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Claudio Pavone

RISPOSTA AD UN QUESTIONARIO MANDATO DALLA RIVISTA PASSATO E PRESENTE

Gennaio 2000
Premessa generalissima.

L’accesso ai documenti conservati negli archivi – dello Stato, degli enti pubblici, dei privati – coinvolge quattro principî fondamentali, tutti, direttamente o indirettamente, di rilevanza costituzionale: 1) la libertà di ricerca e di informazione; 2) la tutela delle vita privata; 3) la trasparenza della pubblica amministrazione; 4) la tutela del segreto di Stato.

Mentre i primi tre principi trovano la loro base nei fondamenti della democrazia liberale e dello stato di diritto, il quarto la trova nella salvaguardia dellíantica figura degli arcana imperii. Tuttavia, finché esisterà lo Stato esisteranno anche i segreti di Stato: soltanto gli anarchici possono coerentemente condannarli. Contraddittori sono invece quegli storici che rivendicano l’accesso, come primizia e possibilmente in esclusiva, ai segreti di Stato, con ciò stesso riconoscendone la privilegiata esistenza come fonte. D’altra parte, solo una società compiutamente organicista ed olista, e pertanto né democratica né liberale, può proporsi la totale sussunzione del singolo e della sua memoria nel tutto, così da fare scomparire l’esigenza stessa della salvaguardia di una sfera privata e inaccessibile della vita e della memoria dei singoli individui.

Gli ordinamenti costituzionali in cui viviamo esigono invece che i quattro principi sopra formulati trovino una composizione che li salvaguardi nella loro specificità e che nello stesso tempo li faccia coesistere nel diritto e nella prassi amministrativa. Le leggi emanate in materia vanno pertanto giudicate in base al grado di approssimazione con la quale si avvicinano al massimo livello possibile di armonica composizione.

1.1.1. Le principali novità introdotte dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 281, vanno valutate innanzi tutto in rapporto: a) alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” e alla legge in pari data, n. 676, “recante delega al Governo in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa ivi citate”; b) al DPR 30 settembre 1963, n. 14O9, “Norme relative all’ordinamento e al personale degli Archivi di Stato”, che è tuttora le legge archivistica fondamentale. Subordinatamente il confronto va fatto anche con la legge n.241 del 1990 sul diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Non è possibile in questa sede valutare le novità apportate nelle norme archivisticamente rilevanti che si trovano sparpagliate in molte altre leggi: i codici civile e di procedura civile, penale e di procedura penale, le leggi sul diritto d’autore, le leggi finanziarie, lo statuto dei lavoratori, la legge sull’ordinamento delle autonomie locali, eccetera. Queste novità non sono forse state tutte previste e pienamente valutate dal legislatore; ma ciò fa parte di quella decadenza della tecnica legislativa che da più parti viene lamentata. Anche nella legge 675/96 le abrogazioni e le conferme di norme precedenti sono solo in parte indicate in modo preciso; per le altre si fa uso della consueta e generica formula dellíabrogazione “delle disposizioni di legge e di regolamento incompatibili con la presente legge”. È questa una formula che lascia spazio ad ampie incertezze interpretative. Il magistrato Piergiorgio Morosini ha giustamente scritto della “difficoltà di coordinamento della legge 675 del 1996 con le discipline di settore a tutela delle riservatezza” (Tutela della privacy, p. 1781).

1.1.2. Premessa di carattere generale è che, al contrario della legge 241 del 1990 e della legge 675 del 1996, il decreto legislativo 281 tiene conto, con rinvii e modifiche, della legge archivistica del 1963 e reca la firma anche del ministro per i Beni e le attività culturali: segno della maggiore attenzione prestata ai problemi della ricerca storica che si svolge in archivio.

Le principali novità apportate dal decreto, a mio giudizio, vanno valutate attentamente per evitare gli allarmi catastrofistici che non sono mancati in alcuni ambienti accademici e giornalistici. Questi allarmi, fra l’altro, non hanno tenuto conto dei limiti e del contenuto della delega assegnata dal parlamento al governo con la ricordata legge 676/1996, di cui il decreto in discussione costituisce l’applicazione. La delega stava tutta nell’ambito della tutela della privacy e non prevedeva, né poteva prevedere, la sottrazione al ministero dell’Interno delle competenze in materia di archivi, prima fra tutte quella di concedere i permessi di accesso ai documenti ancora non liberamente consultabili.

