di Nicola Tranfaglia
(da la Repubblica, 17 febbraio 2001)
Chi ha trascorso una parte notevole della sua vita a studiare il passato (si tratti di quello lontano o di quello più vicino, non cambia molto) ha un soprassalto di gioia e di interesse quando si accorge che da qualche giorno grandi quotidiani, e persino trasmissioni televisive, si occupano dell’insegnamento della storia.
Ma l’interesse, la gioia cambiano di segno e si trasformano in preoccupazione, rammarico o altro ancora quando ci si accorge che se ne sta parlando perché si è vicini a un cambiamento che non promette nulla di buono per le nuove generazioni.
Insegnando ormai da un trentennio in una Facoltà di Lettere, ho visto, e continuo a veder passare ogni anno durante il mio corso di Storia Contemporanea o di Storia dell’Europa migliaia di giovani usciti dalla secondaria e più di metà dai licei classici e scientifici. Hanno studiato, secondo i programmi vigenti, per tre volte il cammino storico dell’uomo dalla preistoria all’età contemporanea ma sono in gran parte ignari delle grandi coordinate concettuali e cronologiche che consentono di orientarsi all’interno del grande racconto del cammino umano.
E questa situazione che tutti possono constatare e rispetto alla quale varie Facoltà universitarie (tra le quali quella di Lettere dell’Università di Torino) hanno pubblicato negli ultimi anni ricerche documentate, dipende da una molteplicità di fattori che si possono sommariamente elencare: si va dallo scarso peso che alla storia si dà nella secondaria a vantaggio di altre discipline alla preparazione degli insegnanti che sovente vengono da studi letterari o filosofici piuttosto che storici e ancora da una concezione della storia che privilegia troppo gli aspetti militari e diplomatici e poco quelli sociali e culturali e così appare paludata e barbosa ai giovani, qualcosa di assai lontano dalla loro vita e perciò inutile e poco fruttuoso.
La retorica è stata a lungo una componente importante della storia e imporla agli adolescenti di oggi, bombardati da una montagna di messaggi mediatici e televisivi, ha scarsa efficacia, costituisce anzi una ragione in più per volgersi ad altri percorsi.
Insomma diciamo con chiarezza che l’insegnamento della storia nella scuola di oggi versa in una crisi abbastanza grave. Gli interventi, misurati ma pieni di preoccupazione, di Carlo Azeglio Ciampi sulla necessità per gli italiani, che si preparano a diventare europei, a rafforzare il senso della propria identità storica, della propria consapevolezza di un patrimonio di tradizioni, valori, storia a cui riferirsi, partono proprio dal riconoscimento di una simile crisi e suonano come un incitamento costante a rafforzare questo aspetto della formazione culturale e civile delle nuove generazioni.
Stando così le cose, chi scrive è tra quelli che ha letto con interesse, e senza pregiudizi, il rapporto presentato il 7 febbraio scorso a Roma dal Ministero della Pubblica Istruzione sul lavoro svolto nei mesi scorsi da una commissione di esperti sull’insegnamento della storia (e più in generale sull’ambito disciplinare storicogeografico sociale) e coordinato da D.Antiseri, L. Cajani e G. Mori.
Sulla base di questo lavoro (ma senza un vincolo preciso a seguirne in tutto gli orientamenti) il ministro De Mauro dovrà, entro i prossimi quindici giorni, emanare un decreto ministeriale per l’attuazione dei programmi della scuola di base che, come è noto, a partire dall’ottobre 2001, incomincerà il processo di riforma prevista dalla legge 30 del febbraio 2000.
Dalla lettura delle pagine dedicate alla storia si colgono subito gli aspetti positivi del lavoro svolto dalla commissione: si insiste sulla necessità di «far acquisire agli studenti una visione di insieme della storia dell’umanità, attraverso la conoscenza di fenomeni storici su scala mondiale, da esplorare e interpretare utilizzando il linguaggio proprio della disciplina (lessico, concetti e metodologie)» e si prosegue sottolineando il fatto che «la storia ha una valenza educativa trasversale a tutti gli ambiti in quanto le categorie storiche sono una delle chiavi fondamentali di lettura di tutta la realtà» e concludendo con l’affermazione decisa di un curricolo unico di storia per tutti gli studenti fino alla conclusione dell’obbligo, in prospettiva ai diciotto anni.
Simili premesse riconoscono all’insegnamento della storia il posto centrale che ad esso compete nella formazione culturale degli italiani e parte, a ragione, dalla dimensione mondiale che deve caratterizzare oggi qualsiasi discorso sulle grandi coordinate del quadro concettuale e cronologico.
Ma, quando si passa dall’impostazione generale alle scelte compiute dalla commissione, si resta inevitabilmente delusi e sorpresi giacché si immaginano programmi che fanno iniziare lo studio sistematico e cronologico della storia dell’umanità nel quinto anno della scuola di base (in pratica a dieci anni) e lo fanno concludere alla fine del secondo anno della secondaria (a quindici anni), riservando all’ultimo triennio della secondaria (fino ai diciotto anni) uno studio tematico delle vicende storiche attraverso la scelta di problemi e momenti del cammino umano.
Ora io capisco l’opportunità di non ripetere tre volte, come avviene ancora oggi, il programma di storia dall’antico al contemporaneo ma non posso essere d’accordo con l’idea di riservare lo studio delle coordinate cronologiche fondamentali soltanto a un’età preadolescenziale, lasciando alla successiva, che è quella più adatta e in grado di interessare più in profondità i giovani, uno studio per temi e problemi che dovrebbe essere legato, e non disgiunto dalla conoscenza dei nessi cronologici.
In altri termini la ricerca degli storici ha insistito molto negli ultimi decenni su una concezione della storia che privilegia la lunga durata, i temi specifici riservati agli aspetti economici, sociali, culturali del cammino umano ed è giusto che i risultati di queste ricerche entrino nella scuola ma non possiamo farlo se non siamo sicuri che il quadro concettuale e cronologico sia chiaro ai nostri allievi: ed è praticamente impossibile, nella situazione attuale, che questo avvenga dopo lo studio che ha luogo dai dieci ai quindici anni.
A me pare necessario che a uno studio insieme cronologico e problematico della storia si attenda negli ultimi cinque anni della secondaria ripercorrendo le vicende e i temi dall’antico al contemporaneo e riservando all’ultimo anno un’indagine soddisfacente dei nostri tempi, cioè del Novecento.
So che si obietta a questa soluzione fino a che l’obbligo scolastico non sarà esteso ai diciotto anni ma mi parrebbe assurdo procedere a un riordinamento così radicale dei cicli scolastici senza poter contare sull’indispensabile estensione dell’obbligo fino alla conclusione della secondaria. Del resto, se la storia (come si dice nelle premesse) è così centrale occorre fare in modo che si studi in maniera efficace e nell’età adatta al suo apprendimento. Naturalmente per l’insegnamento della storia, come degli altri settori fondamentali, è necessario che gli insegnanti della riforma siano adeguatamente preparati.
Escano, cioè, dall’Università con una preparazione disciplinare effettiva e frequentino una scuola professionale assai meglio organizzata e istituzionalizzata di quanto sono adesso le Scuole di specializzazione degli insegnanti: c’è da augurarsi che, in questa frenetica conclusione di legislatura, né il ministro né il governo facciano decreti o colpi di mano all’ultimo momento in una materia così delicata che riguarda milioni di persone e tutta la scuola italiana.