Camera dei Deputati – VII COMMISSIONE
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE
(ai sensi dell’articolo 143, comma 2, del regolamento)
Seduta di mercoledì 18 luglio 2001
Ferdinando Adornato, Presidente
La seduta comincia alle 14.40.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Letizia Moratti, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca, ai sensi dell’articolo 143, comma 2, del regolamento, l’audizione del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Letizia Moratti, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
A nome di tutta la Commissione saluto il ministro e le auguro un ottimo lavoro in un ministero delicato e chiave per l’intera vita nazionale, così come rivolgo un saluto anche al viceministro Possa, al sottosegretario Aprea e al sottosegretario Siliquini.
GIUSEPPE GAMBALE. Chiedo di parlare sull’ordine dei lavori.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE GAMBALE. Vorrei sapere come la Commissione intende organizzare i propri lavori: si prevede, dopo l’esposizione del ministro, una breve sospensione dei lavori per poi riprendere la discussione, oppure vi sarà un rinvio del seguito dell’audizione ad altra seduta? Ad esempio, il ministro Urbani ha tenuto un’esposizione in due tempi, effettuando la replica dopo aver ascoltato le dichiarazioni dei gruppi.
PRESIDENTE. Preciso che il ministro Urbani non ha tenuto un’esposizione in due tempi, bensì ha svolto la relazione e replicato agli interventi. Pertanto, oggi seguiremo lo stesso criterio, ponendoci un limite di tempo. Al momento non sono in grado di valutare a priori quanti interventi si svolgeranno ed i tempi che occorreranno, però ritengo che la seduta odierna potrebbe avere termine al massimo entro le 19.30. Nel prosieguo dei nostri lavori ci renderemo conto se l’audizione potrà concludersi oggi o se invece occorrerà rinviarne il seguito ad altra seduta.
GIOVANNA GRIGNAFFINI. Vorrei proporre di rinviare il seguito dell’audizione ad altra seduta, in modo da disporre del minimo di tempo necessario, dopo la relazione del ministro, che immagino sarà ricca, articolata e documentata, per consentire a tutti, al di là di alcune notazioni politiche immediate, di intervenire in modo puntuale in questa importante discussione.
PRESIDENTE. È anche la mia opinione. Qualora ciascun deputato intervenga – con stile anglosassone – per quattro minuti, l’audizione terminerebbe entro le ore 19, ma considero questa ipotesi poco prevedibile. Credo sia più opportuno e ragionevole rinviare il seguito della presente audizione ad una altra seduta.
Rinnovandogli nuovamente gli auguri per un lavoro delicato, difficile e importante, do ora la parola al ministro Moratti.
LETIZIA MORATTI, Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Vorrei in questa prima esposizione tracciare una sintesi di tutte le problematiche esistenti attorno al complesso e delicato mondo della scuola.
Vorrei, in primo luogo, osservare che l’istruzione è elemento fondamentale del processo di crescita e di sviluppo delle società civili evolute. Proprio per questo rappresenta un punto centrale delle politiche del Governo, affinchè possa ispirare un disegno di sviluppo e di innovazione del paese, all’interno del quale la scuola e tutta l’istruzione in generale, quindi anche l’università e il settore della ricerca, possano svolgere un ruolo fondamentale.
Ci troviamo all’inizio di una nuova fase nella quale è necessario porre in primo piano la necessità di accrescere e valorizzare il capitale umano del nostro paese, le competenze scientifiche, tecnologiche e tutto quel grande patrimonio culturale di cui il paese dispone. Per raggiungere questo obiettivo, occorre ridare qualità e innovazione al sistema dell’istruzione al fine di poterci allineare agli standard europei, dai quali il nostro paese si è pericolosamente allontanato.
Il nostro impegno intende focalizzarsi sulle esigenze dei veri protagonisti del mondo della scuola: gli studenti, le famiglie, gli insegnanti, al fine di riportarli al centro della scuola, basandoci su due principi che intendiamo porre a fondamento dell’azione di Governo: il principio della solidarietà e quello dell’eccellenza.
Siamo consapevoli di avvicinarci ad un mondo complesso, e disporre di margini di tempo sempre più ristretti per scongiurare il pericolo di un progressivo decadimento del nostro sistema educativo e formativo. Il primo segnale di questo decadimento è dato dalla distanza crescente tra gli sforzi che vengono compiuti all’interno del mondo della scuola e i risultati che ne derivano. In particolare, ritengo ci siano volumi ingenti di spesa, in larghissima parte destinati a coprire le spese fisse, a fronte di bassi volumi di investimenti destinati alla professionalizzazione dei docenti, all’innovazione didattica e all’approntamento di percorsi formativi di elevata qualità. Siamo, dunque, in una situazione nella quale vanno ripensate le allocazioni di spesa, al fine di aumentare il livello qualitativo del sistema dell’istruzione nel suo complesso.
Disponiamo di dati, probabilmente già a voi tutti noti, frutto di recenti indagini condotte dall’OCSE, che vorrei sinteticamente ricordare. Nel nostro paese, pur essendovi il numero di insegnanti per alunni più elevato tra i paesi europei (un’insegnante ogni 10 alunni contro la media europea che è di un insegnante ogni 15 alunni), in realtà il 65 per cento della popolazione adulta non supera il secondo livello alfabetico. Questa è una situazione che non può non destare preoccupazione. Inoltre, nonostante il nostro paese registri un costo per studente più elevato del 15 per cento, rispetto alla media europea, solo il 40 per cento della popolazione adulta ha un diploma di scuola media secondaria.
Con riferimento al sistema universitario abbiamo un tasso di dispersione universitaria estremamente preoccupante. Negli ultimi 40 anni, su dieci milioni di studenti che si sono avvicinati al mondo universitario, i laureati sono stati circa tre milioni: vi è, quindi, una distanza molto forte tra chi accede all’università e coloro che ne escono con una laurea. Pertanto, nel complesso, possiamo dire che il nostro sistema istruttivo registra delle dispersioni e delle inefficienze, le quali allontanano sicuramente il mondo dell’istruzione da quello del lavoro. Un altro dato su cui riflettere, sicuramente a conoscenza di tutti, è che la maggioranza dei lavoratori, in Italia, ha unicamente il titolo di studio della scuola dell’obbligo. Anche sotto questo profilo, ci discostiamo fortemente dagli altri paesi europei. Infatti, a fronte di un 9 per cento circa di laureati tra i lavoratori italiani, vi sono paesi come la Francia e la Germania nei quali tale media è rispettivamente del 21 per cento e del 19 per cento. Questi sono elementi fortemente preoccupanti.
Oggi, a fronte di facoltà universitarie che producono tassi di disoccupazione crescenti, l’Italia vede aumentare progressivamente la carenza di profili professionali legati ai settori delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, settori che in altri paesi, come ad esempio negli Stati Uniti, producono, ormai, un quarto della ricchezza nazionale. Questo è solo un esempio di quanto incida, sul mondo del lavoro, la mancanza di raccordo tra il sistema dell’istruzione e il sistema professionale.
Vi sono, poi, forti disparità, tra l’Italia e gli altri paesi industriali, anche nei percorsi formativi successivi al diploma: soltanto cinque giovani su cento scelgono percorsi formativi dopo il diploma. Anche la formazione professionale presenta standard qualitativi che variano ampiamente a seconda delle zone del paese. Ciò non può che creare ricadute negative sulla capacità complessiva di sviluppo economico e di innovazione tecnologica e scientifica. Vi è, peraltro, una recente indagine svolta dalla Commissione europea, la quale indica che ogni mille lavoratori vi sono in Italia soltanto tre ricercatori, rispetto alla media europea di cinque, a quella americana di 8 e a quella giapponese di 9. Inoltre, l’Italia è all’ultimo posto in Europa anche per quanto riguarda i dottorati tecnologici.
Questo quadro, che sicuramente voi tutti conoscete, non può non destare preoccupazione rispetto all’universo complessivo dell’istruzione: dalla scuola all’università.