Questa competenza lasciata al ministero dell’Interno fu il prezzo che Giovanni Spadolini dovette pagare per trasferire gli Archivi di Stato, che erano stati alle dipendenze del ministero dell’Interno fin dall’Unità, al nuovo ministero dei Beni culturali e ambientali, creato per sua iniziativa nel 1975. Fino all’emanazione dell’attuale decreto la competenza è stata esercitata in modo esclusivo dall’Ispettorato archivistico, affidato ad un prefetto, che fu all’uopo istituito. Si era così venuto a creare un singolare paradosso. Quando gli Archivi erano inquadrati nel ministero dell’Interno, la concessione dei permessi di consultazione era subordinata al parere – obbligatorio anche se non vincolante, ma di fatto ben raramente disatteso – della Giunta del Consiglio superiore degli Archivi, dove sedevano rappresentanti della ricerca storica (basti ricordare il nome di Federico Chabod), degli archivi stessi e delle istanze politico-amministrative. La creazione del ministero dei Beni culturali comportò la scomparsa del Consiglio superiore degli archivi, assorbito dal Consiglio nazionale dei beni culturali, allora creato, e di conseguenza della Giunta da quello espressa. L’Ispettorato ministeriale rimase unico arbitro e, quando fu emanata la legge 675/1996, tese a interpretarla in un modo estensivo che gli consentisse di ampliare e rafforzare le proprie competenze. Ad esempio, l’Ispettorato voleva negare la consultazione degli atti del censimento degli ebrei disposto dopo líemanazione delle leggi razziste del 1938 con la speciosa motivazione che il divieto serviva a garantire la privacy degli ebrei.

In seguito alle prese di posizione di vari organismi culturali, fra cui la Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco), alla vigilia della caduta del governo Prodi il ministro dell’Interno, Napolitano, d’intesa con quello dei Beni culturali, Veltroni, creò con suo decreto una Commissione con il compito di assistere l’Ispettorato dando il suo parere sulle richieste di autorizzazione a consultare i documenti non ancora liberamente accessibili. Anche in questo caso il parere sarebbe stato obbligatorio ma non vincolante; di fatto, i pareri dati non sono stati finora disattesi. Nella commissione sono presenti un rappresentante del Garante per la privacy, uno degli Archivi di Stato, uno della ricerca storica e uno dell’Autorità istituita per l’accesso ai documenti della Pubblica Amministrazione. Il decreto legislativo di cui stiamo parlando stabilisce (art.8) che il ministro dell’Interno istituisce con suo decreto una “commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti d’archivio riservati”, attribuendole il compito di fornire al riguardo la propria “consulenza” al ministro. L’iniziativa presa da Napolitano cessa quindi di essere un optional del ministro dell’Interno, ma diventa un obbligo di legge. Rimane peraltro vaga la composizione della commissione, limitandosi l’articolo 8 a stabilire che in essa “è assicurata la partecipazione di un rappresentatnte del Ministero per i beni e le attività culturali”. Sembra tuttavia difficile che nella futura composizione della commissione non si segua la via tracciata dal decreto di Napolitano, espellendo i rappresentanti della ricerca storica, del Garante per la privacy e dell’Autorità per l’accesso ai documenti amministrativi. Comunque è opportuno, come si sarebbe detto una volta, esercitare su questo punto la massima vigilanza.

1.1.3. La comparazione richiesta dalla domanda va fatta innanzi tutto con le raccomandazioni e le direttive della Comunità europea, alle quali l’Italia era tenuta ad uniformarsi entro il 24 ottobre 1998. La Comunità si è più volte interessata dell’argomento, a partire dalla Convenzione del Consiglio d’Europa del 28 gennaio 1981, che aveva anche lo scopo di fronteggiare i problemi posti dalle nuove tecnologie dellíinformazione. I principali atti comunitari emanati al riguardo sono illustrati nella relazione che Roberto Santaniello, della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, svolse in occasione della Conferenza nazionale degli archivi tenutasi a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato dall’1 al 3 luglio 1998. Ricordiamo qui che una direttiva del Consiglio d’Europa del 24 ottobre 1995 all’art. 2 definisce come dati personali “qualsiasi informazione concernente una persona fisica identificata o identificabile”.

