Guido Melis
Quaderni I/2001
SEGRETI PERSONALI E SEGRETI DI STATO.
Privacy, archivi e ricerca storica
a cura di Carlo Spagnolo
Parte I
Privacy e codice deontologico
Un fatto. E poi qualche tentativo di formulare delle opinioni su questa mattinata così interessante, di cui va dato merito all’ ISLE ed alla SISSCO, perché si sentiva davvero il bisogno di un’occasione così informale e di una discussione tanto diretta.
Il fatto è questo: il 1 luglio 1943, sulla linea Venezia-Bologna, avviene un incidente ferroviario. Sul treno che deraglia c’è un personaggio importante, che si chiama Amedeo Giannini (senatore del regno, segretario di Stato, un uomo chiave della diplomazia concordataria, libero docente, professore, ambasciatore). Giannini subisce nel deragliamento conseguenze piuttosto gravi. Nel suo dossier personale si trovano un cospicuo numero di documenti che riguarda questo episodio. C’è un certificato che attesta lo spostamento dell’aorta e altri documenti medici. Quel certificato, in particolare, diventerà fondamentale nei mesi fra il 1943 e il 1945. Dopo l’8 settembre Giannini, sostenendo in base a quel certificato di versare in condizioni di salute gravi, ottiene di non trasferirsi al Nord al seguito della Repubblica sociale. Nel giugno 1944, quando gli americani entrano a Roma Giannini viene arrestato e rinchiuso a Regina Coeli come autorità fascista. Ma di là ad una settimana esce da Regina Coeli e viene posto a regime di arresti domiciliari (poi sarà assolto, ma questo qui ci interessa di meno) in base alla stessa documentazione medica.
Ecco un caso emblematico nel quale una documentazione di natura medica viene ad assumere un rilievo assoluto per scrivere una biografia. Se, come sosteneva l’Alto Commissariato per l’epurazione nel 1944, opponendosi agli arresti domiciliari, si trattava di una documentazione redatta da medici amici allo scopo di favorire Giannini, ne ricaviamo un certo tipo di giudizio storiografico; se, al contrario, i certificati rispondevano al vero, è chiaro che la figura di Giannini va letta in un’altra luce.
Dopo il fatto, che lascio alla vostra riflessione, qualche opinione. Non c’è dubbio, anche secondo me, che il problema dell’ accesso non riguarda più solo gli storici. Basta leggere la legge 281/1999, art.2: finalità di studio ma anche di indagine, di ricerca, di documentazione. Quindi non più solo “lo studioso”, come nella vecchia normativa evocata da Claudio Pavone, ma “l’utente”, cioè anche il ricercatore libero, operante o no nell’ambito di istituzioni, fondazioni ed associazioni. Del resto ormai è una prassi comune, come sa Paola Carucci che dirige l’Archivio Centrale dello Stato, che lavorino sulle stesse carte équipes dove convivono vari gradi e livelli di esperienza e di responsabilità ; è frequente che i “raccoglitori” non elaborino in proprio i dati, che vengono poi trasmessi “semilavorati” ad altri studiosi. Può non piacerci. A me personalmente non piace, perché la responsabilità del “raccoglitore”, cui è sottratta l’elaborazione (affidata a un terzo che qualche volta non va in archivio), è naturalmente di difficile definizione. Sicché l’intera questione dell’accesso viene posta da questo tipo di ricerca in una prospettiva del tutto differente.
Non solo lo storico professionale, dunque. Ma lo studente, lo studente impegnato nella tesi di laurea, qualche volta anche lo studente spaesato (poi dirò qualcosa sul programma di ricerca preventivo, perché non tutti coloro che si avvicinano all’ archivio, anche coloro che si avvicinano con finalità di ricerca, hanno già in mente il programma di ricerca strutturato; talvolta si tratta di un argomento di ricerca, talvolta addirittura di un periodo di ricerca, e la ricerca dall’archivio preventiva, il compulsare alcuni fondi che magari il responsabile della sala studi suggerisce, serve al giovane che si avvicina all’archivio per la prima volta ad orientarsi e a definire l’argomento di ricerca); o il giornalista; o il cittadino alla ricerca delle sue radici, come si è detto. Questo è l’universo col quale dobbiamo fare i conti ed è un universo molto problematico, perché è difficile, e lo prova il garbuglio normativo con cui siamo costretti a confrontarci, regolare uniformemente una platea di questo tipo. Non vale neppure il confronto con il codice etico dei giornalisti, perché in definitiva i giornalisti, per quanto possano essere iscritti o non in un ordine o solo giornalisti occasionali, firmatari di un articolo sul giornale, in definitiva poi hanno uno sbocco comune, che è il fatto che i dati raccolti finiscono in un unico canale, la finalità è quella di informare attraverso i media, per quanto i media oggi siano diversi l’uno dall’altro. Nel nostro caso non è esattamente così, perché l’ informazione acquisita in archivio può avere le finalità più varie: può restare in una sfera privata o essere pubblicizzata nelle maniere più differenti l’una dall’altra.
