Luciano Regolo
Simonelli Editore, III ed. gennaio 2002, pp. 376-380
[…] Maria Beatrice e Luis Reyna Corvalàn, nel ’91, dopo una visita a Merlinge, invitano l’ex sovrana in Messico, a Villa Lupo, la nuova casa di Cuernavaca, in cui, nel frattempo, si sono trasferiti lasciando Buenos Aires.
Il clima e l’energia messicana operano in men che non si dica un piccolo prodigio: la donna stanca che ha lasciato la Svizzera viene del tutto soppiantata da una Maria José che sembra aver riacquistato l’ironia, la curiosità, la forza e l’amore per la vita. L’illustre signora rimane talmente incantata da quella terra da dare disposizioni per l’acquisto di una casa a Cuernavaca: da quella che doveva essere una semplice vacanza nasce, quindi l’idea di trasferirsi in Messico.
È laggiù che si dipana finalmente la vicenda degli archivi di Casa Savoia, lasciati dal re di maggio con legato testamentario del 24 luglio 1982 allo Stato Italiano [324], e consegnati soltanto dopo dieci anni dalla sua morte.
Il fondo archivistico oggetto del legato comprende tutti i documenti conservati a Cascais dal re di maggio. Alcuni, gli scritti ottocenteschi ritenuti “imbarazzanti” per l’immagine della Corona, fra le proteste degli storici, nel 1983, furono sottratti all’Archivio di Stato di Torino da tre funzionari soprannominati “i tre baroni” e nascosti nella Biblioteca Reale torinese. Successivamente, salito al trono Vittorio Emanuele III, vennero condotti a Roma, al Quirinale. Queste carte insieme a quelle più recenti, relative al ventennio fascista, il 9 maggio del ’46 seguirono il re nell’esilio di Alessandria d’Egitto. Nel gennaio del ’48, ormai defunto Vittorio Emanuele III, furono infine trasportate in Portogallo, presso la dimora di Umberto che, per 35 lunghi anni, le custodì insieme agli scritti della luogotenenza, del regno di maggio e del referendum. Di qui il grande interesse dei media, degli storici e delle autorità italiane per un archivio che sembrava in grado di chiarire le pagine più oscure della storia della monarchia.
Non è questa la sede più opportuna per ricostruire la complessa vicenda delle carte sabaude. Basti qui ricordare che il principe Vittorio Emanuele, considerata la sua nuova responsabilità di Capo della dinastia, volle che qualcuno della famiglia, prima di ogni altro, si accertasse del contenuto di quegli scritti. Probabilmente il principe di Napoli fu anche spinto a un atteggiamento attendista a causa dei dinieghi della Repubblica riguardo alle richieste di sepoltura del padre e del nonno al Pantheon e per la rimozione della disposizione che vieta a lui e al figlio l’ingresso in Italia. In ogni caso, non ha mai dimostrato un interesse personale all’acquisizione delle carte, di cui si occuperà personalmente, dall’84 al ’93 Maria Gabriella. La principessa spiegherà di aver preso tempo soltanto per fotocopiare e microfilmare tutto il materiale a beneficio di una fondazione storica che porta il nome dei genitori, di cui è presidente.
C’è da dire poi che le stesse autorità dimostrarono a lungo un certo disinteresse per la questione. Isabella Massabò Ricci, direttrice dell’Archivio di Stato di Torino, destinatario del legato, invece, continuò a premere per la consegna dei documenti. A un certo punto si rivolge alla regina Maria José che decide d’intervenire personalmente perché sia data esecuzione alla volontà del marito.
A gennaio del ’93 arriva a Cuernavaca una lettera di Maria Gabriella: sta per mandare tutti i documenti in Italia. Un mese dopo, l’11 febbraio 1993, fra i grandi clamori dei media, il direttore generale ai beni archivistici, Salvatore Mastruzzi, e Isabella Massabò Ricci, ricevono la principessa, presso l’ambasciata Onu di Ginevra, tredici scatoloni ricolmi di migliaia di documenti di Casa Savoia.
Ma le “cartelle” (o fascicoli) consegnate dalla principessa sono appena 88, contro le 217 enumerate nel verbale sommario sottoscritto dai sei “saggi” nominati da Umberto II che esaminarono l’archivio a Villa Italia il 21 maggio 1983 [325]. Ne mancano 129 e impazza la polemica, soprattutto perché, tra gli scritti arrivati, non ci sono quelli più attesi, relativi al Novecento. Del XX secolo non restano che un inedito “Diario di guerra” (1915-18) dattiloscritto dal colonnello Francesco Avogadro degli Azzoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, e un elenco delle cariche di stato vergate a mano dallo stesso re.
