Seminario sulla tutela dei dati personali Archivio Centrale dello Stato Roma, 30 Novembre 1999
PRIVACY E RICERCA STORICA
Per comprendere la questione in tutti i suoi aspetti è necessario partire da alcuni punti della legge archivistica del 1963, la cui disciplina in tema di riservatezza si era rivelata, nel primo decennio di applicazione, particolarmente efficace e liberale.
L’art. 23 prevede che il versamento dei documenti da parte degli organi centrali e periferici dello Stato nei competenti Archivi di Stato sia effettuato 40 anni dopo l’esaurimento degli affari. Ove sussista il rischio di dispersione e danneggiamento, gli Archivi di Stato possono accogliere documenti di data più recente, prassi ñ quest’ultima – ampiamente seguita dall’Archivio centrale dello Stato. L’art. 21 stabilisce il principio fondamentale della libera consultabilità dei documenti conservati negli Archivi di Stato, salvo tre eccezioni che introducono un limite di 50 anni per i documenti riservati per motivi di politica interna ed estera, di 70 anni per i documenti riservati per motivi puramente privati di persone e per i processi penali. Per motivi di studio è possibile consultare i documenti riservati prima dello scadere dei termini, su autorizzazione del Ministero dell’interno, previo parere della Giunta superiore degli archivi, composta di archivisti, storici e funzionari amministrativi. Le richieste di autorizzazione sono inviate alla Giunta con il parere del direttore dell’Archivio di Stato, che individua le serie in cui possono trovarsi documenti la cui riservatezza risulti attuale al momento della richiesta di consultazione.
Quando nel 1975 l’amministrazione archivistica passò dal Ministero dell’interno al Ministero per i beni culturali, la competenza in materia di autorizzazioni per la consultazione dei documenti riservati rimase al Ministero dell’interno e fu attribuita esclusivamente al prefetto chiamato a dirigere il Servizio archivistico presso quel dicastero, non più coadiuvato – come in precedenza – dall’attività consultiva di un organo tecnico-scientifico, quale era la Giunta superiore degli archivi. Con una interpretazione estensiva delle norme del 1975, il Ministero dell’interno inserì un proprio funzionario in tutte le commissioni di sorveglianza, cui spetta tra la l’altro la cura dei versamenti, per individuare nella fase del versamento i documenti riservati, esautorando progressivamente il ruolo degli archivisti nella procedura di autorizzazione.
La legge 241/1990 sulla trasparenza del procedimento amministrativo disciplina il diritto all’accesso ai documenti della pubblica amministrazione, anteriormente dunque al loro versamento negli Archivi di Stato, per la tutela di diritti giuridicamente riconosciuti. Questa legge ha inciso sull’atteggiamento della burocrazia, inducendo una maggiore attenzione alle esigenze di informazione del cittadino e di controllo sull’attività della pubblica amministrazione. Allargando l’accesso ai documenti relativi agli affari in corso – sia pur limitato ai diretti interessati – si è sviluppata una controtendenza volta a salvaguardare in maniera più incisiva la riservatezza delle persone, peraltro già delineatasi in precedenza per i seri rischi di violazione della riservatezza, densi di connotazioni antidemocratiche, connessi agli sviluppi dell’automazione e alla creazione di banche dati.
L’esigenza di una normativa in merito è stata messa in evidenza dagli organismi europei fin dalla fine degli anni Sessanta e ha avuto una svolta decisiva con la convenzione del Consiglio d’Europa, n. 108, del 1981, sviluppandosi successivamente in una serie di raccomandazioni e di interventi dell’Unione europea, fino all’emanazione di leggi nazionali. L’Italia ha approvato la normativa sui dati personali solo sotto la pressione del vincolante accordo di Schengen del 26 marzo 1995. Di qui la legge 675/1996 sulla tutela generale dei dati personali e quella 676/1996 che rinviava a un successivo decreto legislativo per la tutela dei dati personali nell’ambito della ricerca storica, della statistica e della ricerca scientifica.
La legge. 675/1996 definisce all’art. 22 i dati sensibili (“i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni di carattere religioso, politico o sindacale, nonché i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, che possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del garante”) e disciplina il trattamento dei dati nell’ambito dell’attività quotidiana di istituzioni ed enti pubblici e privati. Questa legge, attentissima ai diritti dei cittadini, ha creato obblighi molto pesanti per gli uffici e problemi inevitabili di interpretazione, mentre non affronta la tutela degli interessi della collettività. Basti pensare – per restare al tema che qui interessa – che all’art. 16 prevedeva, salvo il caso di analoghi usi amministrativi, la distruzione dei dati personali, cioè la distruzione dei documenti e quindi della memoria storica del Paese.
