Claudio Pavone
Quaderni I/2001
SEGRETI PERSONALI E SEGRETI DI STATO.
Privacy, archivi e ricerca storica
a cura di Carlo Spagnolo
Parte I
Privacy e codice deontologico
Parlando per ultimo posso esimermi dal ripercorrere molti punti che sono stati già trattati con competenza maggiore della mia, sia dal punto di vista giuridico sia da quello storico-archivistico. Ho pensato perciò di dividere il mio intervento in due parti: una di richiamo a principi generali, l’altra invece di osservazioni puntuali.
Per i principi generali mi rifarei a quanto ha detto Romanelli nella presentazione del convegno: esistono diritti, tutti costituzionalmente garantiti, che non ci si deve nascondere possano confliggere e che, nel nostro caso, sono: il diritto alla libertà di ricerca e di informazione; il diritto alla tutela della propria persona, che si riallaccia a note figure del codice civile (il diritto all’immagine e così via); il diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione (di quest’ultimo abbiamo parlato di meno). La legge 241 del 1990, precedentemente citata, è una legge importante, ma che è stata interpretata dall’amministrazione in modo piuttosto restrittivo. E’ comunque notevole che un rappresentante della autorità garante della corretta applicazione di quella legge sieda nella commissione consultiva presso l’Ispettorato archivistico del Ministero dell’ Interno, che è l’organo competente a concedere le autorizzazioni di accesso ai documenti non liberamente consultabili. E’ stato in quella sede discusso il problema se l’ espressione “colui che ha interesse all’accesso” debba essere intesa in senso tradizionale, nel senso cioè che deve trattarsi di un interesse privato, personale o patrimoniale, giuridicamente protetto, oppure se come interesse possa essere inteso anche quello del ricercatore, dello storico, dello scienziato. Per quanto a mia conoscenza credo che questa sia una questione aperta, che potrebbe condurre al riconoscimento della natura di interesse protetto nei confronti della pubblica amministrazione anche a quello alla ricerca. scientifica, intesa nel senso più lato. 68 Segreti personali e segreti di Stato.
Abbiamo dunque detto: diritto alla ricerca, diritto alla privacy, diritto all’accesso ai documenti della pubblica amministrazione. E’ stato giustamente osservato che il pluralismo dei diritti e l’allargamento del loro raggio di operatività lascia “intravedere l’esito della relativizzazione del contenuto di essi, attraverso il riferimento ai valori che orientano il sistema costituzionale” e che di conseguenza “l’emersione di un’idea di libertà come concetto costituzionale aperto a sviluppi e virtualità molteplici, è fenomeno carico di conseguenze rilevanti proprio sul terreno della ridefinizione del sistema delle garanzie” 1. Mi sembra che i problemi che stiamo oggi affrontando possano essere ricondotti entro questo quadro, ancora molto mobile.
Ma esiste anche un altro elemento di cui occorre tener conto: il segreto di Stato. Sono dall’accordo con Paola Carucci quando dice (un anarchico aggiungerebbe: purtroppo) che finchè esisterà lo Stato esisteranno anche i segreti di Stato. Questo è un punto che va molto al di là di un dibattito attorno alla legge sulla privacy perchè attinge la natura stessa dello Stato moderno: ne va preso atto, ma non è questa la sede per discuterne.
Che i quattro diritti, compreso cioè quello dello Stato a tutelare i propri segreti, possano confliggere, appare comunque chiaro. Allora, all’interno del difficile quadro concettuale che li deve veder convivere, le aree di confronto e di coesistenza assumono un carattere prevalentemente empirico, nel senso che la loro definizione è affidata alla legislazione ordinaria, alla pubblica amministrazione, alla mediazione culturale dei cittadini immediatamente interessati, cioè i ricercatori e gli archivisti. Tutto ciò dovrebbe indurre a una certa cautela quando si giudicano le leggi in materia: esse non possono infatti avere per obiettivo, come talvolta sembrerebbero auspicare le contrastanti spinte corporative, di annullare a favore di uno solo tutti gli altri diritti. Mi sembra di suggerire in tal modo un approccio realistico che non intacca i principi, anzi li presuppone.
