intervista a paolo prodi presidente della giunta storica nazionale
di Ilaria Porciani
La Sissco è particolarmente interessata ai problemi dell’organizzazione degli studi storici a cui ha dedicato numerosi interventi. Su questo tema contiamo di tornare ancora, in uno dei prossimi numeri, con una prospettiva comparatistica che ci consenta di mettere meglio a fuoco specificità ed elementi di forza e di debolezza del sistema italiano e gli esiti più recenti anche nel nostro paese di una contrazione delle risorse che per l’area storica e più in generale umanistica appare davvero notevole e largamente generalizzata. La recente riforma della Giunta storica nazionale, la preoccupata attenzione all’esiguità delle risorse per la ricerca, il commissariamento del Cnr che in passato aveva garantito il finanziamento a numerose iniziative, e infine, su un altro piano, la fine della fase preparatoria del Congresso storico internazionale di Sidney del 2005 ci hanno suggerito di avviare però immediatamente una riflessione su questi temi.
Abbiamo quindi rivolto alcune domande a Paolo Prodi, dal 2001 presidente della Giunta storica nazionale, l’organismo che con questa nuova denominazione prosegue l’attività della Giunta centrale per gli studi storici.
Come si ricorderà questa aveva raccolto l’eredità dell’Istituto storico italiano sorto nel 1883 per coordinare l’attività delle deputazioni e società di storia patria e governato da un consiglio in parte emanazione di queste istituzioni regionali e in parte nominato dal Ministero della pubblica istruzione. La Giunta sorse nel 1934 su sollecitazione di esigenze internazionali: la costituzione di un comitato internazionale di scienze storiche – che aveva portato, nel 1928, alla costituzione di un comitato italiano del quale facevano parte Volpe e Calisse, De Sanctis, Ussari e Fedele – e il rilancio dei congressi internazionali. Si inserì in posizione di rilievo nel contesto dell’ampia e complessa politica avviata dal fascismo nel settore dell’organizzazione degli studi anche di storia. Nel febbraio 1935 un R.D. ne ampliava le competenze a sancire la dipendenza da essa di tutti gli istituti operanti nell’ambito della ricerca storica. Era il disegno di De Vecchi di Val Cismon, che ne fu anche presidente fino al 1943. Dopo una breve gestione transitoria da parte di Ercole prima (in qualità di vicepresidente) e di Cardinali poi (con la funzione di commissario straordinario) una svolta si ebbe con il D.L. 28 settembre 1944 quando la Giunta fu commissariata. Da quel momento la resse per sette anni Gaetano De Sanctis, che, come è stato sottolineato, “Sebbene fosse investito di poteri pressoché illimitati, non volle esercitarli se non dopo aver sentito i Comitati consultivi appositamente da lui nominati per ciascuno degli Istituti” [1 ].
L’attività della Giunta conobbe alcuni momenti alti come quello che caratterizzò lo svolgimento a Roma, nel 1955, del Decimo congresso internazionale di scienze storiche. Nello stesso anno usciva la Bibliographie internationale des travaux historiques publiés dans les volumes de mélanges, 1880-1939 (Parigi, 1955) alla quale la Giunta stessa aveva collaborato in misura rilevante. Pur nella costante lotta per la conquista di dotazioni adeguate la presidenza Chabod del Congresso internazionale di Stoccolma del 1960 da un lato e le iniziative per il centenario dell’unificazione italiana dall’altro dettero impulso a iniziative di un certo rilievo, come il convegno sul movimento unitario nelle regioni d’Italia del 1961. Tra l’altro proprio a questa fase vanno ricondotte alcune importanti riflessioni sull’organizzazione della ricerca storica in Italia, come quelle di Morghen.