Pur non disciplinando la tutela dei dati nell’ambito della ricerca storica, aveva indotto, di fatto, un atteggiamento particolarmente restrittivo nella concessione delle autorizzazioni da parte del Ministero dell’interno.
E’ in questo contesto veramente preoccupante per le sorti della ricerca storica che vanno considerati i decreti legislativi 135/1999 e 281/1999.
Nel frattempo, tuttavia, l’Amministrazione archivistica ñ che fino ad allora non si era molto impegnata per riacquistare il riconoscimento formale di responsabilità che, in ogni caso, gravano sui suoi Istituti ñ assume due importanti iniziative. L’Archivio centrale dello Stato si impegna a sensibilizzare il proprio ministro e il ministro dell’interno sull’opportunità di ripristinare il parere di un organo collegiale e di restituire un ruolo attivo agli archivisti nella procedura delle autorizzazioni. L’Ufficio centrale per i beni archivistici organizza, su iniziativa del sottosegretario ai beni culturali La Volpe, la prima Conferenza nazionale sugli archivi che dedicava una sezione al tema della consultabilità dei documenti, preceduta da una serie di incontri con tutte le componenti interessate e, quindi, per la prima volta anche con un rappresentante del Garante dei dati personali.
Il ministro dell’interno comprese immediatamente il senso delle preoccupazioni avanzate dall’amministrazione archivistica e da alcuni storici circa le sorti della ricerca, e riconoscendo l’opportunità di coinvolgere anche gli archivisti e gli storici nella procedura relativa alle autorizzazioni per la consultazione dei documenti riservati, ha istituito con dm 2 luglio 1998 una Commissione consultiva per le questioni relative ai documenti riservati composta dal prefetto responsabile del Servizio archivistico del Ministero dell’interno, da un rappresentante del Garante dei dati personali, da un rappresentante della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi presso la Presidenza del consiglio, da un rappresentante dell’amministrazione archivistica del Ministero per i beni culturali, da uno storico contemporaneista designato dal Ministero per i beni culturali. La Commissione ha cominciato a funzionare nel settembre dello scorso anno e ha valutato con equilibrio e liberalità tutte le richieste pervenute.
Il decreto 135/1999 definisce i “principi generali in materia di trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici” e individua “alcune rilevanti finalità di interesse pubblico” per il cui conseguimento è consentito tale trattamento, senza il consenso degli interessati. L’art. 23 dispone che “si considerino di rilevante interesse pubblico i trattamenti di dati a fini storici, di studio, di ricerca e di documentazione concernenti la conservazione, l’ordinamento e la comunicazione dei documenti conservati negli Archivi di Stato e negli Archivi storici degli enti pubblici”. Si delinea dunque la distinzione tra la comunicazione dei dati, che è un compito istituzionale degli archivisti, e la diffusione degli stessi da parte degli utenti, che può avere sviluppi rilevanti per la ricerca storica.
Il decreto legislativo 281/1999 ha lo scopo di introdurre quei principi e criteri di intervento atti a salvaguardare, nel rispetto del diritto delle persone alla loro riservatezza, la ricerca storica e ogni attività di documentazione su eventi del passato, la statistica e la ricerca scientifica.
Limitando l’attenzione agli scopi storici e di documentazione, occorre soffermarsi brevemente sui punti innovativi o comunque rilevanti del nuovo provvedimento.
In primo luogo il decreto integra l’art. 16 della legge 675/1996 con un comma che prevede la conservazione dei dati personali per scopi storici, di ricerca scientifica e di statistica, ripristinando cioè la salvaguardia fisica delle fonti archivistiche.
Nulla è innovato circa il limite di 50 anni per i documenti riservati per motivi di politica interna ed estera, termine tra i più brevi se si considera che il limite di 30 anni presente in molte leggi di altri paesi si riferisce ai documenti ordinari e non ai documenti riservati, per i quali sono previsti termini più lunghi e spesso incerti. Il nuovo provvedimento modifica invece la disciplina della riservatezza per motivi personali e sopprime finalmente il termine di 70 anni per i processi penali. Il già esistente termine di 70 anni della riservatezza per motivi personali viene limitato ai dati idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare, mentre viene introdotto un termine di 40 anni per gli altri dati sensibili. Questo termine di 40 anni si pone come un fatto nuovo e formalmente restrittivo rispetto alla normativa precedente (sebbene già esistessero interpretazioni della legge archivistica del 1963 in tal senso, peraltro mai accolte nella prassi), ma costituisce nello stesso tempo un criterio di maggiore chiarezza interpretativa. Noi archivisti avevamo chiesto di portare a 30 anni questo termine, essendo intenzionati a chiedere, in altra sede, la riduzione a 30 anni del termine per i versamenti.
