di Alessandra Peretti (dal Seminario sulla trasmissione del sapere storico, organizzato dal Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea e dalla Facoltý di Lettere e Filosofia dell’Universitý degli Studi di Pisa, 8-9 marzo 2001) La scuola di massa: quella di Onofri e Starnone Vorrei, prima di cominciare questo mio intervento, fare una premessa. Io penso di essere stata chiamata a intervenire in rappresentanza dei docenti di storia delle scuole – e di questo sono grata agli organizzatori in quanto non Ë frequente che gli stessi vengano interpellati quando pure si tratti di problemi su cui avrebbero qualcosa da dire. Tuttavia voglio chiarire che il mondo della scuola Ë quanto mai variegato e differenziato. Cambiano infatti i problemi e le soluzioni in relazione all’etý degli studenti, all’indirizzo di studio e alle discipline in questione. Io ho quasi sempre insegnato italiano e storia nel triennio degli istituti tecnici e quindi porterÚ l’esperienza e il punto di vista soltanto di questo settore della scuola. Tuttavia vorrei ricordare che gli studenti dei tecnici rappresentano da soli il 40 % dell’istruzione secondaria, contro il 30 %, anzi un po’ meno, del licei e il 20 % circa dei professionali. Quando si vuole prendere posizione sulla riforma della scuola bisogna prima di tutto tener presente questi dati quantitativi: a maggior ragione quando si entra nel merito del problemi e dei contenuti dell’insegnamento, come Ë successo in questi giorni. Ieri sulla Repubblica Asor Rosa ricordava come negli ultimi decenni una buona scuola di Èlite sia stata a poco a poco divorata da un’indecente scuola di massa e come la riforma in corso voglia essere un tentativo di creare una buona scuola di massa da cui partire per recuperare anche una scuola di Èlite. Non sono convinta che questo tentativo vada nel senso auspicato, ma non Ë questo ora il problema. Quello che voglio dire Ë che io ho esperienza proprio di quell’indecente scuola di massa, di cui poco a mio parere ci si ricorda nel dibattito odierno, perchÈ in genere i professori universitari e i giornalisti non la conoscono, nÈ in prima persona nÈ attraverso i loro figli.. Eppure essa ha avuto in questi anni i suoi narratori e invito chi ne volesse sapere qualcosa a leggersi l’ultimo incompiuto libro di Sandro Onofri, Registro di classe, o quanto ne raccontano Marco Lodoli e Domenico Starnone. Insomma la mia opinione Ë che non si puÚ parlare dell’insegnamento della storia come se si trattasse solo degli studenti del liceo classico, o comunque degli studenti che arrivano poi alla facoltý di lettere e magari sono destinati all’insegnamento. Il che non significa certo ignorare che esiste anche il problema liceo, anzi quella minima percentuale di ragazzi tra i 14 e i 19 anni che fa il liceo classico e che ha diritto a una formazione specifica nel triennio terminale. Ma vorrei invitare l’uditorio, nonostante l’occasione accademica del nostro incontro, a tener presente che esiste un problema dell’apprendimento della storia delle giovani generazioni che prescinde per la maggior parte dal problema degli studenti di lettere.
Le innovazioni dei manuali, mole e linguaggio
Dunque i manuali. Nel pieno della polemica di novembre scorso sull’improvvida iniziativa del presidente della regione Lazio, lasciando ad altri il compito del discorso politico sulle velleitý censorie, io intervenni nella mia qualitý di insegnante per sottolineare come il manuale fosse soltanto uno strumento nel lavoro didattico. L’insegnamento della storia, come delle altre discipline, Ë innanzitutto legato alla figura del docente, certo alla sua competenza professionale, ma anche e soprattutto direi alla sua passione didattica. Io penso in particolare che senza quest’ultima sia pressochÈ impossibile comunicare qualcosa di discipline come la storia alle giovani generazioni di oggi, nel senso di sollecitare attenzione, ascolto e riflessione. Questo perlomeno Ë vero per quel 60% di ragazzi dei tecnici e dei professionali di cui parlavo prima. Come sia difficile la passione didattica di questi tempi, anche per chi l’ha sempre avuta, di fronte ai cambiamenti che destabilizzano senza disegnare orizzonti convincenti, lo si vede dall’aria crepuscolare di pensionamenti e attese deluse che pervade gran parte della vita scolastica e investe in particolare gli insegnanti della mia generazione, quelli che hanno aspettato per tutta la vita la riforma. Non voglio dilungarmi su questo; voglio perÚ completare l’accenno ricordando con Asor Rosa che la scuola di una volta non c’Ë pi˜ e non puÚ pi˜ esserci.