La gravità della situazione è quindi nota, ma ritengo che le implicazioni diventino sempre più pesanti. In tutto il mondo, infatti, vi è un aumento del livello di scolarizzazione ed è crescente l’ingresso nel mondo dell’istruzione da parte di nuovi soggetti (mi riferisco sicuramente ai paesi in via di sviluppo, ma anche all’ingresso delle donne e dei più giovani), con la conseguenza di un rafforzamento diffuso della capacità di produrre reddito e di partecipare alla crescita del benessere. Pertanto, in tale contesto, tendono a rafforzarsi anche i valori meritocratici tipici di un modello di società competitiva. Assistiamo, pertanto, in questo momento ad un fenomeno che presenta delle forti polarizzazioni sull’intero pianeta: aree di «poli di eccellenza» ed aree a rischio di esclusione e di marginalizzazione. L’Italia deve considerare la sua complessiva situazione, in quanto il suo più debole sistema educativo, formativo e di ricerca può crearle un rischio di marginalizzazione rispetto a quelle società che sono invece, in questo senso, più evolute.
Credo che siamo molto lontani dall’avere i mezzi, i programmi e le strutture per consentire al sistema scolastico italiano di competere con i sistemi di istruzione degli altri paesi. Ci troviamo di fronte ad una nuova sfida, posta dalla società della conoscenza, nella quale appunto la competizione tra i paesi avviene proprio sulle conoscenze e sui talenti.
Pertanto, ritengo che la qualità dell’istruzione rappresenti un tema centrale nelle politiche per l’istruzione stessa. A mio avviso, è necessario elevare i livelli medi di scolarizzazione del paese e, nel contempo, tendere all’eccellenza delle strutture didattiche scolastiche ed universitarie, creando così le condizioni per attrarre investimenti, per far nascere nuove imprese e per favorire nuovi progetti di ricerca; in altri termini occorre intervenire sulla realtà che deve complessivamente rinnovarsi.
Il nostro progetto parte dalla convinzione che l’Italia necessita di interventi rapidi e precisi, rispetto all’evoluzione del sistema dell’istruzione in tutto il mondo.
Nel documento di programmazione economico-finanziaria abbiamo previsto investimenti per la qualificazione degli insegnanti, per l’aumento del livello di scolarizzazione, per il sostegno alla ricerca, per l’utilizzo delle tecnologie, in particolare quelle multimediali, e per la valorizzazione e la formazione degli insegnanti.
È nostra intenzione creare un circolo virtuoso che consenta ai giovani «di sapere, di saper fare e di saper essere». Ci rendiamo conto che ciò non è facile, perché attorno alla scuola si sono consumate dispute ideologiche. Proprio per questo, vorremmo riuscire a ricomporre intorno al mondo dell’istruzione un campo d’opinione concorde, basato su alcuni principi fondamentali, al fine di ridare ai giovani, alle famiglie e ai docenti motivazioni, sicurezze e serenità. Sentiamo fortemente la responsabilità di rappresentare opinioni diverse e di cercare di costruire una scuola nella quale tutti possano riconoscersi.
Per questo motivo abbiamo avuto alcuni incontri con le rappresentanze di famiglie, di studenti, di docenti, con le associazioni e i sindacati di categoria, con l’amministrazione centrale e quella regionale: abbiamo cercato di fare un pur breve viaggio nel tempo, per un primo approfondimento rispetto a tutti i problemi che la scuola si trova ad affrontare. Anche per tale motivo avevo chiesto al presidente di potermi presentare in Commissione dopo essermi avvicinata al pianeta scuola (e vi ringrazio per l’opportunità che mi avete dato).
Nel mondo della scuola abbiamo trovato da un lato un senso di mortificazione rispetto al ruolo della scuola stessa, dall’altro fortissime aspettative volte a superare la criticità del momento e, quindi, del sistema. Vorrei spendere alcune parole sulla sospensione dei cicli (tornerò in seguito sull’argomento). Tale sospensione è stato voluta, al di là dell’aspetto tecnico che ovviamente conoscete, per riavviare un processo di riforma che tenga conto delle posizioni di tutti i protagonisti della scuola: del mondo degli insegnanti, degli studenti e delle famiglie. Credo che la crisi del sistema scuola sia dovuta ad una insufficiente qualità ed anche ad una mancanza di libertà di scelta per le famiglie. Crediamo che lo Stato non possa essere l’unico promotore del valore del capitale umano, né il custode esclusivo delle competenze tecniche e scientifiche. Il nostro progetto si baserà su parametri e principi che cercheranno di coniugare libertà e solidarietà.
Vorrei ricordare il pensiero di Vivian Reding, che voi tutti conoscete, laddove riafferma che i sistemi educativi non devono adattarsi solo alle economie ma allo sviluppo, e per noi lo sviluppo è quello della persona umana nel contesto sociale: questo è il modo con il quale vogliamo interpretare il ruolo della scuola e dell’istruzione. Immaginiamo un sistema moderno, sicuramente competitivo, innovativo, democratico, aperto e trasparente. Riteniamo che questa sia la scuola che possa garantire l’innalzamento della qualità complessiva del livello di istruzione nel nostro paese. Abbiamo una visione che tende a coniugare alcuni elementi che normalmente vengono contrapposti: l’equità e la competizione, i valori di giustizia sociale e il merito, la partecipazione e la responsabilità.
Vorremmo dare unitarietà e coerenza a tali principi, che riteniamo non debbano essere contrapposti, ma che possono essere coniugati nelle due parole che ho già più volte citato: solidarietà ed eccellenza. Pensiamo che gli studenti abbiano diritto allo studio e all’eccellenza. Dobbiamo garantire pari opportunità di accesso allo studio e pari opportunità di successo nello studio. Dobbiamo pensare ad un sistema che integri la molteplicità dei poteri, delle funzioni e dei soggetti. Riteniamo che alle famiglie debbano essere garantite pari condizioni rispetto alle scelte (ciò che peraltro esiste già in tutti gli Stati europei), in un sistema integrato fra componenti statali e non statali, per una reale scuola della società civile.
È importante ridefinire il ruolo dello Stato centrale e pensiamo a tre differenti livelli: il ruolo dello Stato centrale, che indirizzi, governi e non gestisca; il livello regionale; quello dei singoli istituti secondo la loro autonomia. Pensiamo a un centro che abbia dei curricula nazionali, che sono importanti perché riteniamo che la nostra storia, le nostre tradizioni, le nostre radici debbano essere mantenute, valorizzate, facendo parte del nostro patrimonio e della nostra identità nazionale. Pensiamo, però, che a tali programmi nazionali debbano aggiungersene altri, che garantiscano ai ragazzi la ricchezza delle realtà regionali e locali. Siamo il paese delle cento città e, quindi, tale ricchezza va valorizzata anche nei programmi scolastici. Pensiamo – come ho già detto – a un centro che indirizzi, governi, non gestisca e che valuti il funzionamento complessivo della scuola ed i livelli di apprendimento. Ciò attraverso un servizio nazionale di valutazione, autonomo e indipendente, per la definizione degli standard di qualità e dei livelli di preparazione degli studenti. A tal fine abbiamo istituito un gruppo di lavoro, presieduto dal professor Elias, che – lo voglio ricordare – è uno dei massimi esperti a livello mondiale e che ha diretto l’ISO (il centro che raggruppa i sistemi di certificazione di 138 paesi nel mondo). Tale gruppo di lavoro, che è composto da rappresentanti del mondo della scuola e delle famiglie, ci proporrà, anche con riscontri europei, modelli (che esamineremo e valuteremo) finalizzati a questo obiettivo: la valutazione della scuola nel suo complesso e la valutazione del livello di apprendimento dei ragazzi.
Un altro punto che a me sembra importante è il problema del peso burocratico del sistema scolastico. Il governo della scuola funziona con una miriade di circolari e con un numero infinito di decreti. Vi è una proliferazione degli uffici dirigenziali (siamo arrivati a 118) con una pericolosissima frammentazione delle competenze ed una altrettanto pericolosa mancanza di responsabilità in ogni centro dirigenziale. È un sistema che va superato, ma non è la sola criticità del sistema dal punto di vista organizzativo. Ne cito altre: le direzioni regionali stentano a decollare poichè hanno problemi di raccordo con il centro; il rischio della creazione di corpi intermedi, mi riferisco ai Csa ed ai Cis, che possono rappresentare momenti di appesantimento burocratico al di fuori della scuola. Dobbiamo evitare tali rischi e credo che i mezzi e le strutture debbano essere forniti, sempre più direttamente, agli istituti e non posti, quindi, al di fuori della scuola, pur in un disegno complessivo che integri il centro, le regioni e gli istituti scolastici. Per tale motivo abbiamo pensato di costituire un tavolo della semplificazione, finalizzato a sburocratizzare il mondo della scuola e a superare l’autoreferenzialità che ancora esiste in tale mondo. Anche il decreto-legge sull’avvio dell’anno scolastico ha, ed ha avuto, questo obiettivo: porre l’organizzazione scolastica al servizio degli studenti e delle famiglie. Allo stesso modo intendiamo il tavolo di semplificazione: un’organizzazione che abbia l’obiettivo di essere al servizio degli studenti e delle famiglie.