Ad Aldo Ferrabino, che aveva guidato la Giunta dal 1951 al 1972, successero nella carica di presidente prima Giuseppe Ermini e poi Giovanni Spadolini, con il quale la Giunta passò dal Ministero della pubblica istruzione a quello dei beni culturali e che nel 1980 intervenne per inserire anche la Giunta, con tutto il sistema delle deputazioni e società di storia patria, nella tabella che comprendeva gli istituti destinati a ricevere finanziamenti statali. Alla scomparsa di Spadolini furono nominati alla presidenza Renzo De Felice e dopo di lui Rosario Villari.
Nel complesso l’attività della Giunta è stata piuttosto debole. Essa ha ristretto i propri compiti quasi esclusivamente alla redazione della Bibliografia storica nazionale – caratterizzata a tratti da evidenti ritardi che solo di recente sono stati colmati – e alla partecipazione italiana ai congressi, non senza le contraddizioni e i problemi emersi con forza a Montreal nel 1995. Le pubblicazioni fatte direttamente da questa istituzione e ricordate anche nel sito (www.giunta-storica-nazionale.it) aperto di recente sono in sostanza riconducibili a pochissimi volumi: Istituti di studi storici. Leggi e statuti (1970); Incontro sull’opera di Renzo De Felice tenutosi a Palazzo Giustiniani nel 1997 (Laterza, 2000), atti del colloquio italo francese sui Rapporti culturali ed economici fra Italia e Francia nei secoli dal XIV al XVI. Più che agire in proprio, la Giunta è infatti un organismo che coordina l’attività degli istituti e degli enti di ricerca storica italiani. Ha come suoi organi diretti gli istituti storici nazionali: Istituto per la storia antica, Istituto storico italiano per il Medioevo, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Istituto per la storia del Risorgimento. Ha il compito di collaborare all’attività delle deputazioni e società di storia patria; di rappresentare l’Italia nel Comité international des sciences historiques, in primo luogo organizzando la partecipazione italiana ai congressi storici internazionali curati periodicamente dallo stesso Comité; di mantenere rapporti di scambio con gli Istituti culturali stranieri residenti in Roma; di realizzare iniziative di promozione e sostegno della cultura storica, anche in rapporto con i mezzi di informazione; di svolgere attività di consulenza sui programmi di insegnamento della storia; di curare l’edizione della Bibliografia storica nazionale . Il presidente e i membri sono nominati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per i beni e le attività culturali.
Attualmente sono membri della Giunta – oltre al presidente Paolo Prodi e al vicepresidente Pietro Pastorelli – Francesco Bolgiani, Gabriele De Rosa, Luigi Lotti, Giovanni Miccoli, Massimo Miglio, Rodolfo Panarella, Pietro Scoppola, Giuseppe Talamo, Brunello Vigezzi [2 ].
Ci rivolgiamo a Paolo Prodi in qualità di Presidente della Giunta storica nazionale.
Accolgo l’invito ad intervenire non per esporre una mia visione sullo stato degli studi storici dal punto di vista culturale, ma per introdurre una discussione sulla loro organizzazione, per porre alcuni problemi sui quali credo sia opportuno che riflettiamo. Anche la qualifica esplicita (che cioè io parlo come Presidente della Giunta storica nazionale) va vista non come l’esibizione di un titolo ma in senso limitativo: parlo cioè soltanto dell’esperienza che ho avuto in questi due anni dalla mia nomina da parte del precedente governo Amato, poco prima delle ultime elezioni. D’altra parte è mia profonda convinzione che noi stiamo vivendo un momento estremamente cruciale in cui è in gioco la stessa sopravvivenza degli studi storici: molte generazioni e gli stessi nostri maestri, che ci hanno preceduto, hanno avuto la fortuna di lasciarci avendo la tranquillità derivante dalla solida tradizione delle università, dell’insegnamento. A noi non è dato di possedere questa tranquillità. L’avvenire stesso del nostro mestiere è in pericolo.