Nella sostanza, le direttive europee si muovono, con disposizioni che non è possibile analizzare in questa sede, fra il polo della tutela della privacy (esiste un “Gruppo per la difesa delle persone”) e quello della libertà di accesso agli archivi, che in uno stato democratico deve essere riconosciuta a tutti indistintamente i cittadini. Il punto di incontro fra le due istanze è lasciato ai singoli Stati, entro i parametri fissati dalla Comunità stessa. Ad esempio, è prevista in alcuni casi la necessità dell’assenso degli interessati, mentre la riserva più rilevante a favore della legislazione dei singoli Stati sta nel fatto che, come scrive Santaniello, “la legislazione comunitaria non è di applicazione per la circolazione e la protezione dei dati che hanno per oggetto la sicurezza pubblica, la difesa, la sicurezza dello Stato e le attività dello Stato in materia penale” (p. 326). Le finalità storiche, statistiche e scientifiche della ricerca, formula ripresa dal nostro decreto 281/99, sono comunque sempre fatte oggetto di speciali menzioni atte a salvaguardarle.

Quanto alla comparazione con i singoli stati, il discorso sarebbe ancora più lungo. Posso rinviare al saggio di Carlo Vivoli, dove fra l’altro si sottolinea la differenza che anche in questo campo si riscontra fra i paesi di common law e quelli amministrativamente accentrati. Qui si può soltanto ricordare, ad esempio, che in Francia, dove peraltro la materia è tuttora oggetto di discussione, il limite generale per l’accesso agli archivi è, come del resto in molti altri paesi, fissato in trent’anni; questi diventano sessanta per quel che attiene alla vita privata e alla sicurezza dello Stato, mentre per la documentazione medica si arriva anche a centocinquanta anni dalla morte del soggetto. Quest’ultimo criterio é estraneo alla legislazione italiana, la quale per fissare i limiti della consultabilità fa riferimento alla data dei documenti, non al momento della morte (o della nascita) del soggetto interessato.

In Germania la situazione è resa particolarmente complessa da due circostanze: la sovrapposizione della legislazione federale a quella dei singoli Länder e l’esistenza degli archivi della scomparsa ddr, in particolare di quelli della Stasi (sui quali tornerò in seguito). Uno studioso tedesco è giunto alla conclusione che “il contrasto tra storici da un lato e giuristi incaricati della tutela dei dati dall’altro è inevitabile come la mediazione che l’archivista deve svolgere tra i due poli divergenti della riservatezza personale e della ricerca storica (Krüger, p. 397).

1.1.3. Le altre principali novità introdotte dal decreto sono le seguenti.

a) È scomparsa la norma, contenuta nella legge archivistica del 1963, e già dichiarata incostituzionale, che fissava a settant’anni il termine per la libera consultazione dei processi penali. Quella norma era più che mai incompatibile con il nuovo codice di procedura penale.

b) La legge del 1963 poneva senza distinzioni a settant’anni il termine per la libera consultabilità dei documenti “relativi a situazioni puramente private di persone”. La formula era sufficientemente chiara; ma sotto la distorta interpretazione della legge sulla privacy, cui ho già accennato, se ne andava delineando una interpretazione assurdamente estensiva. Il nuovo decreto riduce questo termine a quarant’anni, lasciandolo a settanta soltanto se i documenti contengono dati “idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare”. Mentre le prime due ipotesi non dovrebbero far nascere gravi dubbi di interpretazione, la terza appare molto infelice. Ad esempio: le controversie in materia dotale sono da considerarsi riservate? Cosa ne penseranno gli studiosi di storia dei patrimoni familiari?

c) L’autorizzazione all’accesso rilasciata ad un richiedente deve essere concessa, “a parità di condizioni, ad ogni altro richiedente”. È questa una norma che garantisce l’uguaglianza di trattamento fra tutti coloro che intendono accedere agli archivi. Dovrebbe esserne stroncato ogni rapporto di tipo clientelare; e Franco Venturi non potrebbe più scrivere che come la monarchia merovingica era una tirannia temperata dal regicidio così gli archivi italiani sono il regno della incertezza temperata dal favoritismo.

d) Viene eliminata la possibilità di distruzione dei documenti “trattati” (questa è la terminologia adottata dal legislatore), infaustamente prevista in alcuni casi dalla legge 675/96. Ci si deve augurare che questo principio, che è insieme di natura etico-politica e di salvaguardia della ricerca storica, venga seguito anche dal parlamento per impedire la distruzione dei documenti dei servizi segreti cosiddetti deviati, di cui oggi si discute. Non va infatti confuso il diritto all’oblio, che è il corrispettivo del diritto alla memoria, con la distruzione delle prove delle malefatte del potere e, in certi casi, della innocenza dei calunniati.

e) Viene eliminata la possibilità di perenne “secretazione” (orrendo neologismo) di alcune serie di documenti. Sembrava quasi che potessero esistere documenti condannati all’ergastolo e alla morte civile, anche se non passibili della pena di morte fisica.