Un altro tema importante è quello dell’autonomia: riteniamo che vi siano alcune problematiche da affrontare. In particolare, gli organi di governo degli istituti, a nostro avviso, devono essere più snelli, mentre agli istituti va data la facoltà e la libertà di organizzare sistemi di partecipazione e di rappresentanza in modo più libero e, quindi, con decisioni autonome. Pensiamo a pochi ed essenziali organi di governo e ad una maggiore libertà per gli istituti di organizzarsi secondo le loro esigenze. Stiamo pensando ad una revisione degli organi collegiali territoriali, poiché riteniamo che oggi ci sia un insieme di rappresentanze, in tali organi collegiali e territoriali, che assiste alle scelte della scuola, ma non ha un peso nella determinazione delle scelte stesse. Tale revisione deve dare maggior peso alle rappresentanze.
Parlerò ora della riforma dei cicli, che è stata posta forse come tema centrale. Rispetto a ciò intendiamo riavviare il processo di riforma, e non bloccarlo, con la partecipazione dei docenti, delle famiglie e degli studenti. Abbiamo visto che uno dei nodi centrali della riforma avviata era, probabilmente, il mancato coinvolgimento complessivo di tutte le istanze rispetto al cambiamento. Intendiamo, quindi, procedere per consentire ai veri protagonisti di essere parte attiva nel processo di riforma. Vi sono sicuramente nodi da sciogliere, che ci sono stati segnalati negli incontri che abbiamo avuto. Un tema da affrontare è quello della scuola dell’infanzia; occorrerà verificare se, mantenendola unitaria, la partecipazione ai tre anni della scuola dell’infanzia possa costituire un credito equivalente ad un anno del percorso obbligatorio scolastico.
Un altro tema è quello della ricerca della migliore valorizzazione dell’età evolutiva, dell’età dell’infanzia, della preadolescenza e dell’adolescenza e, quindi, di quale sia il modo migliore per rispettare l’evoluzione dei bambini e dei ragazzi.
Una questione che ci è stata segnalata è quella dei curricula della scuola secondaria che devono tendere a una maggiore qualità, anche con la previsione delle specializzazioni. Altro tema importante è quello di un percorso professionale che sia parallelo a quello scolastico, dai 14 ai 21 anni. Sempre nel rispetto dell’autonomia e dell’obbligo formativo a diciotto anni, occorre capire quali siano i vincoli da rimuovere per verificare i risultati dell’apprendimento in tale percorso. Da ultimo vi è il tema delle risorse per la formazione degli insegnanti per rendere operativa la riforma. Rispetto ai problemi che ci sono stati rappresentati abbiamo pensato di creare un gruppo ristretto di lavoro formato dai professori Bertagna, Chiosso, Tagliagambe, Colasanto, Bottani e Montuschi. Tale gruppo di lavoro ha avuto da parte nostra l’incarico di riesaminare i problemi citati attraverso audizioni mirate, esami sul campo, gruppi focus, e, quindi, con una metodologia che ci consenta di arrivare, in tempi molto brevi, ad avere una sintesi rispetto alle problematiche e ai nodi da sciogliere. Abbiamo pensato di organizzare quelli che potremmo definire gli stati generali dell’istruzione, finalizzati allo svolgimento di un ampio dibattito rispetto alle proposte che emergeranno da tale rapporto di sintesi. Tutto ciò in tempi molto ristretti e tali da consentirci di poter avviare un percorso parlamentare per eventuali modifiche alla legge n. 30 del 2000, in tempo utile per avviare il prossimo anno scolastico 2002-2003.
Il problema della riforma dei cicli è sicuramente legato anche al ruolo degli insegnanti. Lo stato della docenza da molto tempo non è modificato e riteniamo che debbano essere definite delle funzioni coerenti per valorizzare il ruolo degli insegnanti, con il riconoscimento delle diverse professionalità. Pensiamo che, talvolta, si sia consolidato nella docenza un modello quasi impiegatizio: gli insegnanti sono troppo distratti da pratiche burocratiche e possono dedicare meno tempo alla funzione principale che è l’insegnamento. Vorremmo superare tale modello di lavoro, che non ci sembra coerente con la funzione e con ruolo dei docenti. Un altro aspetto riguarda la tolleranza rispetto a comportamenti, per fortuna estremamente limitati, che non sono coerenti e consoni alla funzione educativa (come peraltro ha affermato la Corte dei conti). Pensiamo di investire risorse sulla docenza, concentrando i riconoscimenti economici e collegandoli agli impegni di tempo e all’arricchimento del profilo professionale. Occorre un ruolo nuovo dei docenti che sia coerente con l’autonomia e pensiamo di realizzare dei codici deontologici che possano tutelare la dignità della funzione insegnante.
Abbiamo anche riscontrato, sempre nei primi incontri che abbiamo avuto, esigenze che provengono naturalmente non solo dal corpo docente. Esiste un problema relativo al contratto collettivo dei dirigenti che, nonostante essi svolgano di fatto funzioni dirigenziali, risulta in una situazione di stallo. Intendiamo concludere tale vicenda contrattuale nel più breve tempo possibile, per consentire ai dirigenti di ottenere il riconoscimento rispetto alla funzione che già svolgono. Pensiamo di bandire un concorso per dirigenti in quanto ciò non avviene da dodici anni e, perciò, ci sembra indispensabile avviare al più presto un nuovo concorso.
Vogliamo naturalmente valorizzare il personale ATA, che svolge attività tecnico-amministrative, e che sicuramente sta dando un grande contributo per l’avvio dell’anno scolastico e delle autonomie.
Per ciò che concerne il mondo della scuola, credo che queste siano le prime esigenze e le prime problematiche emerse. Non penso che esse siano esaustive: sicuramente riceveremo altre segnalazioni. Considero l’incontro con la Commissione un momento importante perché sono certa che mi giungeranno indicazioni e suggerimenti, dei quali terrò conto, convinta che la scuola, l’università e, in generale, l’istruzione siano un patrimonio per il paese e, quindi, come tale vadano considerati.
Per quanto riguarda l’università, quando mi sono avvicinata, da un’ottica differente, al mondo dell’università ho trovato obiettivi che erano stati enunciati da tempo. Vorrei semplicemente riaffermare che questi sono i nostri stessi obiettivi. Essi sono semplici, ma vanno interpretati con coerenza. Il primo è aumentare il numero dei laureati, il secondo è ridurre i tempi di conseguimento della laurea, il terzo è garantire sbocchi professionali attraverso una qualità dell’insegnamento universitario che consenta ai ragazzi di trovare lavoro. Credo che l’autonomia didattica debba porsi il problema di raggiungere tali obiettivi. Va recuperata quella dispersione universitaria – che ho citato prima leggendo i dati dell’OCSE – e credo che in ciò debba esserci una azione coordinata tra Governo e mondo universitario.
Il Governo deve rendere più effettiva l’autonomia e credo che le università debbano sempre più associare il concetto di responsabilità a quello di autonomia. Le risorse devono essere indirizzate coerentemente agli obiettivi. Penso che gli studenti, con i loro bisogni, con le loro aspettative ed i loro sogni, anche per quanto riguarda l’università, vadano posti al centro dell’attenzione. Ritengo che da questo punto di vista il passaggio dalla scuola superiore all’università sia molto delicato, troppe volte in tale fase i ragazzi si sentono soli; credo perciò che sia nostro compito essergli vicino al momento della scelta dell’università, che può condizionare la loro vita futura. In tal senso sono convinta che sia necessario introdurre sistemi di accreditamento del prodotto formativo e dei sistemi di certificazione di qualità dei servizi che possano aiutare gli studenti e le famiglie a compiere scelte basate su un’informazione chiara e completa. Ritengo che a volte gli studenti si trovino soli anche all’interno dell’università durante il loro percorso universitario; sarebbe quindi opportuno affiancarli e sostenerli in modo continuativo lungo tutto l’arco della loro carriera universitaria fino al passaggio dall’università al mondo del lavoro.