Non voglio e non posso fare un discorso generale su insegnamento e funzione sociale della storia oggi: ho cercato di esporre qualche idea su questi enormi problemi in un articolo dell’anno passato (“il Mulino” 3/2001) e non credo valga la pena di riprenderle ora: fine dello storicismo o fine della storia, la crisi della funzione tradizionale della storia come fondamento dell’educazione civica delle nuove generazioni in un contesto in cui tutta l’attenzione è concentrata in un presente senza tempo. Queste sono le condizioni in cui gli storici si trovano a lavorare in tutto il mondo, come voi tutti sperimentate. Certamente la stessa “globalizzazione” (parola equivoca ma che possiamo usare all’ingrosso per capirci) spinge verso la concezione della storia come un fardello del passato di cui è meglio liberarsi per poter correre più velocemente verso il futuro. Come sostiene Negroponte gli studi storici sono un bagaglio pesante dal quale bisogna liberarsi per entrare nel nuovo mondo dell’informazione. Non è una crisi della storia nel senso di Fukuyama, ma una crisi del sapere e dell’approccio storico, che in qualche modo mi pare riflettersi anche in alcune delle scelte per il congresso di Sidney, dove c’è una forte esigenza di presente, e a volte sembra che si corra il rischio di una perdita della consapevolezza dello spessore del lungo periodo. I segnali sono di varia natura. Mi pare che si manifesti anche una “fame” diffusa di storia come fondamento del nostro patrimonio culturale e delle nostre stesse identità collettive. I libri di storia si vendono bene e non mancano riscontri nei film e in televisione. D’altra parte però assistiamo anche alla strozzatura delle pubblicazioni storiche come sapere scientifico. Ormai è difficile pubblicare un volume che vada oltre le 200-300 pagine e che abbia un ampio apparato di note. Ma soprattutto si ha ovunque una sovrapposizione tra storia e fiction che rappresenta un problema anche per la formazione delle nuove generazioni. Non si tratta soltanto di un politically correct (censura preventiva o adattamento della ricerca alle necessità del potere) ma di un culturally correct in cui non è possibile distinguere il vero dal verosimile. Quello che sta avvenendo da alcuni anni a livello altissimo (penso ai contributi di Umberto Eco) o basso è un’altra cosa: i giovani rischiano proprio di perdere il senso della storia come “problema” e tutti veniamo ridotti a minorenni intellettuali, consumatori ideali di “omogeneizzati” senza sapore. Mi pare rilevante anche quanto accade nell’università dove da un lato i corsi da laurea in storia fondati forse per reazione necessaria e sorti in modo tumultuoso a partire dagli anni Settanta hanno finito in molti casi per chiudersi su se stessi e per diventare sempre più autoreferenziali. Contemporaneamente gli insegnamenti storici sono stati espulsi o marginalizzati dai corsi di laurea tradizionali, mentre d’altra parte altri corsi di laurea sono nati del tutto privi della dimensione storica. Il discorso sarebbe lungo, e non è questa la sede per svilupparlo. Ho però voluto introdurre queste riflessioni – che del resto ho sviluppato anche nella prolusione all’anno accademico in corso che è possibile leggere sul sito del Dipartimento di discipline storiche di Bologna – perché mi sembrava importante introdurre un contesto più largo all’interno del quale inserire un discorso sulla necessità di difendere e tutelare le istituzioni della ricerca storica.
Qual è attualmente lo statuto della Giunta dopo la riforma del 1999 che poneva di nuovo il problema del coordinamento degli istituti e formalmente costruiva una struttura a rete?
Il decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 419 “Riordinamento del sistema degli enti pubblici nazionali” preparato dalla commissione Cerulli-Irelli su delega della Bassanini prevedeva che gli enti ed istituti culturali pubblici della tabella A a vario titolo finanziati dallo Stato (tra cui la Giunta centrale per gli studi storici, le deputazioni e società di storia patria di origine risorgimentale, l’Istituto italiano di Numismatica, l’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea fondato da Volpe, l’Istituto italiano per la storia antica, l’Istituto per il Risorgimento italiano, l’Istituto nazionale per il movimento di liberazione in Italia, la Domus Mazziniana di Pisa), potessero scegliere di rimanere privati o di diventare a tutti gli effetti pubblici. Qual è stato l’atteggiamento delle Giunta e che cosa ha comportato? Appena nominato ho preparato il regolamento attuativo della rete, che è stato approvato dalla Giunta ma che non ha ancora avuto l’approvazione del Ministero, il quale anzi ha introdotto parecchie e significative modifiche.