Ma torniamo ai manuali. Dicevo dunque che sono semplici strumenti e che anche autorevoli indagini sul campo (1) hanno dimostrato che non sono loro a determinare l’efficacia dell’insegnamento della storia, misurato in termini di conoscenze acquisite e di interesse degli studenti per la materia. Vorrei ricordare anche che spesso non convincono neppure quegli stessi docenti che li hanno adottati, sebbene non si tratti certo – ma Ë un problema che ora non voglio affrontare – di mancanza di obiettivitý o di deformazioni ideologiche. Ma tutto ciÚ non significa che i manuali non siano strumenti importanti.
C’Ë stato un tempo, quando io ero appena entrata nella scuola da docente, che il manuale fu violentemente contestato come strumento fondamentale, se non unico, di una scuola che imponeva in modo rigido, mnemonico, autoritario il proprio modello culturale. Quell’epoca appare oggi irrimediabilmente lontana ed Ë inevitabile che, come sono cambiate la societý e la scuola negli ultimi 30 anni, cosÏ siano molto cambiati anche i manuali. Ho letto recentemente valutazioni autorevoli sulla loro eccellenza attuale, e per alcuni manuali oggi in uso il giudizio Ë senz’altro condivisibile. Questa eccellenza si accompagna perÚ sempre pi˜ a dimensioni mostruose. La maggior parte dei corsi del triennio per gli istituti tecnici oscilla ormai tra le 1800 e le 3000 pagine. D’altra parte dai tempi in cui io studiavo al liceo sul manuale del Saitta, anche la storia come disciplina si Ë enormemente complicata. Alla tradizionale storia politica si sono aggiunte via via la storia economica, la storia sociale e delle mentalitý, le classi subalterne, le donne, le altre culture, il paesaggio, ecc. ecc. I manuali, invitati a superare i limiti tradizionali e a confrontarsi con la pluralitý dei punti di vista, con i problemi dell’interpretazione, con la proliferazione delle fonti – testuali, iconografiche, multimediali – si sono adeguati, con un effetto di onnicomprensivitý che stordisce i docenti prima ancora che gli alunni. Il problema vero, a mio parere, Ë che nessuno si Ë mai confrontato realmente con la questione della continuitý storica e delle eventuali scelte da fare in relazione agli eventi da insegnare, come invece hanno fatto ad esempio in Francia con scelte radicali e discusse democraticamente nel mondo della scuola non pi˜ tardi di un anno fa (2).
Un altro problema che oggi riguarda i manuali in genere Ë quello del linguaggio. Ho trovato scritto in un articolo recente che la prima forma di competenza storica richiesta allo studente consiste nel saper fare un discorso storico, ed Ë difficile contestare questa affermazione. Tuttavia nella scuola di massa il problema della lettura e comprensione del testo, a maggior ragione della sua produzione anche orale, si fa sempre pi˜ grave, in particolare quando l’oggetto di studio abbia la complessitý stratificata della conoscenza storica. Inoltre il manuale di storia si presenta apparentemente scritto in un linguaggio poco formalizzato rispetto ai manuali scientifici e col volto rassicurante del racconto. Quindi si presta pi˜ facilmente ad equivoci o fraintendimenti, legati sia alla complessitý della struttura sintattica che all’ambiguitý lessicale (pensiamo soltanto alla molteplicitý di significati di un termine di uso comune come “popolo”).
Quindi i manuali pongono all’insegnante che ne voglia fare un efficace strumento didattico molte difficoltý e appaiono inevitabilmente sovradimensionati rispetto alla storia che si puÚ fare in due ore settimanali di lezione (una sessantina di ore all’anno se si Ë fortunati). E tuttavia essi hanno svolto nel corso degli ultimi 20 anni un ruolo essenziale per l’aggiornamento degli insegnanti. Non solo quelli di storia. Nel campo dell’italiano un manuale altrettanto sovradimensionato come Il materiale e l’immaginario ha fatto a livello di diffusione quantitativa di un nuovo modo di insegnare la letteratura molto pi˜ di tanti corsi di aggiornamento universitario.