2.La risposta alle domande poste nel secondo punto è già largamente implicita in quanto detto finora. Posso aggiungere le seguenti considerazioni.

2.1. Per designare uno dei due poli fra i quali si muove il discorso che stiamo conducendo mi sembra sconsigliabile l’uso delle parole “istanze garantiste”. Garantismo è un termine cui è bene lasciare una connotazione positiva, proprio per evitare l’uso distorto che talvolta se ne fa, e che verrebbe in questo caso ambiguamente contrapposto alle ragioni della ricerca storica.

2.2. Non è facile oggi distinguere in modo netto il contenuto pubblico da quello privato di una notizia, soprattutto se si pensa all’enorme mole di informazioni sulla vita dei cittadini che vengono raccolte così dallo Stato totalitario come dal Welfare State. La diplomatica distingueva in base a criteri formali che poco avevano a che vedere con il contenuto dei documenti. Anche il diritto mira a dividere con una linea netta il privato dal pubblico, ma, data la complessità della società moderna, ci riesce sempre di meno. Le sue distinzioni non possono comunque soddisfare lo storico, il quale rompe i confini rigidi, trapassa da un territorio all’altro, è attratto dalle ambiguità e, nella ricostruzione dei contesti, non può porre aprioristicamente a se stesso invalicabili colonne d’Ercole. E’ questo il motivo per cui fra le norme di legge, anche le più accurate, e la prassi archivistica rimarrà sempre uno spazio in cui agisce la mediazione culturale e amministrativa degli interpreti, nel nostro caso gli archivisti in concorso con la consapevolezza metodologica degli storici. Si pensi ai rapporti sempre più stretti (o che almeno si auspica siano tali) fra storia politica, storia sociale, storia culturale, storia della mentalità e, per usare una parola di cui oggi molto si abusa, della “soggettività”: terreni tutti di simbiosi fra pubblico e privato.

2.3. Molti sistemi archivistici, e anche quello italiano, consentono a chi dona o lascia in eredità i propri archivi ad Archivi pubblici o privati di fissare delle condizioni e dei limiti cronologici per la loro apertura al pubblico. Sono condizioni e limiti che vanno accettati e rispettati, in nome di un ovvio primum vivere degli archivi stessi. Ad esempio, Maria Corti ha potuto dar vita all’Archivio degli scrittori di Pavia solo garantendo il rispetto della volontà dei donanti, dei depositanti e dei testatori. Lo stesso dicasi per l’Archivio diaristico nazionale fondato da Saverio Tutino a Pieve Santo Stefano e per l’Archivio della scrittura popolare di Rovereto.

2.4.I circa 180 chilometri lineari di documenti lasciati dalla Stasi della defunta ddr costituiscono un caso molto significativo. Attorno alla loro salvaguardia e alla loro utilizzazione si è svolto in Germania un dibattito di grande interesse per le molte implicazioni che ha e che vanno oltre la specificità del caso tedesco. Alla tesi della distruzione è stata opposta quella della conservazione, sottoponendo l’accesso a regole giuridicamente valide. Un esponente del movimento per i diritti civili, Joachim Gauck, si è battuto contro “la soluzione solo in apparenza opportuna […] di distruggere e dimenticare” e a favore di un confronto diretto con il recente passato. È anche notevole che venisse richiesto il divieto di accesso da parte dei servizi segreti ai documenti personali (Krüger, pp. 389-90). La discussione riprendeva temi già dibattuti a proposito dei documenti del regime nazista e del processo di denazificazione.