Il Ministro ai Beni Culturali, questa volta, fa la voce grossa e, fin dall’inizio, minaccia una causa contro gli eredi Savoia che ritiene responsabili della sparizione. Storica e ricercatrice di rigore, nel frattempo, la regina, il 24 aprile 1993, ha spedito un fax al ministro Ronchey per chiarire la sua posizione: Dichiaro di considerare pienamente efficace il legato di Umberto II al favore dell’Archivio di Stato di Torino. Solo in tal modo ritengo adempiuta la volontà del defunto sovrano…
Nel settembre del ’93, Maria José riceve a Cuernavaca il direttore generale Mastruzzi che la mette al corrente del suo proposito: investire della controversia l’Avvocatura di Stato.
Per amore della cultura e dell’equità, per lealtà con i suoi princìpi, Maria José, che, del tutto incolpevole, ha sempre tentato di far rispettare il testamento del marito, è disposta ad essere trascinata in giudizio. Maria Gabriella, però, cambia di nuovo idea. Il 9 novembre 1993, infatti, arrivano all’Archivio di Stato di Torino altri quattordici scatoloni. Contengono scritti risorgimentali relativi a Mazzini e alla Giovane Italia, ai rapporti fra i Savoia e il papato e altri documenti.
La seconda consegna chiude finalmente l’annosa odissea delle carte di Casa Savoia, segnando, in qualche modo, la vittoria morale dell’ex regina e della direttrice dell’Archivio di Stato di Torino, Isabella Massabò Ricci, le due donne che, ciascuna nei rispettivi ambiti, per dieci lunghi anni, si sono battute per ottenere il rispetto del legato.
Resta senza soluzione, invece, il “giallo” degli scritti novecenteschi. Dalle “nuove” cartelle, infatti, non emerge nulla di più che un Diario della Casa di Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte, dattiloscritto dai suoi aiutanti di campo tra il ’43 e il ’44 (e poi di nuovo presente dal ’59 al ’63), alcune carte topografiche e rapporti dello Stato Maggiore sulla situazione dell’esercito italiano nel ’41-’42 e un’interessante raccolta di ritagli di giornali, partecipazioni, lettere di personalità illustri [326] o di gente comune, volantini monarchici, cataloghi di mostre e quant’altro, archiviato con zelo dal re di maggio, di cui però non rimane neppure una parola autografa.
Mancano i diari di Vittorio Emanuele III e tutti gli altri scritti del Novecento. Qualcuno li fece sparire da Cascais, ancora prima dell’arrivo a Villa Italia degli esecutori testamentari e dei “saggi”.
Due dei superstiti della vecchia commissione esaminatrice, Aimone di Seyssel e Niccolò di Suni, mediatori in occasione dell’ultima consegna, hanno fornito ai rappresentanti dell’amministrazione archivistica la medesima testimonianza: Quando arrivammo a Villa Italia i contenitori relativi al periodo della Luogotenenza e del regno di maggio erano vuoti, quelli del regno di Vittorio Emanuele III, invece, non c’erano affatto.
Testimonianza che del resto collima con quanto scritto nel verbale del 21 maggio 1983, da cui risulta che: era pressoché inesistente la documentazione riguardante il regno di Vittorio Emanuele III, la luogotenenza, il regno e l’esilio di Umberto II. Fu cercata dappertutto: nella mansarda, nelle cantine, nei servizi e perfino nella camera da letto di Sua Maestà, ma senza esito. Dove sono finiti, dunque, gli scritti sabaudi del Novecento? Secondo alcuni, i più recenti, sarebbero stati bruciati da Umberto, colto da un improbabile “raptus” catartico. Altri, quelli del “re soldato”, avrebbero subito la stessa sorte, ma per mano di Jolanda di Savoia. Diversa, invece, la spiegazione che circola negli ambienti monarchici: l’ultimo sovrano avrebbe affidato i documenti più importanti ai monaci dell’abbazia di Altacomba o ad altri insospettabili custodi, che dovrebbero tirarli fuori fra qualche decennio. Secondo tale versione una copia del diario di Vittorio Emanuele III, invece, sarebbe stata depositata in una banca romana dai conti Calvi di Bergolo, eredi di Jolanda di Savoia.
Ma l’ipotesi più realistica circa il mistero della sparizione dei carteggi novecenteschi resta quella di una sottrazione indebita da Villa Italia, anche perché non mancano solo alcuni documenti, ma l’intero corpus relativo al XX secolo. È difficile immaginare che un sovrano così scrupoloso, nel ricomporre l’integrità dell’archivio dinastico, da destinare il fondo, di cui era in possesso, a Torino perché lì si trovavano tutti gli scritti dei suoi antenati, abbia poi voluto deliberatamente privare l’Italia e, di conseguenza, la memoria della sua famiglia, di un’intera pagina di storia.