Gli scambi di posizione che si riscontrano nei dibattiti in materia confermano quanto difficile sia il terreno sul quale ci si muove. Ad esempio, in Germania i Verdi, quando si discuteva in generale della libertà di accesso ai documenti dall’archivio, erano fautori della massima liberalità ; ma quando è sorta la questione dei documenti della Stasi, il servizio segreto che aveva schedato pressoché tutti i cittadini della DDR, sono passati dalla parte opposta, sostenendo che i compatrioti orientali di nuova acquisizione andavano tutelati negando l’accesso ai documenti polizieschi che li riguardavano, fino a proporre la distruzione dei documenti stessi. 2 Partendo dalle medesime esigenze di garanzia verso i cittadini si può dunque giungere a posizioni molto diverse. Non lo ricordo per seminare sfiducia verso la certezza del diritto, ma solo per invitare a tener conto delle difficoltà che si incontrano a muoversi su un terreno chiaro nei principi, sdrucciolevole nella prassi, e non sempre ben chiarito dalla legislazione.
Quanto ha detto ora De Siervo in materia di consultabilità , citando anche le direttive europee, è consonante con l’art. 21 della legge archivistica del 1963, che è a tutt’oggi la legge fondamentale italiana in materia archivistica, anche se modificata dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 281, che ha accorciato a quarant’anni i limiti per la consultabilità dei documenti relativi a “situazioni puramente private di persone”, lasciandoli a settanta solo per quanto riguarda la salute, la vita sessuale e i “rapporti riservati di tipo familiare”. l’articolo 21 ha per titolo, è questo che voglio sottolineare, “limiti alla consultabilità “. I titoli degli articoli non hanno, come sappiamo, valore legislativo ma facilitano l’ interpretazione delle norme. In questo caso quel titolo parte dal presupposto che la consultabilità è la regola e la non consultabilità l’eccezione; e le norme speciali che stabiliscono eccezioni alle norme di carattere generale non possono essere interpretate estensivamente. l’eccezione, sempre secondo l’art. 21, può essere a sua volta vinta, se così può dirsi, da un’eccezione dell’eccezione, che si concreta nell’autorizzazione a consultare i documenti in prima istanza non liberamente consultabili. La motivazione che sta alla base della eccezione di secondo grado è indicata dalla legge del 1963 nei “motivi di studio”. La formula è volutamente generica, e fu scelta per evitare di ricorrere all’aggettivo “storici” , a sua volta generico, ma passibile di interpretazioni restrittive, che avrebbero escluso la generalità dei cittadini, i quali in uno stato democratico hanno tutti pari diritto di accesso agli archivi. “Motivi di studio” non individua cioè dei soggetti particolari giuridicamente riconoscibili, ma solo le finalità di un’azione, lo studio per l’appunto, della quale può essere titolare qualsiasi cittadino.
Piuttosto, c’è da notare come non sempre gli studiosi siano consapevoli del fatto che non tutti i documenti che hanno meno di quaranta, cinquanta o settanta anni possano essere consultati soltanto in seguito ad autorizzazione. Questa è richiesta infatti soltanto per quelli appartenenti alle categorie espressamente previste dalla legge. così nella commissione consultiva che ho già ricordato vediamo arrivare domande di autorizzazioni delle quali non c’è alcun bisogno. Forse per cautelarsi di fronte a temute contestazioni, alcuni direttori di archivio, prima di emettere il proprio, si coprono con il parere del prefetto, necessario per inviare la domanda all’ispettorato, che la sottopone poi alla commissione consultiva. Compaiono talvolta nei pareri dei direttori e dei prefetti formule del tutto tautologiche, quali “si conceda, purché non si violi la legge”, evitando così di entrare in un discorso di merito che unico consentirebbe di comprendere se l’eccezione prevista dalla legge possa essere in quel caso applicata.
Vengo ora al codice deontologico previsto dalla legge sulla privacy. Il problema, già ricordato da De Siervo, della posizione che ai codici di questo tipo spetterà nella gerarchia delle fonti è un problema delicato, data la dignità di fonte del diritto attribuita ai codici. Si dovrà decidere se tutte le norme della legge siano da ripetere letteralmente nei codici, oppure se questi è bene compiano lo sforzo di renderle compatibili con gli statuti delle singole discipline e con l’appello, sul quale ha insistito Paola Carucci, da rivolgere all’autodisciplina degli utenti. Ad esempio, il codice per le ricerche negli archivi, e in particolare per quelle di tipo storico, sembra inopportuno che leghi la consultazione e la diffusione alla riconosciuta (da parte di chi?) indispensabilità dei documenti ai fini della ricerca in atto.