Scuola e universitý
E qui tocco un argomento spinoso. » senz’altro logico che l’universitý si assuma il ruolo della formazione permanente dei docenti, ma i rapporti tra scuola e universitý dal punto di vista dei docenti della scuola sono stati scarsamente soddisfacenti in passato. Intendiamoci, non mi riferisco alle lodevoli eccezioni che pure esistono, a cui farÚ anche riferimento pi˜ avanti. Ma in generale, quando ancora i legami tra universitý e scuola non erano stati interrotti di fatto come Ë successo nell’ultimo decennio, l’aggiornamento disciplinare fornito dall’universitý Ë stato spesso sentito dagli interessati come un inutile lusso, un’offerta superflua rispetto agli enormi problemi che la scuola poneva: la vecchia signora elegante di Saba che suona la spinetta mentre la casa brucia e la famiglia si disintegra. Gli insegnanti della scuola di massa sentivano soprattutto la necessitý di recuperare il senso di fare storia con ragazzi che sempre meno concepivano l’apprendimento come qualcosa di desiderabile in sÈ, il cui sapere si formava ormai in gran parte fuori della scuola senza che noi fossimo pi˜ in grado di controllarlo. L’acculturazione per familiaritý, che Ë stato il processo da noi seguito, anche quando contestavamo la scuola, non era pi˜ possibile, perchÈ non c’era pi˜ una cultura condivisa da docenti e studenti.
Come avrebbe potuto l’universitý intervenire in questo progressivo processo di spaesamento di tanti insegnanti sensibili al valore della loro professione? Non lo so, forse con un po’ pi˜ di umiltý e di consapevolezza di cos’Ë veramente la scuola di massa. Quello che Ë certo Ë che la distanza tra universitý e problemi della scuola in generale si Ë accentuata, come Ë dimostrato a mio parere anche dalle polemiche di questi giorni. Tra le eccezioni di cui dicevo prima, voglio qui ricordare Nicola Gallerano che, oltre ad essere un insigne storico precocemente scomparso, Ë stato un caro amico e uno dei primi a impostare il tema del rapporto tra ricerca scientifica e insegnamento della storia in termini per me convincenti. In un convegno dell’Irsifar romano di una decina di anni fa lo sentii sostenere la tesi dello scarto tra gli obiettivi e i punti di vista della ricerca storica e quelli dell’insegnamento della storia, tra storia/disciplina e storia/materia. Portava ad esempio tra l’altro anche il carattere inevitabilmente assertivo del manuale, che Ë la negazione della natura provvisoria e precaria del lavoro dello storico. La conclusione, che io condivido, era che la storiografia non Ë in grado di dettare una gerarchia delle rilevanze didattiche; Ë invece ai docenti che compete individuare le rilevanze funzionali ai loro progetti educativi, per cui comunque si richiede loro una rigorosa cultura storiografica.
Le conoscenze
Mettere al centro questo tema delle rilevanze didattiche dell’insegnamento della storia non deve significare perÚ perdere di vista l’altro corno del dilemma, quello che fa insorgere i cosiddetti disciplinaristi. Nel processo di innovazione didattica di questi anni, che ha ormai una lunga storia, si puÚ trovare spesso la legittima preoccupazione che sia preservato comunque il nesso imprescindibile tra la formazione e le informazioni: la questione delle conoscenze storiche come mappa, come reticolo di dati di riferimento. Che negli ultimi tempi mi sembra aver assunto come sua bandiera la battaglia per la storia in senso cronologico, contro la cosiddetta storia per temi o per moduli.
Fin dagli anni ’70, nei testi dei pochi che si occuparono allora di didattica della storia, compare questa preoccupazione, dopo l’ubriacatura del ’68. Nel ’72 sulla Rivista di storia contemporanea di Loescher, la prima del genere – salvo errore – in un momento in cui la storia contemporanea all’Universitý non esisteva ancora come insegnamento autonomo, Giuseppe Ricuperati aveva sostenuto l’idea della didattica come ricerca e non semplicemente come trasmissione autoritaria di contenuti giý elaborati: e aveva insistito sulla necessitý di sollecitare in questo modo un ruolo attivo dello studente sia nei confronti del docente che della disciplina. Per quante ingenuitý, superficialitý ed estremismi ci siano stati nell’attuazione di questo progetto, tutto quello che di buono la scuola ha prodotto in questi trent’anni, secondo me, nasce di lÏ. E tuttavia giý pochi anni dopo, nel ’77, Ricuperati ammoniva: ” » accaduto che la didattica come ricerca abbia urtato sempre pi˜ contro l’impoverito quadro delle informazioni e delle istituzioni disciplinari” (3). Egli ne ricavava un incentivo a riprendere il discorso sul manuale, nel senso di trasformarlo da strumento autosufficiente ed esclusivo in un “corretto punto di partenza, di consultazione, di collegamento”.
