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Quali archivi nell’amministrazione “a rete”?

di Guido Melis

Due lucidi interventi, rispettivamente di Ernesto Galli della Loggia e di Claudio Pavone, hanno efficacemente denunciato, nello scorso mese di agosto sui due principali quotidiani italiani, il pericolo rappresentato dal decreto de 30 giugno 2005, n. 155 (attualmente in via di essere convertito in legge dal Parlamento), particolarmente nel punto che istituisce un archivio proprio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, affidando a un successivo decreto le modalità di conservazione, consultazione e accesso degli atti che vi saranno custoditi.
Non ho molto da aggiungere su quanto è già stato autorevolmente opposto al provvedimento, specie insistendo sulla traumatica rottura che vi si introduce rispetto alla legge archivistica vigente (violazione delle garanzie paritarie di accesso, pericolosa discrezionalità delle regole, rischio di inquinamenti della documentazione laddove la gestione delle carte, anziché ad archivisti specializzati, venga integralmente affidata al potere politico).
In termini archivistici l’idea di frammentare gli archivi costituisce di per sé una sciocchezza, oltre che una evidente diseconomia (sedi, personale, spese di funzionamento che inevitabilmente si moltiplicano ecc.). Il fatto che, per ragioni storiche comprensibili, esistano attualmente le due eccezioni degli archivi militari (per altro per i soli aspetti strettamente militari) e dell’Archivio storico-diplomatico del Ministero degli affari esteri, non comporta affatto la proliferazione degli archivi particolari.
L’Archivio centrale dello Stato (già oggetto per altro di una grave menomazione passata sotto silenzio, con la retrocessione di status del suo dirigente oggi non più direttore generale) rappresenta il luogo nel quale sin dall’epoca dell’Archivio del Regno si è inteso raccogliere sistematicamente la documentazione prodotta dall’apparato centrale dello Stato. Per svolgere questa delicata funzione sono stati concentrati nel suo edificio all’Eur imponenti mezzi di corredo (cioè repertori, inventari, banche dati, annuari e altri specifici strumenti di consultazione, nonché una biblioteca altamente specializzata) quali non è possibile rinvenire in nessun altro istituto di cultura, né tanto meno presso le amministrazioni correnti, evidentemente affannate da ben altri problemi che non siano quelli della conservazione delle carte di rilievo storico. Ma è stata specialmente la raccolta contestuale delle carte di vari ministeri e amministrazioni, tutte ordinate secondo un unico criterio archivistico e liberamente consultabili simultaneamente (“navigabili”, per così dire, senza doversi spostare di sede a seconda dell’ente produttore), che ha reso possibile per decenni risparmi di tempo e di danaro dei quali molto si è avvantaggiata la ricerca storica italiana.
C’è però un ulteriore profilo, che mi sembra non sia stato ancora sollevato dai molti e convincenti critici del provvedimento. Alludo al modo nel quale, già in un recente passato ma soprattutto nel presente e specialmente nel futuro più prossimo, si sono prodotte, si producono e sempre più si produrranno le carte destinate agli archivi storici. Assistiamo ormai (ce lo dicono i più attenti studiosi delle organizzazioni pubbliche) a grandi e pervasive trasformazioni del modo stesso d’essere e di agire delle istituzioni pubbliche. I vecchi modelli organizzativi piramidali (quelli, per intenderci, rigidamente gerarchici) volgono al tramonto. Si impongono al loro posto i nuovi sistemi istituzionali a rete, fondati sull’interazione reciproca e simultanea di più soggetti pubblici (e talvolta, per la verità, non solo pubblici), collocati un tempo sui vari livelli nella antica scala gerarchica ma adesso tendenzialmente inclini a collaborare tra loro paritariamente, spesso utilizzando per regolare i loro reciproci rapporti e quelli con l’esterno piuttosto gli strumenti del diritto negoziale che non quelli tradizionali (e autoritari) del diritto amministrativo.
Ebbene, in un simile universale cambiamento ciò che sempre più si impone (se non altro in linea tendenziale: ma è sulla tendenza che occorre ragionare) è la produzione “pluralistica” dei documenti, agevolata d’altra parte dal linguaggio stesso dell’informatica. Più soggetti istituzionali, cioè, lavorano sempre più di frequente orizzontalmente da più “stazioni”, nello stesso tempo reale e in continua dialettica fra di loro, a produrre, emendare, sviluppare il medesimo testo. Ciò avviene anche tra istituzioni un tempo di rango diverso (Stato, Regioni, enti locali, enti pubblici economici ecc.) e sovente lungo un circuito che prevede l’intervento delle autorità europee. La stessa titolarità del documento è spesso incerta, risentendo della sua origine condivisa e del procedimento collettivo che ne caratterizza la gestione. Gli stessi archivi correnti, un tempo inaccessibili dall’esterno e gelosa prerogativa delle singole istituzioni (regno impenetrabile dell’archivista corrente), possono essere interrogati, navigati, modificati e integrati da più soggetti (nel caso degli archivi informatici con disarmante semplicità, solo che si conosca la password). La comunicazione amministrativa, che una volta era riservata alla puntuale mediazione dei singoli protocolli (dunque cadenzata secondo precise regole nel tempo e nello spazio, certificata burocraticamente in ogni pur minimo passaggio), tende a intrecciarsi in tempo reale, e spesso anche a lasciare tracce tanto labili e istantanee da renderne problematica la registrazione e l’archiviazione. Ciò è tanto più vero per l’attività della Presidenza del Consiglio dei Ministri, tipicamente di coordinamento e di sintesi e perciò più esposta alla nuova forma di produzione condivisa della documentazione.
Immaginare, in un simile contesto, di poter conservare la documentazione isolatamente, frammentariamente e separatamente, creando tanti piccoli archivi in sé conclusi, i cui criteri di funzionamento sarebbero per altro lasciati alla discrezionalità dei governanti, non solo è culturalmente miope ma può essere sul piano pratico gravemente dannoso. Semmai, se la politica archivistica del Governo dovesse porsi un obiettivo, questo dovrebbe piuttosto coincidere con la conservazione e consultazione delle fonti pubbliche alla luce del loro fisiologico intrecciarsi. Non certo con l’anacronistica divisione delle carte secondo il principio “a ciascuna istituzione il proprio archivio”.