Questi sono aspetti fondamentali del diritto allo studio, che devono trovare una concreta attuazione. Una vera politica del diritto allo studio deve preoccuparsi non solo di sostenere economicamente gli studenti privi di mezzi, ma anche di valorizzare i talenti migliori. Le nostre università devono inoltre sapere attrarre i migliori studenti stranieri. A questo fine sono essenziali le politiche di mobilità degli studenti sia tra le università italiane, sia tra le nostre e quelle europee, come avviene già nei maggiori paesi dell’Unione, con punte anche del 50 per cento di studenti che frequentano corsi universitari all’estero come nel caso dell’Olanda. Bisogna porre le condizioni per un’internazionalizzazione complessiva delle nostre università, favorendo in tal senso gli scambi e i periodi all’estero, oltre che degli studenti, anche i professori e i ricercatori.
Negli ultimi mesi si è acceso intorno alla riforma avviata dal decreto ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999 un vivace dibattito culturale, con richieste di rinvio della sua applicazione. Ho raccolto alcune preoccupazioni rispetto alla formula del «3 più 2». Alcuni temono che la formula del triennio si traduca in una dequalificazione della formazione universitaria, altri in un impianto troppo specialistico e squilibrato verso il «saper fare», a scapito del «sapere» e del «saper essere». Di queste preoccupazioni occorre tenere conto, ponendo attenzione a che l’attuazione della riforma non si traduca in una standardizzazione dell’offerta didattica e in una sua omologazione verso il basso. Riteniamo però che la riforma sia una prima positiva risposta, dopo decenni di immobilismo, ai gravi problemi di efficacia e di efficienza che affliggono le università. Il nuovo quadro normativo innesca un percorso di autoriforma continua dell’offerta formativa degli atenei, il cui successo dipenderà dal modo in cui le competenti strutture accademiche interpreteranno tale quadro in sede di concreta regolamentazione dei progetti formativi. In quest’ottica desta preoccupazione il fatto che i corsi di laurea siano stati definiti da molti atenei senza che sia avvenuta quella consultazione costante e puntuale da parte delle università con tutte le forze del mondo produttivo come la legge richiedeva, mantenendo in tal modo anche nel nuovo sistema quel distacco dalle esigenze del mondo del lavoro che l’università italiana dovrebbe invece colmare.
Il Governo intende, pertanto, sostenere le università che vogliono attuare subito la riforma, ed, al contempo, dare la facoltà di differire l’inizio dei corsi di studio a quelle università che sentono l’esigenza di ripensare l’attuazione della riforma. Questo sostanzialmente per tre motivi: in primo luogo, perché alcuni atenei non sono ancora pronti, intendiamo quindi dare loro la possibilità di progettare i corsi con maggiore tempo a disposizione; in secondo luogo, perché altri ritengono – in particolare le facoltà umanistiche – che l’articolazione del «3 più 2» non sia la più idonea per alcune facoltà, e vogliamo che questo argomento sia oggetto di un ulteriore approfondimento; in terzo luogo, il rinvio consentirà di monitorare il processo di riforma al fine di definire standard minimi per l’attivazione di corsi e facoltà.
Una delle criticità maggiori del sistema universitario è quella delle risorse, in particolare per quanto riguarda il diritto allo studio, l’edilizia universitaria e i fondi per la ricerca. Il nostro sistema è finanziato per l’equivalente di 14.267 miliardi di lire, come risulta dai dati OCSE relativi all’anno 1998, spesa media di molto inferiore a quella della Germania (21.502 miliardi) e dell’Inghilterra (21.997 miliardi). Inoltre, il processo di completamento dell’autonomia universitaria, attuata attraverso la riforma della complessiva offerta formativa, in linea con gli orientamenti europei, rende improcrastinabile un incremento del fondo di finanziamento ordinario. Occorre potenziare la ricerca universitaria, anche con adeguati investimenti e in questa ottica va incrementato il numero dei dottorati di ricerca e ne vanno attentamente monitorate le ricadute professionali e la qualità, evitando una mancanza di collegamento tra il mondo produttivo e la ricerca. È inoltre necessario avviare azioni preordinate all’adeguamento delle strutture edilizie e delle attrezzature didattiche e scientifiche, attraverso un rilancio della politica degli investimenti del settore dell’edilizia universitaria. Al fine di assicurare il concreto raggiungimento degli obiettivi prima indicati, andrà costantemente monitorata l’efficienza e l’efficacia dell’organizzazione della didattica; in tal senso è centrale l’apporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, che va potenziato e rafforzato. Occorre inoltre superare il sistema dei controlli preventivi di tipo burocratico, attualmente affidati alla struttura centrale del ministero ed al CUN, che creano rigidità e non ci sembrano coerenti proprio nell’aspetto più delicato e importante, quello della definizione dei percorsi formativi secondo la legge n. 127 del 1997.
Le risorse andranno complessivamente incrementate, ma in modo strettamente finalizzato al perseguimento di obiettivi essenziali e di incremento della qualità.
Anche per quanto riguarda l’università ci sembra necessaria una riflessione sui docenti, in particolare in materia di reclutamento, che va disciplinato in termini tali da consentire agli atenei di scegliere docenti di qualità. Sembra opportuno in ogni caso, in considerazione della inefficacia dei meccanismi dei concorsi recentemente riformati, segnalata dagli atenei, provvedere ad una urgente azione di rettifica normativa recuperando il sistema del vincitore unico in luogo del vigente sistema dei due candidati idonei.
Al settore della ricerca il Governo affida un ruolo di particolare importanza per il conseguimento dell’obiettivo di modernizzazione del paese. Il settore della ricerca deve contribuire in modo determinante allo sviluppo della capacità competitiva del comparto produttivo attraverso il continuo affinamento del suo livello tecnologico; occorrerà elevare la capacità formativa dei docenti universitari, chiamati tutti ad affiancare all’attività didattica una valida attività di ricerca e diffondere nel tessuto connettivo della nostra società la cultura scientifica e tecnologica, attualmente così poco presente.
Il Governo ritiene pertanto necessario ed urgente un profondo rinnovamento del settore della ricerca. Una sfida difficile se si tiene conto che nell’ultimo decennio la spesa della ricerca in Italia, partita da un valore nettamente inferiore a quella dei principali paesi europei, si è ulteriormente ridotta, in particolare è fortemente sottodimensionata la spesa per la ricerca di base; la parte pubblica del settore della ricerca italiana è afflitta ormai da molti anni da gravi patologie, quali dispersione a pioggia delle risorse, eccessivo invecchiamento della popolazione dei ricercatori. Nel settore della ricerca industriale italiana è in atto un drammatico ridimensionamento dell’attività dei centri di ricerca di grande società; inoltre non poche medie industrie, prima attive nel campo della ricerca, una volta acquistate da società multinazionali, stanno trasferendo i loro laboratori all’estero, dove le condizioni sono più favorevoli, mentre invece la quasi totalità delle PMI, così importante nella struttura economica italiana, non hanno rapporto alcuno con la ricerca. Il mercato del lavoro per i ricercatori, oltre ad essere sottodimensionato ed esposto al processo di invecchiamento degli addetti, offre prospettive che non lo rendono attrattivo e competitivo per i giovani; non si è prestata finora la necessaria attenzione a sviluppare presso i nostri ricercatori un’adeguata sensibilità e capacità di valorizzare a fini economici e sociali i risultati ottenuti in laboratorio. L’Italia si colloca nelle ultime posizioni della graduatoria dei paesi industrializzati per quanto riguarda la quota di valore aggiunto prodotto dai settori high-tech sul totale manifatturiero e l’incidenza dell’export high-tech sull’export manifatturiero.
Per superare l’attuale insoddisfacente situazione, il Governo intende porre in essere una molteplicità di azioni, che riguarderanno tutto l’articolato e complesso arco del settore della ricerca. Tali azioni, pur variamente posizionate nel tempo, verranno opportunamente coordinate tra loro, nella visione del settore come macrosistema integrato. Il fine è quello di promuovere la presenza italiana nei settori di alta tecnologia: aeronautica, spazio, difesa, informatica, energia, telematica, biotecnologia e nuovi materiali.