Intanto l’editoria si era mossa per fornire una ricca messe di raccolte di documenti, ricordo in particolare la benemerita collana Le fonti della storia della Nuova Italia, e di testi di critica storica, che rompevano la precedente pretesa di oggettivitý del discorso manualistico. In questo campo essa ha sempre pi˜ recepito, fino ai nostri giorni, pur con gli eccessi di cui ho giý parlato, le istanze presenti in quell’analisi. Ma le due cose, l’informazione di base e la pratica di ricerca, che avrebbero ben dovuto rimanere collegate, sono state talvolta agitate l’una contro l’altra alimentando accuse ed equivoci che permangono tuttora anche nelle polemiche di questi giorni.
Da un lato si Ë consolidata una posizione di ostilitý a quanto c’Ë di inevitabilmente passivo nel processo di lettura-memorizzazione che porta all’acquisizione di conoscenze, ostilitý che coinvolge inevitabilmente l’uso del manuale. Nella battaglia per far trionfare il progetto della “storia come ricerca nella scuola come laboratorio” (4), si Ë arrivati a sostenere che la storia “non punta all’apprendimento e alla memorizzazione di avvenimenti, ma a formare capacitý di costruzione autonome di conoscenze del passato” e che oggetto di studio Ë il “fatto storiografico”, non il “fatto storico” (5). Mi scuso se queste citazioni risultano estrapolate dal contesto, col rischio di quegli abusi che si sono continuamente verificati nel corso delle polemiche sull’insegnamento della storia. Mi riferisco comunque a testi articolati e complessi come quello prodotto dalla Direzione Generale dell’Istruzione professionale per i nuovi programmi di storia. Dall’altra parte gli oppositori della riforma ironizzano sui piccoli storici, “specialisti dell’Atene di Pericle e della Shoý, e inconsapevoli di quasi tutto il resto” (6) o si scandalizzano per la prospettiva di “uno studio monografico slegato dalla visione generale del processo storico” (7).
L’insegnamento della storia e la scuola
La battaglia in atto nella scuola a favore della ricerca e dell’interpretazione, che mette la sordina all’importanza delle conoscenze storiche reperibili attraverso il manuale, Ë in parte giustificabile, secondo me, nella realtý vischiosa della scuola italiana in cui in molti casi il manuale continua ad essere riproposto come negli anni ’60. Ma Ë anche vero che dý luogo a due rischi, presenti anche nella recente elaborazione sui nuovi curricoli nella scuola di base. Uno Ë la trasformazione dell’informazione storica in una generica melassa di storia per quadri sociali e per scenari mondiali in cui l’Africa subsahariana e la colonizzazione dell’Oceania sono presenti tra i contenuti essenziali allo stesso modo della civiltý greco-romana o dell’espansione araba. L’altro rischio Ë quello che l’idea scientificamente valida della soggettivitý e parzialitý delle conoscenze e del valore dell’interpretazione formi dei cosiddetti “piccoli storici” cui sfugge che ci sono pure dei fatti documentati e certi. Io ho sentito affermare, proprio in occasione della Giornata della memoria, che il negazionismo va affrontato come una delle possibili interpretazioni della Shoý: e se pure le parole hanno tradito l’intenzione, mi sembra che questo scivolone ci offra di che riflettere sui possibili pericoli di ridurre anche per gli studenti tutta la storia a confronto e interpretazione storiografica.
Pure questa posizione, che ha un riferimento obbligato nel gruppo di docenti che lavora col prof. Mattozzi all’universitý di Bologna, appare oggi la pi˜ accreditata presso il MPI per quanto riguarda l’insegnamento della storia nelle scuole. Tuttavia inviterei i colleghi dell’Universitý, che sono giustamente preoccupati di come stanno andando le cose, a tener conto prima di stracciarsi le vesti di alcuni elementi ulteriori.
Per prima cosa il professor Mattozzi, ma anche altri come i professori Brusa e Gusso, sono nomi ben noti nell’ambiente scolastico, che hanno lavorato in particolare nelle situazioni pi˜ difficili, ad esempio negli Istituti professionali. Sono docenti che da anni intervengono nelle scuole sperimentando nuove tecniche didattiche, conquistando consensi sul campo, stimolando le ricerche scolastiche di storia locale e settoriale. Soprattutto in quella che viene oggi chiamata scuola di base nell’ultimo decennio la storia Ë stata profondamente rinnovata e ha fatto esperienze significative. Ma in generale riviste come I viaggi di Erodoto, convegni come quelli promossi dall’Irsifar romano e da altri Istituti all’inizio degli anni ’90 hanno profondamente modificato il modo di fare storia nella scuola. Gli studenti oggi vanno in archivio a consultare documenti, fanno interviste e ricerche di storia orale, si confrontano con fonti di vario genere, dalla letteratura al cinema.
