse maniere di accentuare le varie tutele, che poi si riflettono nella disciplina della legge 675.
Allora i dati economici vanno visti in questa prospettiva. Se c’è un problema di riservatezza, noi abbiamo potuto superarlo soprattutto nella materia delle attività economiche, nel senso che come Garante della trasparenza abbiamo, attraverso le nostre delibere che sono occasionate soprattutto da problemi del giornalismo, ampliato la gamma delle fonti disponibili. Quando abbiamo detto che gli stipendi in certi settori, i compensi per arbitrati o per attività extra giudiziarie dei magistrati, i fringe benefits dei membri dei consigli di amministrazione di società quotate in borsa e via elencando sono dati che non sono protetti dalla riservatezza, nel senso pieno previsto dalla legge, che cosa abbiamo fatto se non ampliare le fonti a disposizione, in primo luogo dei giornalisti, ma anche di altri? Potremmo piuttosto lamentarci che, di fronte alle accuse al “Garante censore”, le vere e proprie “autostrade” che abbiamo aperto vengano percorse dai giornalisti con una prudenza straordinaria. Mi sia consentito dire fuori contesto, perché non è un problema degli storici, che se si volesse ancora indagare ed usare i dati economici, perfino pubblici, si disporrebbe grazie alla normativa e all’azione del Garante di moltissime nuove fonti. Questa nuova opportunità di usare fonti è stata adoperata in pochissimi casi. All’inizio si era detto che il “Garante censore” avrebbe reso impossibile il giornalismo investigativo, invece non solo non lo si è impedito, ma il giornalismo investigativo si è visto mettere a disposizione una miniera di dati che prima non aveva; eppure le inchieste non sono venute. Lo noto non per una ragione polemica ma per smentire i timori emersi quando si è aperta la discussione sul ruolo del Garante e sul codice di deontologia, quando tutti hanno detto che sarebbe nato un altro censore, anzi un super censore: l’esperto. Credo che gli storici apprezzino molto più dei giuristi la dinamica del Garante, perché sono abituati a maneggiare i fatti e non solo le norme formalmente presentate. Spero che questa analisi possa almeno dare la sensazione dello spirito con cui abbiamo sinora lavorato.
Ha ragione Raffaele Romanelli quando dice che bisogna definire quali sono gli utenti, quali sono i soggetti titolari di determinati poteri, dove questi ultimi si collocano. Se risiedono nei vertici istituzionali, richiedono una specializzazione maggiore di quella attuale. Qui sta uno dei valori aggiunti del dialogo. Va chiarito se la definizione dei soggetti può stare nel codice deontologico, altrimenti avremo bisogno di utilizzare altri strumenti normativi, se necessario addirittura dei decreti legislativi. Ma lo spirito con cui l’Ufficio del Garante lavora in questa materia non è certamente di un arroccamento, di una difesa astratta di un principio senza tenere conto della realtà circostante. Il modo corrivo in cui si usa la parola privacy la rende sempre meno attraente, perché dà un’idea un po’ gretta della volontà che c’è dietro, cioè la volontà di sottrarsi in ogni modo a qualsiasi forma di di Stato relazione sociale. Come sappiamo, e qui sta la differenza e la complessità della questione, in leggi come questa, che si integrano in un sistema molto articolato, c’è da una parte uno statuto di informazioni personali e dall’altra l’identificazione dell’interessato come titolare di un diritto all’autodeterminazione informativa. Da questo punto di vista non ci si trova solo davanti ad una questione definitoria, perché poi quando le ragioni dell’autodeterminazione informativa vengono meno o si attenuano, parallelamente si attenuano alcune delle ragioni della tutela della riservatezza.
Concludo con un’ultima annotazione. Se si desse una lettura piatta delle informazioni personali, e si limitasse il problema all’ interruzione del flusso delle informazioni, si offrirebbe solo una delle letture storiche di privacy, cioè la facoltà del soggetto di interrompere il flusso delle informazioni che lo riguardano, o direttamente o in base a norme generali. Ma noi riteniamo che lo statuto delle informazioni personali, del diritto all’autodeterminazione informativa, incontri tutta una serie di ulteriori snodi. Quando nell’art. 7 del decreto 281, al comma 3, si dice che “dati personali possono essere diffusi qualora siano relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dall’interessato attraverso i suoi comportamenti in pubblico”, si è in presenza di una norma molto importante, riproduttiva di quello che è già scritto nel codice di deontologia professionale dei giornalisti, in cui si può verificare in concreto la giurisprudenza del Garante, la quale ha dato un’interpretazione giustamente lata di questa norma, proprio per non costituire ostacoli ulteriori ed ingiustificati alla diffusione di determinate notizie.
Note
1- Cfr. Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, anno 141, n. 46, 25 febbraio 2000, Parte I, pp. 35-36.
2- A. Delfini, Il ricordo della Basca, Milano, Garzanti, 1992.
3 B. Guidetti Serra, Le schedature Fiat: cronaca di un processo e altre cronache, prefazione di S. Rodotà , Torino, Rosenberg & Sellier, 1984
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