Io credo che questa sia la ragione per cui tutti sul codice etico abbiamo sino ad ora parlato solo vagamente. Perché di “codice etico”, Claudio Pavone lo ricorderà , si è parlato la prima volta che, presente Ugo De Siervo, si è fatta una delle prime riunioni preparatorie della Conferenza nazionale degli archivi. Già allora venne fuori questa che a me e a lui sembrò una magnifica idea.Poi però, tutte le volte che se ne è riparlato, ci siamo sempre arrestati sulla insormontabile difficoltà di trovare una enucleazione.
Credo che adesso sia arrivato il momento di approfondire il discorso, non solo perché ce lo chiede oggettivamente il Garante, e perché ormai le norme ci impongono di farlo, ma perché sentiamo tutti che è arrivato il momento di cominciare a misurarsi con una nuova realtà . Naturalmente bisogna partire dai punti di riferimento che abbiamo, che sono quelli che conoscete, per esempio la dichiarazione sulla protezione della vita privata e sull’uso dei dati a carattere personale ai fini di ricerca adottata dalla Fondazione europea della scienza nel 1980: o il codice internazionale di deontologia degli archivisti approvato nel 1996. Sono dei documenti dai quali si può partire per enucleare una serie di argomenti e di concetti; credo che ci sia già là dentro, se ci si lavora con una certa flessibilità ed intelligenza, la possibilità di mettere da parte un primo universo di elementi su cui costruire il codice.
Io, vi confesso, sono un po’ preoccupato: non sono di principio favorevole a continuare a “normare” questa materia, perché mi rendo conto che è così complessa, così legata a peculiarità , che la norma espressa in legge non ha la flessibilità necessaria, e forse neppure il Codice la avrà , quando venga attratto nel sistema delle fonti, come diceva Pavone prima.
Tuttavia gli storici sono una categoria speciale, che conserva, rispetto al problema di questo Codice, una grande responsabilità . Dopo aver detto tra noi che tutti gli utenti sono uguali, diciamo però che ce n’è qualcuno più uguale degli altri, e questo qualcuno è certamente lo storico di professione. La sua chance in più rispetto agli altri è che lo storico l’ informazione la contestualizza. Lo storico, e qui sono d’accordo con Romanelli, che viene a contatto con un dato, anche di quelli sensibilissimi, è portato, se è un buono storico naturalmente, a contestualizzarlo.
Badate, assumo che questa etica professionale si applichi ad ogni storico, così come si assume che i medici e gli avvocati rispettino il loro codice etico. La professionalità dello storico si basa su un esercizio intellettuale che è l’esercizio della contestualizzazione, cioè lo storico non ricerca l’informazione per l’informazione, ma ricerca l’ informazione perché ha un’ipotesi generale di lavoro ed ha un quadro in cui l’informazione va a collocarsi.
Vorrei essere chiaro. Io non propongo un accesso privilegiato agli storici in quanto addetti ai lavori. Pongo però alla vostra attenzione questo punto: penso che la chance in più che ha lo storico possa servire come elemento per costruire il Codice; penso che gli storici possano contagiare virtuosamente anche le altre categorie che non possiedono questa dote professionale.
Suppongo che a questo mirasse Paola Carucci quando invitava a “valutare i programmi di ricerca”. Cosa sono i programmi di ricerca se non questo? Paola Carucci dice che a qualunque utente, anche al cittadino comune, si chiede di scrivere in un modulo perché fa quella ricerca, e naturalmente questo perché non potrà essere una vana curiosità , perché altrimenti quel dato “riservato” non glielo si farà conoscere; ci dovrà essere un contesto, uno scopo, un quadro nel quale quel dato si colloca e si giustifica in una sua logica.
Io però tutto questo, più che a regole formali, lo affiderei ad una sensibilizzazione che forse gli archivi potrebbero anche svolgere. Perché, per esempio, non si produce un’attività anche di informazione per tutti quelli che si avvicinano agli archivi di Stato; non solo all’Archivio Centrale – che come sappiamo è un’isola felice – ma anche agli archivi provinciali? un’ attività di sensibilizzazione da svolgere anche attraverso opuscoli, audiovisivi, o altre forme di comunicazione pubblica da distribuirsi agli utenti degli archivi? Si tratta, in qualche modo, com’è stato detto, di inventare una “pedagogia dell’utente” che va in qualche modo avvicinato all’archivio, che non è una qualunque amministrazione alla quale ci si avvicina per avere un servizio, è qualcosa di più perché il servizio che l’archivio offre è un servizio che va attorniato di molte precauzioni, coinvolgendo aspetti di grandissima delicatezza. Poi coinvolgerei le riviste e non soltanto le riviste degli storici, ma un panorama di riviste più ampio, facendo un’analisi concreta di quelle che sono le categorie e le sottocategorie di frequentatori. Bisogna, insomma, creare un sistema di terminali per arrivare ad una sensibilizzazione.
Ci sarà ancora, come c’è oggi, colui che va in archivio per rubare il documento o per fare lo scoop, però in qualche modo il problema è di dimensionare questo fenomeno patologico e di creare un sistema in cui le cose funzionino un po’ meglio. Capisco di non aggiungere molto da questo punto di vista a quello che qui è stato detto, anzi forse non aggiungo proprio niente, però la mia idea sarebbe che bisogna non soltanto puntare sulla formulazione dei codici ma soprattutto sul farli funzionare poi concretamente attraverso una politica archivistica conseguente.