In particolare la spesa pubblica per la ricerca verrà gradualmente elevata nel quinquennio fino ad essere portata al livello degli altri grandi paesi europei, cioè all’1 per cento del PIL; tale elevazione consentirà ai nostri ricercatori di sfruttare pienamente le risorse messe a disposizione nell’ambito del sesto Programma quadro di ricerca dell’Unione europea, risorse che, come è noto, sono condizionate allo stanziamento di pari finanziamenti nazionali. In generale verrà potenziata nel comparto pubblico la funzione di committente della ricerca con una verifica durante lo svolgimento della ricerca e dell’utilizzazione dei risultati successivamente alla sua conclusione. Verranno introdotte, nelle disposizioni che regolano l’accesso ai fondi pubblici e la loro gestione, tutte le innovazioni necessarie a semplificare e velocizzare gli adempimenti burocratici, che rappresentano uno dei motivi per i quali le nostre imprese spostano i centri di ricerca all’estero. Vogliamo infatti facilitare tutte le iniziative, incentivando anche la ricerca privata attraverso la creazione di consorzi in ambiti specialistici che sappiano attirare l’attenzione di grandi società nazionali e internazionali, di società di venture capital e di grandi università, seguendo l’esempio di paesi come Israele. La funzione di questi consorzi sarebbe quella di «incubatore» di idee innovative in un campo particolare, in modo da facilitarne la valorizzazione industriale.
Un altro tipo d’iniziativa ritenuta interessante nelle situazioni territoriali caratterizzate da un lato da ricchezza di iniziative high-tech in un dato settore, dall’altro da debole coordinamento tra tali iniziative, è quella del distretto high- tech, che dovrà saper promuovere attraverso un’adeguata leadership un’aggregazione forte tra tutti gli attori interessati, finalizzata alla realizzazione di un numero limitato di progetti importanti. Il Governo faciliterà il più possibile l’instaurarsi tra pubblico e privato di collaborazioni, sinergie, trasferimenti di conoscenze e di ricercatori.
In sintesi ciò che si propone il Governo è di giungere nel quinquennio ad una spesa complessiva italiana in ricerca e sviluppo allineata agli standard quantitativi e qualitativi dei principali paesi europei (2 per cento del PIL), venendo così a corrispondere agli indirizzi formulati dal Parlamento europeo.
Consapevole che da questo dibattito potranno provenire suggerimenti e indicazioni che arricchiranno sicuramente le linee del nostro programma, vi ringrazio in anticipo per il vostro apporto.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per lo spirito ed il tono con il quale ha presentato la sua relazione alla Commissione. Sarebbe sicuramente un serio problema se la scuola divenisse il pretesto per una contesa politico-ideologica e non il terreno per un confronto di opinioni che abbia a cuore il futuro del paese. Credo che a questo stesso spirito e a questo stesso tono si debba ispirare l’intera classe politica e parlamentare nell’affrontare il lavoro su quello che rappresenta il nervo portante per il futuro di qualsiasi società.
Passiamo ora agli interventi e alle domande che i membri della Commissione intendono rivolgere al ministro.
GIUSEPPE GAMBALE. Signor ministro, anch’io la ringrazio per il tono della sua relazione, sicuramente diverso da quello di altri suoi colleghi, sia in questa sia in altre Commissioni, fatto che rilevo con piacere. È difficile dissentire dalle sue parole dopo un intervento del genere, perché non si può non essere d’accordo su tutti punti che lei ha appena elencato. Tutto ciò da una parte suscita ottimismo, dall’altra invece preoccupa, perché non sono certo che discutendo quelli che definirei i sottocapitoli dell’indice da lei presentato saremo veramente d’accordo: il tempo ed il confronto ci aiuteranno poi a capirlo.
Non è facile entrare nel complesso mondo della scuola, lo dico per esperienza personale sia pure rivestendo minori responsabilità. Credo quindi che le occorrerà un po’ più di tempo per riuscire a comprendere che tante delle cose che lei ha proposto, e che noi condividiamo, sono già realtà grazie alle riforme attuate nella scorsa legislatura.
Con riferimento ai livelli bassi di scolarizzazione nel nostro paese, cui prima accennava il ministro e di cui tutti, purtroppo, siamo a conoscenza, non dobbiamo dimenticare che esiste già un intervento che è stato posto in essere, anche se certamente ci sono spazi per incrementarlo e migliorarlo. Il centrosinistra ha dato vita, anche in via legislativa, al sistema integrato di formazione che comprende il sistema istruzione, il sistema formazione professionale e l’offerta non formale: il grande tema dell’educazione degli adulti. Anche se fosse stato un tipo di intervento insufficiente, comunque abbiamo dato una risposta; eventualmente si tratterà di potenziarla. Sicuramente i livelli con cui questa risposta è cresciuta sono stati esponenziali. In due anni i centri territoriali permanenti di educazione per gli adulti sono passati da 40 a 400 e, poi, a 700. La dottoressa Nardillo, che ha istruito e successivamente seguito tutta questa fase, ha svolto un lavoro enorme insieme a tanti altri soggetti della società civile che operano sul territorio.
Sarebbe certamente presuntuoso dire che abbiamo fornito la «risposta» al problema: si tratta di una delle possibili risposte, anche se sicuramente significativa e importante. Peraltro, queste non sono problematiche che si risolvono in breve tempo, come lei certamente saprà; si tratta bensì di riforme strutturali che necessitano di tempo adeguato, affinché si possano vedere i risultati concreti.
Lei, signor ministro, prima diceva che il mondo della scuola e quello del lavoro sono sempre più lontani. In questi anni, il centrosinistra ha cercato di avvicinarli, introducendo anche aspetti fortemente innovativi, dapprima con il Governo Prodi e successivamente con i governi D’Alema e Amato. L’idea di inventare un percorso integrato post diploma, l’IFTS per avviare una collaborazione in percorsi nuovi, tra scuola e università da una parte, e mondo della produzione e del lavoro dall’altra, ha rappresentato certamente una delle risposte possibili per avvicinare queste due realtà. Sappiamo tutti che spesso i ragazzi fuoriescono dal mondo scolastico e poi si scontrano con una realtà professionale completamente sconosciuta, ma credo che, sotto questo aspetto, delle risposte al problema siano state date.
Con riferimento a quanto detto dal ministro sul tema dell’organizzazione, con l’obiettivo di perseguire un disegno complessivo che integri il centro, le regioni, e le scuole autonome, vorrei dire che si dovrebbe dare efficacia ed efficienza alla riforma già approvata. In effetti, il Ministero della pubblica istruzione è uno dei pochi che è stato riformato e che si sta tutt’ora riformando. Il ministro avrà probabilmente già incontrato i direttori regionali, i quali avranno espresso le difficoltà, le incertezze e il fatto che i centri di spesa non sono ancora operativi, in quanto disporranno di risorse finanziare soltanto a partire dal primo gennaio prossimo, a meno che non decidiate di intervenire diversamente. Però, la vostra idea di capovolgere una piramide – e il Ministero della pubblica istruzione è anche fisicamente e plasticamente l’immagine della burocrazia centralizzata – è già stata nostra. Tuttora essa si presenta come una struttura ancora fortemente burocratizzata, dal momento che il percorso è solo iniziato, laddove invece la mentalità – di cui il provveditorato agli studi ne era forse il simbolo con tutta la montagna di fascicoli cartacei accumulati nelle sue stanze – la si cambia più difficilmente e più lentamente. La vostra intenzione di continuare nell’opera da noi intrapresa ci rende ben contenti e sappiate che ci troverete comunque al vostro fianco ogni qual volta si tratterà di snellire la parte burocratica per andare verso una gestione regionale dell’apparato burocratico.
La sua relazione, signor ministro, è stata una enunciazione di principi, su gran parte dei quali siamo d’accordo, in quanto rappresentano la continuazione di ciò che già noi abbiamo fatto in questi cinque anni appena trascorsi. Piuttosto, è su ciò che verrà che avremo, com’è normale che sia, probabilmente opinioni diverse e proprio su quelle dovremo approfondire il confronto politico e istituzionale in questa Commissione.