Con la questione della scelta tra pubblico e privato entriamo – come vedremo – proprio nel vivo del problema. La grande maggioranza degli istituti in tabella ha optato per il privato: esempio tipico è quello degli istituti della Resistenza. La Giunta invece ha optato per il pubblico. E proprio questo aspetto pubblico ha cercato di mettere in luce e di valorizzare con il progetto di Statuto che ha redatto dopo una serie di riunioni.
Quello su cui la Giunta insiste è la sottolineatura della natura pubblica della rete dalla quale deve derivare la conseguenza necessaria dell’inserimento della Giunta in un apposito capitolo di bilancio del Ministero per i beni e le attività culturali che permetta di fare programmi concreti: non possiamo portare avanti una funzione pubblica sulla base di un finanziamento aleatorio.
Nelle modifiche proposte dal Ministero invece è manifesta la volontà della Direzione generale per i beni e le attività culturali di non accettare per la rete la scelta “pubblica”: si tende a mantenere per la Giunta e gli istituti ad essa collegati una situazione uguale a quella degli altri enti in tabella che hanno scelto la via della privatizzazione, continuando sulla strada dei contributi separati e della mera vigilanza senza un apposito capitolo di bilancio. La responsabilità della Giunta è inoltre totalmente vanificata. Essa resta un organo coordinatore, senza potere, su progetti e bilanci che vengono elaborati e decisi in altra sede.
Contemporaneamente si è passati dalle cariche a vita a quelle a tempo. Questa scelta aveva certamente il senso di venire incontro ad esigenze di razionalizzazione. Parlare di cariche quadriennali o quinquennali rinnovabili una sola volta aveva il significato e lo scopo di evitare la situazione che aveva di fatto limitato l’attività della Giunta nei decenni precedenti.
Ma le nomine avrebbero dovuto essere fatte su una rosa di nomi proposti dal basso, avrebbero dovuto essere il risultato di una larga consultazione. Avevamo chiesto che fosse la Giunta stessa a provvedere, dando adeguata pubblicità, alla raccolta delle candidature per le nuove nomine e alla loro selezione proponendo quindi un nome al Ministro con adeguata motivazione: la bozza di regolamento del Ministero riafferma invece in modo molto forte il centralismo delle nomine, fa riferimento alla Giunta come a un Consiglio di amministrazione e non come al Consiglio scientifico che deve avere un ruolo decisivo, e comunque ci mette in seria difficoltà. La Giunta, nella riunione del 18 giugno scorso, ha nuovamente risposto al Ministero avanzando riserve molto precise.
La bozza del Ministero mette la comunità scientifica degli storici completamente in balia di nomine di natura politica, il cui carattere è ora accentuato dalla breve durata. Gli storici italiani restano in qualche modo senza difesa alcuna e viene da rimpiangere le cariche a vita che almeno difendevano dagli interventi continui della politica. All’estero – basti pensare all’esempio tedesco – la garanzia vera consiste nella trasparenza e nel chiamare la comunità degli storici, nell’espressione dei suoi esponenti più validi, a responsabilità di gestione, a indicare le rose dei nomi per le cariche. In Italia si va nella direzione opposta. Una larga consultazione, come quella che ad esempio avviene ogni volta che deve essere nominato il direttore del Max Planck in Germania, sarebbe stata davvero necessaria.