I codici, naturalmente, saranno privi di sanzioni penali. Queste potranno sempre essere invocate, a norma delle leggi penali, da chi sente leso un proprio diritto (reati di diffamazione, eccetera). Lo sforzo di normalizzazione, che è la ratio dei codici, avrà anche l’effetto di eliminare i privilegi, ai quali alcuni studiosi sono in verità affezionati. Non dovrebbero in nessun caso essere ancora valide le famose parole di Franco Venturi, secondo cui come la monarchia merovingica era una tirannia temperata dal regicidio, così gli archivi italiani sono il regno dell’arbitrio temperato dal privilegio. Queste parole sono certo troppo icastiche; ma ogni studioso dovrebbe vieppiù convincersi che la certezza del diritto è preferibile al regime del privilegio.
Romanelli ha opportunamente ricordato che non esiste un ordine, o corporazione, degli storici al quale il codice deontologico possa rivolgersi (al contrario, ad esempio, di quanto accade per i giornalisti). Che questa corporazione non esista è da considerare un fatto positivo, in controtendenza alla strisciante ricorporativizzazione della società . Ne deriva che occorrono garanzie di accesso uguali per tutti i cittadini, senza creare ricercatori di serie A e ricercatori di serie B. Le direttive europee esordiscono chiaramente con l’affermazione che in uno Stato democratico tutti i cittadini hanno pari diritto di accesso alle fonti documentarie. Le condizioni poste per rendere praticabile l’ accesso non possono intaccare il principio. Ad esempio, va esposto con chiarezza il programma di ricerca, le sue finalità , il cammino che si intende percorrere, eccetera. Per gli studenti che fanno le tesi di laurea sarebbe bene che i professori non dimenticassero di fornire loro lettere patenti di adeguata presentazione. Ma non tutti coloro che chiedono accesso agli archivi possono presentare curricula: non così il vecchio pensionato che vuol ricostruire la storia della sua famiglia, non così il giovane non universitario privo di precedenti di ricerca. E’ ovvio che chi dispone di un curriculum non mancherà certo di presentarlo. Ma quella che va evitata è una sorta di serrata del Maggior Consiglio, che privilegi coloro che sono già in.
Particolarmente delicata è la materia relativa alla vita sessuale e alla salute, per la quale in base al decreto legislativo del 30 luglio 1999 il limite per il libero accesso, come già ricordato, è rimasto a settanta anni dalla data del documento. Alcune legislazioni straniere pongono invece come termine a quo la morte dell’interessato. Questo mi sembra un criterio preferibile, che auspicherei venisse introdotto anche nella nostra legislazione: infatti la sensibilità del diretto interessato non è detto coincida con quella dei suoi eredi.
Da tutto quanto detto risulta evidente che può essere concessa l’autorizzazione a consultare anche i documenti contenenti dati da ritenere “sensibili” secondo le norme sulla privacy. Possono peraltro in questi casi essere adottate particolari cautele, quali siglare o indicare secondo codici di cui non si fornisce la chiave di decrittazione i nomi di persona, oppure predisporre un possibile loro oscuramento nelle banche dati, eccetera.
Infine, credo sia da accogliere l’ ipotesi, prospettata da Paola Carucci, di distinguere fra permesso a consultare e permesso a diffondere. E’ difficile dare al riguardo norme precise, che non vincolino la libertà dello studioso a ricercare e a fare conoscere i risultati. della sua indagine. Ma chi ha pratica di ricerca dall’archivio sa che le opinioni dello studioso non si formano solo attraverso la visione dei documenti che egli poi puntualmente cita: è talvolta dall’esame di un intero complesso documentario che nascono alcune ipotesi interpretative. E’ un campo in cui l’autodisciplina degli studiosi invocata dal codice molto potrà fare per evitare rigidezze normative e lassismi comportamentali.
Note
1- P. Ridola, Garanzie, diritti e trasformazioni del costituzionalismo, in “Parolechiave”, n. 19, 1999, p. 45 e opere ivi citate.
2- Cfr. D. Kruger, Storiografia e diritto alla riservatezza. La legislazione archivistica tedesca dal 1987, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, LVII, n. 2-3, maggio-dicembre 1997, pp. 371-398.