Con riguardo al tema dell’autonomia, cui prima il ministro accennava, vorrei dire che mi aspettavo qualcosa in più, anche nel documento di programmazione economico-finanziaria. Il ministro sostiene che dobbiamo mantenere i curricula nazionali e poi dare lo spazio giusto alle altre istanze perché l’Italia è una realtà molto diversificata, è il paese delle regioni e delle cento città. Ebbene, siamo pienamente d’accordo: l’idea che il piano di offerta formativa contempli al suo interno un 15-20 per cento di offerte che ogni singolo istituto può predisporre, riflette infatti una realtà già esistente. Perciò condivido lo spirito e gli obiettivi di questa proposta, così come condivido la considerazione del presidente sul fatto che la scuola sia patrimonio di tutti e che non debba essere, pertanto, oggetto di scontro politico o, perlomeno, di faziosità politica. Per questo motivo nel dibattito sulla fiducia al Governo Berlusconi sono intervenuto esprimendo apprezzamento per il suo silenzio, signor ministro, nei confronti delle esternazioni rese da alcuni suoi colleghi, i quali nei primi giorni di vita del Governo, non essendo ancora titolari di deleghe particolari, si sono occupati in maniera eccessiva della scuola dichiarando che il Governo avrebbe bocciato la riforma dei cicli e così via. In questo momento, ascoltando le sue parole, signor ministro, comprendiamo che non vi è nessuna intenzione di bloccare la riforma dei cicli scolastici, che è ormai entrata nella mentalità e nella vita quotidiana della scuola. Sarà forse opportuno inserire alcune modifiche: in tal caso saremo presenti per ragionare e per portare il nostro contributo.
Sul tema dell’autonomia, comunque, siamo convinti che la grande riforma sia stata la stessa autonomia ed è proprio questo aspetto che va potenziato; se infatti è sicuramente vero che la scuola italiana vive un periodo di grande sofferenza, è altrettanto vero che essa è dotata di grandi potenzialità. Ad esempio, vorrei ricordare che la scuola del Mezzogiorno, forse afflitta da maggiori difficoltà, è stata l’unica realtà capace di utilizzare tutti i fondi stanziati dall’Unione europea, laddove tanti altri settori non sono invece riusciti a farlo. E difatti, l’Unione europea ha aumentato le risorse a disposizione della scuola, proprio perché è l’unico settore che è riuscito ad investirle.
Un altro tema delicato, su cui il ministro si è soffermato nella sua relazione, è che lo Stato non può essere l’unico soggetto che si fa carico della formazione del capitale umano. Sotto tale profilo, la legge n. 62 del 2000 ha aperto la strada del sistema pubblico integrato. Il centrosinistra è favorevole al mantenimento di un sistema di istruzione pubblico che sia, allo stesso tempo, pienamente integrato. Un sistema, dunque, in cui lo Stato, in base all’attuale dettato costituzionale, svolga la sua parte e nel quale, oltre al soggetto pubblico vi sia, con pari dignità, un pluralismo di offerta formativa proveniente sia da soggetti religiosi (di qualsiasi religione) sia da soggetti laici. Da questo punto di vista, rivendichiamo con forza che dopo 40 anni siamo riusciti, con il Governo Prodi e con quelli che si sono susseguiti, ad aprire la strada a questa importantissima riforma. Se la vostra idea è quella della partecipazione, in questo sistema di istruzione pubblico, di soggetti esterni allo Stato, siamo disponibili, anche perché si tratta di un percorso già avviato dal centrosinistra. Non a caso nel decreto-legge attualmente in discussione, anche se esprimiamo forti preoccupazioni e perplessità per la soluzione trovata per l’avvio dell’anno scolastico, vi è un passaggio normativo relativo al riconoscimento dell’eguale punteggio delle scuole paritarie, che ci trova favorevoli; è giusto, infatti, che gli insegnanti che lavorano in queste scuole abbiano un uguale trattamento rispetto al riconoscimento dell’attività da loro svolta.
Esprimiamo, invece, perplessità rispetto all’agenzia esterna di valutazione, con riferimento alla quale questo pomeriggio sarà rivolta, in aula, una interrogazione a risposta immediata al Governo.
Personalmente mi spaventa sentir parlare di agenzie «autonome». Ritengo, infatti, che si siano già prodotti gravi danni, per la nostra democrazia, con l’istituzione di tutte le Authority possibili e immaginabili: in un sistema democratico le Authority non servono, perché esistono già il Parlamento e il Governo e dobbiamo cercare di trovare proprio in essi le adeguate forme di controllo. Più Authority istituiamo, più deleghiamo non so a chi, a cosa e dove, il potere di controllo rispetto a questioni anche importantissime che possono riguardare vari settori della vita del nostro paese. Vorrei in proposito far presente che già esiste un istituto per la valutazione, peraltro riformulato recentemente. Mi lascia perplesso, e vorrei comprendere meglio, quanto scritto nel DPEF dal quale risulta che vengono destinate risorse alla creazione dell’agenzia autonoma che dovrà anche valutare i risultati raggiunti e l’operato dei docenti. Su questo argomento esistono, pertanto, da parte nostra perplessità e vorremmo capire meglio quale sia il vero obiettivo della suddetta agenzia.
La scuola, infatti, è già uscita dalla sua autoreferenzialità, perché si è già messa in discussione con altri soggetti. L’introduzione di aspetti innovativi, come ad esempio i «poli per la qualità», avviati in alcune zone del paese insieme all’Unione industriali e, più in generale, al mondo della produzione, sono tutti aspetti che hanno già posto la scuola in discussione con il mondo esterno. Quindi, in tal senso le riforme sono state già avviate e devono solo essere portate avanti affinché vi sia un rapporto sempre più stretto tra il mondo della scuola e quello dell’università. Sotto questo aspetto, l’aver unificato i due ministeri, quello della pubblica istruzione e quello dell’università, rappresenta per noi un punto molto importante, perché ci deve essere una guida unica nel sistema di istruzione e di formazione sia dal punto di vista scolastico, sia da quello universitario: non possono esistere due settori separati.
Sul tema della formazione professionale, sul quale il ministro si è soffermato, vorrei dire che l’obbligo formativo fino a 18 anni rappresenta un risultato importante, già avviato e da potenziare attraverso la creazione di nuovi strumenti per dare attuazione a questa realtà. Però, ripeto, sono aspetti, comunque, positivamente già posti in essere.
Voglio sottolineare che siamo qui per fare opposizione e la faremo in modo anche duro quando sarà necessario, però la faremo con lo stile e con il vigore di chi si sente forza di governo.
Pertanto, l’invito che rivolgo al ministro, dal momento che è venuto in Commissione con un tono e con uno stile molto positivo che aiuta certamente la discussione ed il confronto, è il seguente: che possa diventare il più possibile continuatore di un’azione di governo. Mi rendo conto che rappresentate un altro schieramento politico e avendo vinto le elezioni, porterete avanti il vostro programma in conformità alla volontà degli elettori. Ma quando noi del centrosinistra abbiamo cominciato nel 1996 a governare il paese, pur avendo trovato un’Italia allo sfascio, non abbiamo scaricato le nostre responsabilità su altri: sul debito pubblico, su chi l’aveva creato e così via. Abbiamo detto, all’epoca, che era opportuno guardare avanti perché c’era l’Europa che ci attendeva. Pertanto, la invito, signor ministro, a capitalizzare quanto è stato già fatto e a considerarlo un patrimonio del paese: anche la scuola è patrimonio di tutti. Capitalizzi – ripeto – quanto è stato già fatto di positivo, poi avremo modo di guardare avanti; in futuro ci saranno aspetti sui quali certamente ci divideremo, discuteremo e ci confronteremo in quanto il vostro orizzonte non coinciderà con il nostro. Ma quando le mete e gli obiettivi saranno comuni, ci troverete sicuramente al vostro fianco, proprio perché la scuola è – ripeto – patrimonio di tutti.
In conclusione, le vorrei far presente, signor ministro, che ha compiuto un atto sul quale vi è la nostra ferma contrarietà: il ritiro del ricorso presentato alla Corte costituzionale nei confronti della decisione adottata dalla regione Lombardia sul buono-scuola. Riteniamo si sia trattato di un atto pesante e vorremmo che alcuni principi contenuti nel dettato costituzionale vigente, vengano mantenuti e rispettati. Poi, ripeto, ognuno potrà comportarsi come vuole introducendo nell’ordinamento tutte le innovazioni che ritiene opportune. Ricordo che su quell’atto abbiamo assunto una posizione fortemente divergente e critica che mi permetto di sottolinearle, signor ministro, in modo che nella sua replica possa fornirci l’occasione per un maggiore approfondimento.
GIORGIO GALVAGNO. Consapevole del fatto che per i nostri interventi sono previsti pochi minuti, non intendo utilizzare tutto il tempo, molto autorevolmente impiegato dal collega che mi ha preceduto.