Come si legge sul sito la Giunta “collabora all’attività delle deputazioni e società di storia patria; rappresenta l’Italia nel Comité international des sciences historiques, in primo luogo organizzando la partecipazione italiana ai congressi storici internazionali curati periodicamente dallo stesso Comité; mantiene rapporti di scambio con gli Istituti culturali stranieri residenti in Roma; realizza iniziative di promozione e sostegno della cultura storica, anche in rapporto con i mezzi di informazione; svolge attività di consulenza sui programmi di insegnamento della storia; cura l’edizione della Bibliografia storica nazionale”. A fronte di tutti questi compiti – ma ci sarebbe da chiedersi in che modo e in che misura interviene nei programmi per l’insegnamento della storia, che pure hanno costituito un punto caldo negli ultimi anni – quali sono le risorse di cui dispone?
Questo è ovviamente il problema centrale nella vita quotidiana dell’istituzione. La Giunta ha usufruito di un finanziamento come tutti gli altri enti all’interno della tabella governativa. Si tratta di circa 900 milioni di vecchie lire, di cui 600 circa erano e sono distribuiti alle deputazioni. Per la vita della Giunta, il lavoro di spoglio per la Bibliografia storica nazionale, il finanziamento della partecipazione italiana ai congressi storici internazionali rimangono circa 300 milioni l’anno, che sono pochissimi. Il problema è poi diventato drammatico quando due mesi fa il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ci ha comunicato che i tre comandati che costruiscono la Bibliografia storica nazionale con circa 8.000 schede annuali erano revocati a meno che la Giunta non provvedesse a pagarne gli stipendi. Se dovessimo pagare questi stipendi tutta l’assegnazione data alla Giunta andrebbe per il pagamento di coloro che attualmente lavorano in qualità di comandati. Dal settembre prossimo rischiamo dunque di non essere più in grado di portare avanti nemmeno la Bibliografia storica nazionale, della quale dovrebbe uscire tra breve, in forma cartacea, il volume relativo al 2000 e che dal 2001 dovrebbe essere realizzata soltanto in forma elettronica.
La situazione è tanto più grave in quanto anche gli altri istituti storici della rete portano avanti il loro lavoro di edizione di fonti e di ricerca servendosi dell’opera di comandati. Se il rubinetto dei comandi viene chiuso è chiaro che si arresterà tutta l’attività non solo della Giunta ma anche degli istituti. Vorrei ancora una volta sottolineare questa contraddizione: praticamente mentre ci viene riconosciuta una funzione pubblica in realtà ci vengono tolte tutte le possibilità di svolgere queste funzioni pubbliche.
Nella bozza del Ministero si parla di unificazione strutturale degli istituti storici. In che misura questa dovrebbe avvenire?
Non c’è dubbio che gli istituti debbano mantenere la loro fisionomia autonoma sia scientifica che organizzativa. Ci vuole però una razionalizzazione dell’amministrazione. Cioè ci dovrebbero essere delle sezioni di bilancio autonomo ma con una piattaforma di bilancio comune: sezioni autonome di un bilancio unico, seguendo la linea della Bassanini, che da questo punto di vista non era solo accettabile ma auspicabile. In ogni caso l’amministrazione deve assumere i contorni di un’amministrazione pubblica non su base volontaristica.
Uno dei compiti della Giunta – il principale e forse in questi ultimi anni quasi il solo – è quello di sostenere la partecipazione italiana ai congressi storici internazionali. In quanto presidente della Giunta hai partecipato ad alcune delle riunioni del comitato allargato che contribuisce a definire i temi del congresso mondiale di scienze storiche che si terrà a Sidney nel 2005. In che modo avete cercato di coinvolgere gli storici italiani?
In questa situazione di incertezza e di assenza di regolamenti ho cercato almeno di realizzare una notevole apertura a tutti gli storici italiani e al tempo stesso quella trasparenza nelle decisioni che precedentemente era stata talvolta assente, sia per il modo personalistico con il quale si erano mossi alcuni dei presidenti sia per la maggiore difficoltà che c’era nel contattare gli studiosi. La rete rende ormai molto più agevoli informazioni e contatti. Tra l’altro da pochi mesi la Giunta ha un suo sito al quale accedono tra ottocento e mille utenti al mese.