Saranno questi esempi non generali, ci saranno tante sacche di conservazione, ma non si puÚ certo ignorare tutto questo, come si Ë fatto nel dibattito di questi giorni. Chi sa bene, se non altro per deontologia professionale, che bisogna documentarsi prima di parlare, non puÚ citare con sufficienza, come esempio del futuro da ignoranti cui gli italiani sono destinati, i “fumosi laboratori di storia”, quando si tratta di esperienze discusse e messe in atto da circa un decennio. Quello che a me, donna di scuola, Ë parso veramente irritante in tanta parte di questa polemica Ë stata la banalizzazione di ogni istanza minimamente innovativa della proposta ministeriale, senza che si tenesse conto nel gridare allo scandalo che si tratta di cose che vengono comunque da lontano e che non si possono liquidare con la mozione degli affetti e la nostalgia per il nostro vecchio liceo. Gli approfondimenti tematici, che sono tanto avversati, non solo non contraddicono la storia cronologica, come Ë detto con tutta evidenza nei pi˜ recenti indirizzi ministeriali, ma sono anche l’unico modo per offrire agli studenti del triennio finale un assaggio di metodologia storica. Quella metodologia storica che sola puÚ sollecitare il loro interesse e contrastare le banalitý del comune senso storico, di quel rapporto ingenuo e acritico col passato (8) da cui gli studenti sono affetti nel migliore dei casi, cioË quando ce l’hanno. Dico questo rivolgendomi proprio a chi lo sa bene per aver fatto della ricerca la sua professione, e lo dico con la convinzione di chi sogna da anni il momento in cui avrý di nuovo, dopo tanto insegnare, l’opportunitý di fare ricerca.
La storia cronologica ripetuta tre volte nei tre cicli non solo era una peculiaritý italiana, e fin qui non ci sarebbe a mio parere niente di male, considerando tra l’altro che dalle indagini OCSE i nostri studenti appaiono meglio preparati degli altri dal punto di vista delle conoscenze storiche. Ma produceva anche i risultati in termini di conoscenze che l’universitý da anni rimprovera alla scuola. Per quanto mi riguarda, io non mi preoccupo tanto delle studentesse che non sanno chi Ë Badoglio, che puÚ essere scandaloso solo per chi riduce la storia a quiz; ma dell’insofferenza e del disamore per la storia che si registra da ogni sia pur minima indagine tra gli studenti che ci passano per le mani.
Tornando ai manuali, concluderei dicendo che devono essere sempre pi˜ uno strumento agile, con una buona qualitý di racconto, in grado di fornire allo studente le informazioni essenziali, la mappa su cui orientarsi nell’ambito della storia. Il resto va fatto con altri strumenti, a cui per altro l’editoria scolastica ha dimostrato di essere in grado di offrire supporto e nuove idee. E tuttavia il problema centrale oggi, se si ha veramente a cuore la sopravvivenza della conoscenza storica in un’epoca percorsa da una crisi globale delle conoscenze quale quella descritta dal libro di De Simone La terza fase, Ë che ci sia da parte di tutti maggior disponibilitý a lasciare le proprie trincee e a pronunciarsi sui problemi reali della scuola, con toni e aperture verso le diverse ipotesi che, se mi consentite, non siano quelli che si sono usati finora.
Alessandra Peretti, 8 marzo 2001
1) vedi I viaggi di Erodoto, n.13 e 23
2) v. Le DÈbat, maggio-agosto 2000, Dominique Borne, O˜ en est l’enseignement de l’histoire?
3) Carpanetto-Ricuperati, Editoria e insegnamento della storia, in Italia contemporanea n. 128
4) Deiana in Contemporanea n.2
5) Non Ë pi˜ la stessa storia, MPI Direzione Generale Istruzione professionale
6) Belardelli, Corriere della Sera, 3.03.2001
7) Rosario Villari, citato da Pirani, in la Repubblica, 20.02.2001
8) Traniello, Insegnamento della storia e storia del ‘900, in Contemporanea, 1998, n.1