L’individuazione di documenti riservati significa che la loro consultazione non è libera, ma può essere autorizzata: l’individuazione di documenti riservati e di procedure più o meno complicate per le autorizzazioni esiste nella legislazione archivistica di tutti i paesi democratici, ivi compresi gli Stati Uniti, il cui Freedom of Information Act prevede ben nove categorie di documenti riservati, per le quali peraltro non è previsto l’istituto dell’autorizzazione alla consultazione.
E’ un’innovazione positiva l’estensione della disciplina sui dati personali agli archivi privati, anche se non dichiarati di notevole interesse storico, per la quale tuttavia è opportuna un’attenta riflessione sulle procedure, dal momento che tale disciplina viene a scontrarsi con il diritto alla libera disponibilità di un bene patrimoniale quale è, in sostanza, l’archivio.
E’ di fondamentale importanza il fatto che il provvedimento abbia recepito l’istituzione della Commissione consultiva, la cui rilevanza è stata confermata dagli attuali vertici del Ministero dell’interno in sede di discussioni propedeutiche all’elaborazione del testo legislativo alle quali hanno partecipato attivamente anche gli archivisti di Stato, sostenuti dall’Ufficio legislativo del Ministero per i beni culturali
La Commissione è importante perché consente di confrontare le diverse norme che convergono sul tema dell’accesso ai documenti dell’amministrazione e a quelli conservati negli Archivi di Stato e sulla tutela dei dati personali, di semplificare le procedure e di uniformare i criteri su tutto il territorio nazionale. Consente soprattutto di definire delle linee di comportamento per tutte le istituzioni che, pur conservando archivi storici, non dispongono di archivisti specializzati e quindi, per timore di sbagliare, negano senza ragione l’accesso o, per ignoranza delle leggi, non praticano alcuna tutela della privacy.
Anche per quanto attiene alla notifica, la concentrazione delle richieste nella Commissione, di cui fa parte un rappresentante del Garante, risolve la questione senza ulteriori difficoltà per il ricercatore.
E’ un fatto nuovo, e sicuramente denso di inquietanti incognite, il diritto al blocco dei dati da parte della persona che si senta lesa dalla diffusione di notizie che la riguardano. Questa disposizione – che può coinvolgere gli interessi degli editori – chiama in causa l’etica professionale del ricercatore. La quantità di documenti contenenti dati personali che possono ledere la dignità delle persone è notevole e il rischio è alto ove l’uso dei documenti riservati non sia sorretto da un’attenta analisi critica e diplomatica delle fonti volta a verificare la veridicità dei fatti e dalla sensibilità di citare i nomi delle persone solo quando sia veramente essenziale e pertinente al tema della ricerca.
Il problema è forte e delicato soprattutto in relazione a certe tipologie di documenti del Ministero dell’interno. Va rilevato che, salvo una percentuale minima di ricerche relative esclusivamente agli atti dello stato civile, tutte le richieste di autorizzazione pervenute alla Commissione consultiva riguardano documenti del Ministero dell’interno, delle prefetture e delle questure. Di qui l’opportunità di una stretta collaborazione con quel dicastero per una corretta gestione della riservatezza che favorisca la ricerca storica e, nel contempo, garantisca il regolare flusso dei versamenti delle serie più importanti, tenendo presente che un ordinamento interno consente di applicare termini più lunghi dei 40 anni previsti per il versamento.
Due punti essenziali della nuova legge sono quello che prevede che i dati personali possono essere diffusi solo se essenziali e pertinenti alla ricerca e l’obbligo di concedere l’autorizzazione a consultare documenti riservati a chiunque la richieda, “a parità di condizioni”. Questa disposizione, che statistici e ricercatori scientifici vorrebbero giustamente estesa ai loro settori, pone l’accento appunto sulla parità di condizioni e quindi coinvolge anche la figura professionale dell’utente, comportando altresì l’esigenza di una chiara definizione del progetto di ricerca (come già avviene in altri paesi), dal momento che i documenti per i quali sia stata autorizzata la consultazione conservano il loro carattere riservato e non possono essere diffusi liberamente.
Se dunque vogliamo favorire la ricerca storica, dobbiamo ñ in collaborazione con gli storici ñ tentare di definire la qualificazione professionale di chi fa ricerca storica rispetto alla categoria più generale dell’utente interessato a documentarsi per qualsiasi ragione su fatti del passato, e di individuare le modalità di presentazione del progetto di ricerca.