Quanto questo terreno sia difficile e irto di contraddizioni è mostrato dal fatto che i verdi, i quali a proposito delle leggi archivistiche generali si erano battuti a favore della massima pubblicità, quando si è trattato dei documenti della Stasi si sono schierati invece a fianco degli organi preposti alla tutela dei dati, fino a sostenere il diritto degli interessati alla cancellazione di quelli che li riguardano. Il presidente dellíAssociazione degli storici tedeschi, Wolfgang J. Mommsen, giustamente oppose che “l’interesse pubblico connesso allo studio della Stasi ha maggior peso rispetto al desiderio del singolo di vedere distrutti gli atti che lo riguardano”. La conclusione cui giunge Krüger é che nella legge del 20 dicembre 1991 sui documenti della Stasi si ripresenta una “nota aporia”, quella cioè che costituisce l’asse del nostro discorso. “Da un lato – egli scrive – si sottolinea l’esigenza di tutelare i diritti personali del singolo, dall’altro si vuole garantire e promuovere la “rivisitazione storica, politica e giuridica””, dove questa “rivisitazione” è da interpretare non tanto in senso penalistico quanto in quella che, con felice espressione, viene chiamata “liberazione delle coscienze” (p. 391).

3.L’Assemblea generale del Consiglio internazionale degli Archivi approvò a Pechino il 6 settembre 1996 un “Codice internazionale di deontologia degli archivisti”. Esso contiene affermazioni chiare nei principi e duttili, garbate e talvolta ovvie nel rinvio alle legislazioni e alle tradizioni nazionali dei singoli paesi. Faccio due esempi. Nell’ art. 6 si legge che “gli archivisti rispondono con cortesia, e con lo scopo di essere effettivamente utili, a tutte le richieste ragionevoli concernenti i documenti a loro affidati, e incoraggiano l’utilizzazione di questi nella massima misura possibile compatibilmente con le esigenze istituzionali, la salvaguardia dei documenti, i vincoli normativi, i diritti degli individui e gli accordi con i donatori. Essi spiegano ai richiedenti i motivi delle restrizioni e le applicano con equità”. E all’art.7: “Gli archivisti cercano il giusto equilibrio, nel quadro della legislazione in vigore, tra il diritto all’informazione e il rispetto della riservatezza”.

I codici di deontologia professionale previsti dal decreto 281/99 dovranno riguardare sia gli archivisti che gli utenti. Mentre i primi sono facilmente individuabili, non altrettanto può dirsi dei secondi. Non esiste, ed è bene che non esista, una corporazione o un “ordine” degli storici. Del resto, non tutti i professori di storia sono storici, né tutti gli storici sono professori di storia. Non ci si può nemmeno riferire alla categoria “studiosi”, sia perché questi sono a loro volta difficili da riconoscere come tali, sia perché tutti i cittadini hanno diritto di accesso agli archivi. Dire che è il fatto stesso di andare in archivio a qualificare un cittadino come studioso costituirebbe una mera petizione di principio.

La categoria cui riferire il codice non può pertanto essere che quella generale di “utenti”. Prive ovviamente di sanzioni penali, le regole che saranno fissate dal codice dovranno essere sottoscritte da coloro che chiedono di consultare i documenti. Saranno regole di buon comportamento che potranno avere solo sanzioni amministrative e morali, a cominciare da quella classica della esclusione dalle sale di studio. Alla lunga, potranno altresì avere un valore pedagogico. Anche le leggi più draconiane, per essere pienamente operanti, hanno bisogno di un costume ad esse corrispondente. Il codice deontologico, per avere efficacia, dovrà a maggior ragione diventare un fatto di costume. Gli utenti, e primi fra di essi gli storici, dovranno sentirsi investiti di adeguate responsabilità. Si può al riguardo ricordare il seminario sulla responsabilità dello storico contemporaneista svoltosi a Fiesole nell’aprile 1996 su iniziativa della Sissco, della rivista “Passato e Presente” e dell’Istituto universitario europeo.

4.Sul segreto di Stato ho già in parte risposto.

Posso aggiungere che la legge 801/77, che disciplina la materia, è priva di coordinamento con la legislazione sugli Archivi di Stato.

Il DPR del 1963, più volte citato, nel suo art. 21 pone a cinquanta anni il limite di accesso ai documenti “di carattere riservato relativi alla politica estera o interna dello Stato”: non dunque a tutti i documenti che non hanno superato quella data, come talvolta gli stessi ricercatori tendono a interpretare, ma solo a quelli che rientrano nella fattispecie indicata. L’emanazione del decreto 281 ha creato al riguardo una situazione paradossale. Come abbiamo visto, il termine per la libera consultabilità dei documenti relativi a situazioni puramente private di persone è stato abbassato, tranne le tre eccezioni ricordate, da settanta a quarant’anni. Il legislatore del 1963 aveva ritenuto che la tutela dei privati aveva bisogno di una tutela più lunga (settant’anni) di quella dei documenti riservati dello Stato. Ora le parti si sono invertite, e lo Stato (cinquant’anni) è più protetto dei privati (quarant’anni, tranne le tre eccezioni che restano a settant’anni).