Vorrei dire, in primo luogo, che ho apprezzato gli obiettivi e la filosofia che hanno ispirato l’intervento del ministro sui vari argomenti: sul ruolo della scuola, sull’analisi globale del rapporto con la società, con l’economia, con lo sviluppo, in una visione antropocentrica della funzione scolastica e così via.
Sui principi generali nel campo dell’educazione scolastica, dell’università e della ricerca sono d’accordo e convinto che questa sia la strada giusta da percorrere, senza lasciarsi prendere dal desiderio di mettersi necessariamente tutti d’accordo. Esiste una linea programmatica, illustrata al nostro elettorato, che le parole del ministro hanno ben indicato.
Sono consapevole che sui temi generali si rischia di essere sempre tutti d’accordo, perché sono talmente generali che è difficile non condividere la valorizzazione dell’uomo nei suoi vari aspetti; il problema sorge quando si procede alla scelta dei metodi. In proposito, in base all’intervento dell’onorevole Gambale che mi ha preceduto, possiamo già constatare che di fronte ad alcuni aspetti, che hanno leggermente modificato l’impostazione originale, vi è una posizione di contrarietà: pertanto non c’è da illudersi; anche perché il tema della scuola rappresenta un terreno di scontro politico, purtroppo è negativo che sia così, ma dobbiamo prenderne atto. È uno dei campi sui quali si è maggiormente scatenato il dibattito ideologico, producendo i maggiori danni; sono, pertanto, d’accordo sull’invito ad essere molto prudenti nel trattare questo tema.
Occorre anche avere il coraggio di rinunciare a qualcosa per non essere troppo ideologici nell’affrontare tali argomenti; purtroppo, vorrei far notare che è stato proprio il Governo precedente che ha dato un certo taglio di tipo ideologico alla gestione delle problematiche del mondo dell’istruzione.
Trovandomi, quindi, pienamente d’accordo con quanto detto dal ministro, vorrei ora accennare ai metodi che verranno utilizzati per raggiungere questi risultati.
Lei, signor ministro, ha proposto di ispirarsi, nel mondo della scuola, a metodi che esaltino la libertà; ricorrendo a scelte educative anche di tipo diverso e con il coinvolgimento del settore privato: non può esserci infatti il monopolio dello Stato nell’educazione. Ha parlato anche della tolleranza che deve avere la scuola pubblica, dove deve trovare spazio il pluralismo. Deve esserci libertà all’interno della scuola e, altresì, libertà di scelta fra differenti sistemi educativi. Ha parlato, inoltre, dell’esigenza di riportare la scuola ad una nuova forma di serietà. Su questo tema, essendo stato insegnante nella scuola superiore per tanti anni, posso dire di aver fatto un’esperienza completa. Devo confessare che l’abbassamento del livello qualitativo della scuola, verificatosi negli ultimi anni, non è stato veloce e repentino, bensì costante e sistematico. Oggi la scuola è molto dequalificata; un ragazzo che esce con il diploma attuale è un giovane che ha frequentato una buona scuola media inferiore.
Una volta la scuola media aveva, per certi aspetti, quasi gli stessi contenuti della scuola superiore di oggi. Qualcuno mi dirà che sono esagerato, ma provi ad andare a scuola! Non so quanti in quest’aula abbiano insegnato: bisogna stare con i ragazzi e seguirli continuamente, per rendersi conto di cosa vuol dire fare una domanda e sentirsi rispondere «vado a pescare». Gli studenti poi vengono promossi: questa è la realtà.
Sono d’accordo sull’obiettivo di elevare la cultura generale, anche se ciò comporta un abbassamento del livello medio (è successo in tutti i paesi). La scolarizzazione va favorita e vanno aiutati i ragazzi e lei, signor ministro, lo ha detto, ma vi è un momento nel quale di fronte a questo bisogno di massa (che significa aumentare il numero di giovani ammesso alla scolarizzazione superiore) occorre introdurre anche i requisiti di eccellenza e qualità, altrimenti non verrà mai perseguita. Essa non è presente per esempio all’università perché si attuano cicli di studio strani. L’attuale modello è pericoloso: se non vi è la qualità il mondo del lavoro, invece di accogliere i giovani, li rifiuta («sei stato a scuola e allora rimani a casa»). Qualità e serietà significano che lo studio è anche qualche cosa che si svolge solitariamente. Ai ragazzi bisogna far capire che lo studio non è soltanto quello con il computer, con il gruppo, con l’interazione, ma che vi è anche uno studio solitario, laborioso e faticoso – come abbiamo fatto tutti – attraverso il quale ognuno matura e apprende. Occorre, quindi, valorizzare il momento della selezione e della prova: la vita è fatta di prove.
Ora farò un’affermazione per la quale qualcuno dirà che sono out: vi rendete conto, signor ministro, signori sottosegretari, di cosa sono diventati nelle scuole i corsi di recupero che abbiamo tanto caldeggiato? Qualcuno tra voi ha svolto corsi di recupero e sa cosa sono? È qualcosa di vergognoso. Ad esempio, molte scuole attuano il corso di recupero di italiano in questo modo: si abolisce una settimana di scuola per svolgere il corso di recupero, in modo che gli studenti bravi stanno a casa e invece quelli che devono recuperare vanno a scuola. In tale modo, però, si riduce il numero di ore di italiano rispetto a quello del corso curriculare: è bene che queste cose si sappiano.
Il bambino e il ragazzo hanno dei cicli di crescita intellettuale e culturale diversi l’uno dall’altro. Io, ad esempio, sono andato all’università e mi sono trovato molto bene, ma amavo studiare anche d’estate. Vi era chi studiava tanto e alla fine dell’anno veniva promosso, mentre io sfruttavo l’estate per fare qualcosa. L’elasticità e la flessibilità della scuola, che noi tanto invochiamo, erano forse meglio raggiunte attraverso gli esami di riparazione e il problema di prendere lezioni private e pagare un professore potrebbe essere risolto con una articolazione della scuola che consenta ad uno studente di apprendere in sei mesi, ad un altro in sette, ad un altro ancora in otto. Ciò vale anche per i cicli scolastici: chi ha detto che per ottenere un diploma occorre impiegare quattro anni? È una forzatura, è una violenza che si compie nei confronti di menti un po’ più rigide o con uno sviluppo leggermente più problematico. Occorre attuare la flessibilità con serietà: vi è chi ci mette un po’ più tempo, chi un po’ meno. Concludo osservando che ho voluto banalizzare alcuni argomenti: vi sono persone che espongo benissimo i loro argomenti, con una organicità ed una compiutezza terminologica che lascia incantati, ma che nella pratica producono nella scuola i disastri dei quali pagheremo, e stiamo pagando, le conseguenze.
ANTONIO RUSCONI. Mi associo ai ringraziamenti espressi dal mio capogruppo, onorevole Gambale. Ritengo che l’inizio dell’attività sia estremamente positivo. Voglio, però, svolgere alcune considerazioni che non intendono essere critiche, perché sarebbe superficiale e fuori luogo. Sono molto coinvolto emotivamente perché, per la prima volta dopo tanti anni, a settembre non tornerò a scuola ad insegnare. Mi scuso anticipatamente, ma alle 17 dovrò assentarmi anch’io per partecipare ai lavori dell’Assemblea. Per la prima volta cerco di capire cosa possiamo fare per coloro che sono rimasti nella scuola, per i miei colleghi che venerdì incontrerò di nuovo, cercando veramente di evitare ogni polemica sul prima e sul dopo: lo faranno i nostri leader politici e, poiché non appartengo a questa sfera, l’argomento non mi appassiona.
Voglio cominciare da un interrogativo: la scuola può diventare per lo Stato una priorità? Questo è il primo problema, poiché quando parliamo delle risorse tutti riteniamo che debbano essere prelevate da qualche altra parte. Se davvero la scuola diventa per noi un investimento e una speranza, penso che nessuno possa essere in disaccordo riguardo al fornire più risorse alla scuola, poi possiamo discutere come farlo.