Questi due punti delicati vanno a collegarsi con il codice deontologico. Il punto sostanzialmente innovativo del provvedimento è, infatti, il codice deontologico per gli archivisti e per i ricercatori. Esiste una consolidata tradizione di cautele messe in atto dagli archivisti per salvaguardare la riservatezza delle persone senza pregiudicare la ricerca [si pensi alla ricerca storica sul fascismo e sugli anni della ricostruzione sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta], ma la nuova normativa può aprire spazi più ampi alla ricerca, chiamando esplicitamente in causa l’etica professionale dei ricercatori. Fondamentale a tal fine sarà la sottoscrizione personale del codice, la cui accettazione è condizione indispensabile per l’ammissione alla consultazione. Esso comporta infatti l’assunzione di precisi impegni e responsabilità penali e civili, cosa che indurrà certamente una revisione della prassi sviluppatasi in anni recenti di mandare terzi a far ricerca in archivio.
Si tratta, in sostanza, della presa d’atto dell’esigenza di far prevalere una motivazione etica sul semplice dettato delle norme giuridiche che, da sole, non offrono sufficienti garanzie [vedi ad esempio la IV edizione di Ethicomp, la Conferenza internazionale sull’impatto sociale ed etico delle tecnologie per la comunicazione e l’informazione tenutasi a Roma tra il 5 e l’8 ottobre scorso].
La motivazione etica coinvolge sicuramente gli archivisti, i quali nel Congresso internazionale di Pechino del 1996 hanno già individuato le linee guida circa le loro responsabilità nella mediazione necessaria per favorire la ricerca storica e salvaguardare il diritto alla riservatezza delle persone [garantire la “costante accessibilità e intellegibilità dei documenti”, promuovere il “massimo possibile accesso agli archivi” e soprattutto “cercare il giusto equilibrio, nel quadro della legislazione in vigore, tra il diritto all’informazione e il rispetto della riservatezzaÖsenza distruzione di informazioni”]. La motivazione etica coinvolge anche, e questo è il fatto nuovo, i ricercatori. Ne deriva l’opportunità di far conoscere ai giovani ricercatori la normativa in vigore, ma anche di sviluppare il dibattito intorno alle responsabilità ñ morale, scientifica, giuridica e politica ñ degli storici contemporaneisti, come emerso dal convegno di Fiesole del 1995, organizzato dalla Sisco. Archivisti e storici, dunque, sono legati da responsabilità distinte ma comuni.
E’ da verificare, infine, se l’elencazione puntuale dei dati riservati sia preferibile a criteri meno rigidi ma più aderenti al mutare della sensibilità rispetto al contesto politico e culturale della società. Sta di fatto che ora, con la nuova normativa sui dati sensibili, non è più chiaro a quali disposizioni ci si debba riferire per tutelare la reputazione e l’onorabilità delle persone qualsiasi o di coloro che svolgono attività pubbliche, anche se ovviamente si considera affievolito il diritto alla riservatezza delle personalità politiche e dei funzionari pubblici quando si tratti di attività inerenti le loro funzioni. La questione ancora una volta investe specialmente i documenti del Ministero dell’interno e dei suoi organi periferici e anche quelli delle Procure. Così come è difficile capire quale tutela si possa applicare per eventuali ricerche che indaghino sulla situazione patrimoniale delle persone, specie se disagiata o debitoria, e in ogni caso quando non risultino da atti pubblici sin dall’origine. Forse può soccorrere il diritto all’immagine o la tutela contro il reato di diffamazione.
In ogni caso va rilevato che in tema di riservatezza è non solo inevitabile ma anzi auspicabile un certo margine di discrezionalità: è impossibile, infatti, prevedere tutta la casistica delle situazioni. Per un equilibrato contemperamento del diritto alla ricerca con il diritto delle persone alla riservatezza, l’eccesso di prescrizioni può risultare meno efficace e meno liberale del consolidarsi di una prassi interpretativa improntata a un nuovo spirito di collaborazione tra ricercatori e archivisti.
Entriamo sicuramente in una fase nuova che richiede l’immediata approvazione del codice deontologico (al quale stiamo lavorando, tenendoci in contatto con le associazioni delle scienze sociali, degli statistici e dei ricercatori scientifici, in attesa di un puntuale confronto con gli storici) e un inevitabile periodo di rodaggio, semplificato tuttavia per la ricerca storica dall’esperienza maturata nel corso dell’ultimo anno attraverso la costante attività della Commissione consultiva.
Paola Carucci
Sovrintendente all’Archivio centrale dello Stato