Ho cercato – per la prima volta – di contattare personalmente per e-mail tutti i direttori dei dipartimenti e degli istituti storici chiedendo loro di inoltrare agli studiosi delle loro strutture tutte le informazioni relative al congresso. I risultati sono stati buoni dal momento che abbiamo ricevuto circa sessanta proposte, alcune delle quali generiche, altre decisamente precise e circostanziate. Le abbiamo filtrate e trasmesse agli organismi internazionali con il risultato che alcuni studiosi italiani parteciperanno al congresso di Sidney in qualità di organizzatori, discussant e relatori all’interno delle varie sezioni, sia per i temi “maggiori” che per quelli “minori”. Mi pare insomma che abbiamo fatto un buon lavoro, e che il salto rispetto al passato sia stato netto.
Negli ultimi anni si è rivelato un accresciuto interesse degli storici italiani per i momenti associativi: lo testimoniano la crescita della sissco, ma anche la vivacità di associazioni come la Società italiana delle storiche o la Società per la storia delle istituzioni. Come si pone la Giunta nei confronti di queste aggregazioni dal basso che introducono significativi elementi di novità nella comunità degli storici?
Le associazioni costituiscono una realtà fondamentale dalla quale non è possibile prescindere. Ma – da storico delle istituzioni – credo che il volontariato abbia bisogno del sostegno e dell’appoggio del momento istituzionale. Credo anche che la Giunta non potrà vivere senza le associazioni. Negli anni Settanta e Ottanta essa non ha dato loro il minimo aiuto. Così si è verificata una forbice, una divaricazione netta tra la vita delle associazioni e la rappresentanza italiana ai congressi internazionali. In Germania ad esempio la situazione si è evoluta in senso molto diverso: proprio l’accentuata politica associativa è riuscita ad esprimere momenti importanti come gli Historikertage. D’altra parte è prassi consolidata quella di consultare la comunità degli studiosi – non solo quella nazionale – nella fase delle candidature a cariche importanti come ad esempio quelle per il Max Planck. In questo modo la comunità appare più coesa e c’è maggiore rispondenza tra le sue varie istanze.
Negli ultimi giorni si è molto parlato del commissariamento del Cnr e la stampa ha riportato interventi critici sul vicecommissario per l’area storico-umanistica. Qual è il tuo parere in proposito?
Non conosco per nulla lo studioso il cui nome è stato fatto e quindi non posso esprimere neppure un giudizio scientifico. Tuttavia mi sembra importante sottolineare il fatto che la comunità degli storici non è stata interpellata a nessun livello mentre questo è ovviamente quanto dovrebbe accadere in un paese civile. Nessuno nega che il potere politico possa e debba prendere delle decisioni conclusive, ma esso non può non ascoltare gli operatori, in questo caso gli storici. Mi pare che questa sia da un lato un’altra manifestazione dell’emarginazione degli storici di cui si parlava all’inizio e dall’altro un segno preciso della volontà di controllo da parte dello Stato. Spero che questo non sia collegato ai problemi derivanti dagli interventi sul regolamento della Giunta e da quelli sulle risorse di cui essa dispone. Se questi elementi venissero collegati la situazione diverrebbe ancora più preoccupante.
Bologna, 24 giugno 2003
NOTE
1- G. Vitucci, La giunta centrale per gli studi storici, in Speculum mundi, a cura di Paolo Vian, Roma, Presidenza del consiglio dei ministri – Dipartimento per l’Informazione e l’editoria, 1993, p. 575
2- Cfr. G. Vitucci, La giunta centrale, cit, pp. 571-85 e le considerzioni conclusive di Girolamo Arnaldi agli atti del convegno della Deputazione di storia patria per l’Umbria in: P. Pimpinelli e M. Roncetti (a cura di), Una regione ela sua storia, Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 1998, pp. 291-304