di Giovanni Belardelli
(dal Corriere della sera, 9 febbraio 2001)
Non sono mancati nei giorni scorsi i giudizi critici sui nuovi programmi scolastici che il governo si prepara a varare. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’italiano, ad esempio, Giulio Ferroni sul Corriere del 5 febbraio, ha parlato di un trionfo dell’ovvio. Ma forse è la storia la disciplina che rischia di essere più duramente colpita. La prima novità consiste nel fatto che l’ intero ciclo dalla preistoria ad oggi si studierà in modo siste matico e cronologico una volta sola, dai 10 ai 15 anni. Questo, si dice, per evitare ripetizioni, cioè che si studi tre volte la stessa materia come avveniva finora; si dimentica che in quelle ripetizioni la storia si studiava tuttavia a livelli diversissimi di complessità, in corrispondenza delle diverse fasi di età degli alunni. Ma a caratterizzare forse ancora di più i nuovi programmi sta il fatto che negli ultimi tre anni di scuola, dai 16 ai 18 anni, la storia verrebbe insegnata per moduli, per grandi temi, ma – ecco il punto – a prescindere da ogni significativo rapporto con la cronologia. Nei programmi questa indicazione ancora non c’ è, poiché riguardano per adesso la sola «scuola di base». È però ribadita nei documenti preparatori e scaturisce dalla logica stessa della scansione unica strutturata nel modo che si è detto, che lascia liberi solo gli ultimi tre anni dell’ intero ciclo scolastico per tornare allo studio approfondito della storia (che oggi ne richiede cinque: tutto il ciclo delle superiori).
Ma separare la storia dalla dimensione diacronica implica in realtà la sua fine come specifica forma di sapere. Oggi gli studenti mostrano un’estrema fatica a collocare gli avvenimenti lungo l’asse del tempo. Chi è nato o quasi con Internet sperimenta quotidianamente la straordinaria espansione spaziale che la rete consente; ma la contemporanea perdita della dimensione temporale ne è in qualche modo il prezzo. Prima ancora è stata la televisione a incidere in senso distruttivo sulla percezione collettiva del passato. «Gli eventi non si collocano più in una successione cronologica, ma convivono l’ uno accanto all’altro, si integrano e si completano a vicenda». Questa frase è stata pronunciata da Carlo Freccero, direttore di Raidue, parlando di televisione. Ed è stupefacente che si possa prevedere un criterio analogo come coronamento dell’ istruzione, quando proprio la scuola dovrebbe almeno tentare di arginare quella perdita della dimensione del passato che sembra una caratteristica generale del mondo contemporaneo.
Ad aggravare, se possibile, le conseguenze della virtuale cancellazione della storia cronologica nel triennio conclusivo dell’ istruzione sta poi un’altra circostanza. L’ ipotizzata trattazione della storia per problemi, scollegata da ogni struttura sistematica, si lega all’ idea che gli stessi studenti, in appositi «laboratori di storia», dovrebbero imparare a utilizzare le procedure degli storici e a svolgere attività di vera e propria ricerca. Si tratta di una visione derivata direttamente dall’idea che gli studenti stessi debbano essere «protagonisti del loro sapere» e rifiutare dunque la concezione «puramente conoscitiva» della storia. Le espressioni tra virgolette sono contenute nel contributo di uno degli esperti utilizzati dal ministero: e questo ci conduce ai criteri in base ai quali sono stati scelti tali esperti. Tra i più attivi troviamo Antonio Brusa, nome probabilmente sconosciuto ai più, il quale semb ra sia stato l’ estensore materiale dei nuovi programmi di storia. Ma chi è questo esperto, a che titolo ha ricevuto questo enorme potere di fatto? E a che titolo, ad esempio, ha fatto parte della commissione per i nuovi programmi Laurana Lajolo? La circostanza di essere la presidente dell’Istituto per la storia del movimento di Liberazione in Italia è davvero un titolo congruente?
Crediamo che tutti i genitori, ma anzi tutti gli italiani (visto che il futuro del nostro Paese dipenderà in gran parte dal futuro dell’istruzione), abbiano il diritto di saperne di più. E pensiamo anche che agli insegnanti debba realmente essere fornita la possibilità di dire cosa pensano dei nuovi programmi. Infatti secondo le procedure in vigore dovrebbe ora attuarsi una consultazione di tutto il corpo docente; ma i bene informati fanno sapere che «purtroppo» non ci sarà il tempo (visto che la riforma dei cicli scolastici dovrà essere comunque applicata dal primo settembre 2001). Davvero l’istruzione delle nuove generazioni può essere definita seguendo simili criteri e simili metodi?