Giorgio Rumi se ne è andato in punta di piedi, con grande discrezione, con lo stile che gli era proprio. Il vuoto che lascia non è solo culturale: è anzitutto la sua umanità che rimpiangono acutamente i suoi allievi e molti con loro. Chi ha collaborato con lui conosce il suo rispetto per le posizioni altrui e per approcci anche divergenti. Negli ultimi mesi, consapevole della sua grave malattia, ha dedicato molto del suo tempo (sempre più breve) e delle sue residue energie (sempre più preziose) a favore di coloro verso cui si sentiva responsabile: non voleva che la sua morte “danneggiasse” nessuno, in particolare le persone più giovani e in collocazioni precarie. Questa capacità di guardare oltre i limiti della propria esistenza, questo voler aiutare chi sarebbe vissuto dopo di lui è espressivo di una generosità discreta, ma radicata in motivazioni profonde. Dietro il suo riferimento continuo al mondo “perduto” dell’aristocrazia, quasi un vezzo dietro cui si talvolta nascondeva, si mischiavano la fiducia del credente e un senso laico delle responsabilità etiche.
La sua umanità, le sue inclinazioni, i suoi orientamenti si sono intrecciate strettamente con i suoi interessi scientifici e il suo percorso di ricerca. Laureato in Università Cattolica, è stato allievo di Ettore Passerin d’Entreves, con cui condivideva origini aristocratiche e nostalgie cattolico-liberali. Con qualche dispiacere, egli ricordava che non gli era stato possibile continuare i suoi studi nell’Ateneo dove era stato studente e tra gli studiosi cattolici di storia contemporanea si è trovato talvolta isolato. Anche nelle università dove ha insegnato, non è stato sempre apprezzato, anche se negli ultimi anni ha goduto – nell’Università di Milano – di stima, simpatia e affetto. E’ stato forse troppo liberale per essere amato da un certo mondo cattolico e troppo guelfo per essere accettato pienamente dai laici.
E’ noto che l’aristocrazia risorgimentale, milanese e lombardo, fedele al papa e, insieme, sinceramene patriottica ha rappresentato uno dei suoi temi preferiti. Collocandola nell’ottica del lungo periodo, ha capito e interpretato, con finezza e indulgenza, la versione intransigente del cattolicesimo lombardo, attivo e laborioso, ma in questa tradizione non si riconosceva pienamente. Nel tempo, il conciliatorismo ottocentesco dei “suoi” lombardi è diventato per lui una chiave anche per capire e giudicare il tempo presente. Come loro, cercava di avere un senso forte dell’istituzione ecclesiastica, raro anche tra i cattolici, e un senso alto dello Stato, non frequente neppure tra i laici. Rumi si riconosceva nella definizione di moderato, ma capiva i “comunisti” e non era un conservatore, come molti lo hanno accusato di essere ed altri avrebbero voluto che fosse. Il suo moderatismo, peraltro, non aveva nulla a che fare con il clerico-fascismo, il filo-fascismo o il post-fascismo, anche se non amava la retorica antifascista ed era refrattario alle posizioni ideologiche.
Ha indagato ampiamente sulla storia della Lombardia, non però da studioso di provincia, ma interpretandola come un crocevia importante della vicenda europea. Le sue conoscenze di questa storia risalivano indietro nel tempo, alla ricerca delle radici antiche della vocazione internazionale di questa terra. Ma lo interessava in particolare il periodo austriaco e, definendosi ironicamente “austriacante”, confessava la contraddizione di sentirsi attratto da quel grande mondo mitteleuropeo, benché convinto della positività del Risorgimento e dell’ Unità italiana. Pur comprendendo quella che egli chiamava questione settentrionale, era lontano da rozzi sensi di superiorità verso i meridionali. Amava Milano e le sue istituzioni, soffriva se l’una o le altre non si accorgevano di lui e lo trascuravano, negli ultimi anni è stata una delle poche voci capaci di interpretare i malesseri e le contraddizioni della “capitale morale”. Ma non era tenero con il suo mondo lombardo e in particolare con Milano, cui rimproverava di non aver mai saputo o voluto oltrepassare confini cittadini o regionali, assumersi responsabilità più ampie, esprimere una classe dirigente davvero nazionale, per una sorta di dedizione ossessiva agli “affari”.
Forse il capitolo più singolare della sua parabola è stato quello dell’incarico di consigliere della RAI. Lo ha accettato, malgrado fosse molto lontano dal mondo televisivo, convinto che la RAI dovesse svolgere pienamente la sua funzione di servizio pubblico. Ciò che più lo ha colpito negativamente di questa esperienza è stata la logica di partito che ispirava gran parte dei dibattiti e delle decisioni cui egli era chiamato a partecipare. Malgrado i molti “avvisi” ricevuti da coloro che ne avevano sostenuto la nomina, non ha mai seguito le istruzioni che gli venivano dal “principe”, come egli diceva alludendo ai poteri esterni che dominavano l’azienda. Rumi ha deluso i suoi sponsor: a causa dell’indipendenza mostrata nel servire l’interesse pubblico, la carica di consigliere di amministrazione della RAI non è stata per lui premessa di ulteriori prestigiosi incarichi.
Finita in anticipo questa esperienza, è tornato senza rimpianti agli studi e all’università. Qui, sorpreso dalla malattia, non si è sottratto alla “cognizione” della sua malattia come di un “disastro irrimediabile”, ma l’ ha guardata con l’ironia di sempre : “fai, fai, e d’ improvviso ti dicono mi spiace, è finita”. Queste parole, di una sua intervista di poche settimane fa, si riferivano ad altri, ma forse Rumi, pronunziandole, pensava a sé.
Agostino Giovagnoli