Soprattutto, se fosse stato sicuro che gli scritti più compromettenti erano stati tolti di mezzo, perché mai avrebbe dovuto incaricare la commissione di studiare il materiale per stabilire quali documenti potessero ritenersi immediatamente consultabili e quali, invece, dovessero rispettare l’intervallo dei settanta anni dalla morte dei diretti interessati, previsti dalla legge archivistica?
Ecco quanto a dichiarato in proposito la professoressa Emilia Morelli, anche lei componente della commissione di saggi: L’archivio conservato da Umberto II ha subìto sottrazioni numerose e ripetute, subito dopo la morte del re e nei dieci anni successivi.
Maria José, a suo tempo, ha aggiunto: Può darsi che Umberto stesso abbia dato disposizioni perché fossero tolti dai fascicoli e distrutte oppure occultate certe carte ritenute “ingombranti”, ma è comunque da escludere che dal fondo fosse assente un intero secolo… Del diario di Vittorio Emanuele III non so assolutamente nulla, non l’ho mai consultato. Ricordo che, alla morte di mio suocero, venne affidato alla contessa Jolanda Calvi di Bergolo [327].
Chi ha fatto sparire le lettere di (o a) Mussolini, i carteggi con i capi di stato stranieri e altre importanti testimonianze indispensabili per ricostruire il rapporto fra Corona e fascismo?
Con ogni probabilità si tratta di un mistero destinato a rimanere tale per sempre. Fatto sta che all’arrivo dei saggi a Cascais nell’83, l’aiutante di campo Scoppola, più volte – lo ricorda bene la professoressa Morelli – esternò la sua grande inquietudine per certe lettere risalenti al ’41, di cui lo stesso sovrano gli aveva fatto prendere visione e che erano regolarmente al loro posto fino al momento della partenza di Umberto per la London Clinic.
L’arrivo della seconda tranche di documenti a Torino, d’altra parte, ha chiuso ufficialmente la controversia tra lo Stato e gli eredi di Umberto II. Lo prevede un codicillo, sottoscritto dal direttore generale ai beni archivistici, che Maria Gabriella ha fatto aggiungere all’ultimo verbale di consegna, a conclusione della tardiva esecuzione del legato testamentario.
Stanca di polemiche, l’ex sovrana, non ha più voluto riaprire il discorso sulla vicenda degli archivi. […]
NOTE 324- Il legato venne regolarmente accettato dallo Stato italiano con decreto presidenziale del 24 settembre 1984. L’Italia rinunciò invece alla tela della Madonna del Beato Amedeo che, in base alla volontà di Umberto, avrebbe dovuto trovare collocazione nel Palazzo Reale di Torino. 325- Della commissione dei saggi facevano parte i nobili Aimone di Seyssel, Niccolò Pasolini dell’Onda, Niccolò Di Suni della Planargia, Luigi Sella e due rappresentanti dell’amministrazione archivistica: il compianto professor Vincenzo Gallinari, all’epoca vice-direttore generale ai beni archivistici e la professoressa Emilia Morelli, presidente degli Istituti Storici del Risorgimento. 326- Si tratta di parti dei carteggi che, in base al verbale del 21 maggio ’83, furono rinvenuti a sorpresa in un armadio. Fra questi vi erano anche lettere scritte dal re di maggio ai congiunti, al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero e ad amici. Perfino per questi scritti privati allora si convenne che a giudizio dei familiari fossero eventualmente aggiunti al resto dell’archivio per lumeggiare la figura del sovrano negli anni dell’esilio. Invece se n’è persa traccia. 327- Quasi sicuramente ne custodiva una copia a Cascais, consultata da storici come Rosario Romeo o Giovanni Artieri, ma anche questa non fu trovata. In ogni caso, nell’84, gli eredi Savoia, dopo gli accordi di Merlinge scrivono al cugino Pierfrancesco Calvi di Bergolo, primogenito di Jolanda riconoscendo la proprietà della sua famiglia sul diario scomparso: Caro Pierfrancesco, in occasione della stipula del nuovo documento che definisce (riteniamo con soddisfazione di tutti) passate incomprensioni, ti confermiamo gli accordi fra noi intercorsi circa il riconoscimento della proprietà della tua famiglia del Diario di Vittorio Emanuele III. purtroppo, come sai, sembra certo che tale documento sia andato distrutto, ma qualora fosse rinvenuto (in originale o in copia) sarà nostra cura fartelo riavere. Con i nostri migliori saluti… Seguono le firme di Vittorio, Pia, Ella e Titti. Secondo quanto riferito da Rosa Perona Gallotti e da Ludovica Calvi, la regina Elena, alla morte del marito avrebbe voluto pubblicare il diario. Ma Umberto si oppose: “Vuoi forse rovinarmi?”. La madre, tuttavia, si rifiutò di consegnargli il manoscritto che affidò a Jolanda. Probabilmente Umberto riuscì ad ottenerne una copia.