Non resta quindi che sollecitare un intervento legislativo, che non poteva trovar posto nel decreto 281. Andranno ristabilite le proporzioni, portando a trenta anni, come è per la maggioranza dei paesi e per gli stessi archivi della Comunità europea, il limite oltre il quale deve esserci piena accessibilità ai pubblici archivi.

5.Sulla commisione consultiva ho già risposto. Colgo comunque l’occasione per ricordare quanto segue.

5.1.La legge fondamentale sugli archivi resta il DPR del 1963. Esso intitola l’art. 21 “Limiti alla consultabilità dei documenti” e il testo esordisce con le seguenti parole: “I documenti conservati negli Archivi di Stato sono liberamente consultabili ad eccezione di quelli…”, eccetera. La non consultabilità è dunque una eccezione alla norma generale, e come tale non può essere interpretata estensivamente.

5.2. Esiste un solo sistema, che io sappia, radicalmente alternativo a quello della concessione dei permessi per superare ad hominem l’eccezione che stabilisce la inconsultabilità di alcune tipologie di documenti. E’ il sistema americano della declassificazione, volta a volta e non secondo scadenze generali predeterminate, di intere serie di documenti. Prima della declassificazione, almeno in teoria, nessuno può vedere alcunché; dopo, tutti possono vedere tutto. E’ ovvio che questo sistema non ha bisogno di prevedere permessi ad hominem. I vantaggi e gli svantaggi sono evidenti. Ma non mi risulta che in Italia, come in altri paesi europei, si sia pensato di fare proprio il sistema vigente negli Stati Uniti.

5.3. Se vige il sistema dei permessi, non si può pensare, come oggi talvolta si pensa, ad estromettere la Pubblica Amministrazione, produttrice delle carte pubbliche, dalla procedura di concessione dei permessi. Si può soltanto limitare e condizionare il suo potere in merito, come appunto fa il decreto 281 e già aveva fatto il decreto Napolitano, istituendo la commissione consultiva. Analogamente, non sarebbe ammissibile negare ai privati il diritto di manifestare la propria volontà, anche in questo caso secondo predeterminate procedure, relativamente all’accesso alle proprie carte.

In linea di fatto, la estromissione piena della Pubblica Amministrazione dalla procedura per la concessione dei permessi avrebbe come conseguenza facilmente prevedibile una drastica riduzione dei versamenti di carte dai pubblici uffici agli Archivi di Stato, a cominciare dall’Archivio centrale. E’ bene che gli storici lamentino e denuncino le difficoltà e gli intoppi che incontrano nelle loro ricerche presso gli Archivi di Stato. Sarebbe ingenuo da parte loro credere che difficoltà e intoppi scomparirebbero quando essi dovessero bussare direttamente alle porte di ministeri, prefetture, questure, intendenze di finanza, provveditorati agli studi, e così via.

Opere citate.

Dieter Krüger, Storiografia e diritto alla riservatezza. La legislazione archivistica tedesca dal 1987, “Rassegna degli Archivi di Stato””, 57 (1997), nn. 2-3, pp. 371-98.

Roberto Santaniello, La privacy nella legislazione europea, in Ministero per i Beni e le attività culturali, Conferenza nazionale degli Archivi, Roma 1999, pp. 321-30. Tutta la IV sezione del volume è dedicata agli Archivi negati: il diritto all’accesso e la tutela della riservatezza. Il riferimento è a Sonia Combe, Archives interdites. Les peurs françaises face à l’histoire contemporaine, Albin Michel, Paris 1994.

Tutela della privacy, estratto da “Le nuove leggi civili commentate”, 22 (1999), nn. 2-3.

Carlo Vivoli, L’accesso agli archivi: a proposito di un recente convegno internazionale, in Provincia di Firenze, Democrazia in rete o “Grande Fratello?”, Atti del convegno, Firenze 27 novembre 1997, a cura di M. Borgioli e F. Klein, Olschki, Firenze 1999, pp. 29-38.