Non mi soffermo sul tema della ricerca in quanto sono completamente d’accordo con la relazione del ministro. Mi ha fatto piacere quanto ha detto il ministro a proposito dell’università. Ho avuto recentemente un’esperienza estremamente positiva: tutti i rettori delle università lombarde, attraverso Assolombarda, il presidente Benedini, il presidente Perini, hanno incontrato lunedì 9 luglio i parlamentari lombardi (eravamo 17 ma dovevamo essere di più, almeno per una questione di scaramanzia). È stato chiesto un tavolo comune tra rappresentanti delle istituzioni e parlamentari della regione Lombardia e, benché conoscessi per vicende legate al mio territorio soltanto i professori De Maio e Secchi, ho trovato estremamente utile portare avanti tale strumento. Si è preso atto di come gran parte degli istituti cosiddetti tecnici (Bocconi, Politecnico) si fossero di fatto già adeguati alla riforma. Illustrerò dunque alcune questioni emerse durante l’incontro. Mi sembra che nell’immaginario collettivo vi sia un dato sbagliato: si ritiene che la laurea in 3 anni (che a mio avviso è estremamente positiva perché cerca di eliminare un disagio tipicamente italiano, e cioè la dicotomia tra quanti si iscrivono e quanti concludono il corso universitario) sia una sorta di laurea di serie B. Ciò è sbagliato e ed è anche l’obiettivo, dal punto di vista della comunicazione, sul quale lavorare per far capire che non si tratta della laurea dei poveri, ma di un obiettivo importante.
Il secondo dato riguarda il reclutamento dei docenti: come mai tanti bravi laureati, tanti «cervelli» (in questo caso lombardi) vanno ad insegnare ed a fare carriera presso università estere? Ciò non è vietato, ma esprime comunque un disagio.
Per quanto riguarda il terzo argomento, so di toccare un punto molto delicato: il valore legale dei titoli che è correlato a quello degli albi professionali. Lei, signor ministro, non ne ha accennato ed io non ho la soluzione (quindi, da questo punto di vista la rassicuro) del problema che, indubbiamente, è legato – ripeto – a quello ancor più delicato degli albi professionali, in quanto tutti siamo favorevoli all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, a responsabilizzarli, a creare nuove possibilità, però mi sembra che oggi i due dati non corrispondano.
Per quanto concerne la scuola superiore, premetto che sull’attuazione della legge n. 62 del 2000 sono completamente d’accordo con il mio capogruppo, onorevole Gambale. Le risorse, però, sono state previste soltanto per le scuole materne e elementari, mentre rispetto alle altre, che peraltro sono le più costose, occorre sapere se si prevedono risorse aggiuntive. D’altra parte, vorrei evidenziare perché, pur essendo in principio favorevole al buono-scuola, sono contrario alla riforma della regione Lombardia? Perché essa rischia di premiare i diplomifici rispetto alle scuole serie e paritarie. Sono insegnante di ruolo da 16 anni, dal 1986, presso un istituto statale, ma ho avuto l’onore di insegnare anche per due anni in un collegio arcivescovile: l’istituto dove ho lavorato in tutti questi anni è una scuola molto seria, anche se ai ragazzi dicevo scherzando: «Guardate che dovete impegnarvi per farvi bocciare da noi». Ricordo che ogni anno accadeva che alunni del terzo anno con parecchie insufficienze a febbraio cambiassero istituto, andassero cioè in uno di quei diplomifici che sarebbero premiati dalla riforma Formigoni; in quattro mesi recuperavano due anni e non riuscendo a darmi una risposta seria dal punto di vista didattico immaginavo gite scolastiche a Lourdes. Dico ciò pur credendo pienamente nella parità scolastica e nella libertà educativa.
Vi è poi un secondo motivo per il quale siamo critici verso la riforma Formigoni. Ho dovuto frequentare sempre scuole statali in quanto le condizioni della mia famiglia erano tali che, pur preferendo scelte di libertà educativa che andavano in altra direzione, non ammettevano altre possibilità. Ora, destinare il 20 per cento a tutti, soprattutto a chi spende di più, posto che le risorse sono limitate, significa dare lo stesso contributo in modo indistinto. Il principio è giusto poiché dovremo arrivare al punto che tutti gli insegnanti e tutte le scuole sia statali, sia paritarie siano pagati dallo Stato. Essendo le risorse limitate, attribuire lo stesso contributo a chi ha un reddito familiare di 60 milioni e a chi ne ha uno di 200 milioni, trattare cioè ugualmente realtà diverse, contribuisce ad aumentare le diversità. Ritengo peraltro che tutte queste scuole siano pubbliche, perché svolgono una funzione pubblica, come affermato molto chiaramente dalla legge n. 62 del 2000. Condividiamo pienamente tale legge, ma ciò non significa – come qualcuno ha detto – assegnare un ruolo residuale alla scuola statale. Chi, come me, ha insegnato, fino a pochi mesi fa, nella scuola superiore statale è pieno di incertezze alle quali non è possibile aggiungere ulteriori incertezze.
Rispondo al collega che mi ha preceduto precisando che ho grande stima degli insegnanti e che la scuola italiana talvolta ha funzionato bene nonostante le leggi dello Stato. Vi è stata una demonizzazione del personale insegnante ed un’umiliazione del tutto immeritata, mentre occorre rivalutare il ruolo del docente anche dal punto di vista remunerativo: dopo 16 anni di ruolo il mio ultimo stipendio è stato 2.220.000 lire, e lei, signor ministro, capisce che il mio status di parlamentare ha notevolmente migliorato questa condizione. Insegno presso un istituto tecnico per ragionieri nel quale il docente di diritto è laureato in legge, quello di economia aziendale è laureato in economia e commercio. Quali motivazioni possiamo dare ad un giovane laureato con i migliori voti per convincerlo ad impegnarsi nella scuola, visto che dovrebbero essere i migliori ad insegnare? Nell’immaginario collettivo non è così, e tale dato ci deve preoccupare fortemente. Quando sono entrato in ruolo, peraltro, vi erano i cosiddetti benefit che, considerati ingiusti, sono stati eliminati, ma la considerazione e lo stipendio sono rimasti uguali. Voglio citare il caso di una mia collega che insegna economia aziendale: nel 1992 per scelta familiare ha lasciato l’Unione industriali, dove aveva un ruolo di responsabilità, per insegnare economia aziendale (non aggiungo altre considerazioni al riguardo, che lascio immaginare).
Un aspetto che lei ha toccato marginalmente è quello del cosiddetto doppio binario della formazione professionale. Tra forze di centrosinistra e forze di centrodestra abbiamo forse valutazione diverse. L’argomento mi interessa almeno in termini di confronto, ma pongo un problema: come si fa a credere nel doppio binario – e io lo posso anche fare – di fronte a due situazioni di fatto, che ora illustrerò? Dall’Italia centrale in giù la formazione professionale è stata praticamente abbandonata dalle regioni e nella stessa Lombardia vi sono stati «tagli» di risorse del 15 per cento negli ultimi due o tre anni, obbligando i centri ad inseguire, con difficoltà enormi, i fondi sociali europei. Sono convinto che uno degli aspetti che non funzionano della riforma varata dal mio Governo è il fatto che i ragazzi sono inutilmente parcheggiati per un anno nella scuola superiore, senza peraltro nessuna alternativa. Vi sono le convenzioni con i centri di formazione professionale e ritengo che ciò sia un argomento da approfondire; dobbiamo evitare la scontro tra due scuole di pensiero, senza argomenti validi, altrimenti rischiamo di condurre una battaglia ideologica senza un confronto costruttivo.
Per quanto riguarda la riforma dei cicli, sulla quale do una valutazione in gran parte positiva, faccio un appello bipartisan: perchè non avviamo la riforma almeno per gli elementi del biennio iniziale che rappresentano un dato di innovazione e di modernizzazione, come l’inglese e l’informatica? Vi sono, cioè, alcuni aspetti della riforma dei cicli sui quali siamo tutti d’accordo. Perché non investire nell’innovazione? Mi sembra che nella scuola vi sia una preoccupazione forse eccessivamente tecnologica, mentre non dimenticherei l’aspetto educativo. Chi, come me, ha insegnato ed ha la preoccupazione di non sostituirsi al ruolo della famiglia, nota la carenza, nella scuola superiore, di figure come, ad esempio, quella dello psicologo. Riguardo a tali carenze noi insegnanti abbiamo una preparazione inadeguata: possiamo frequentare tutti i corsi di aggiornamento, ma rimarremo inadeguati.
Voglio illustrare ancora due punti prima di concludere, chiedendo scusa per la lunghezza del mio intervento. Spero che anche il ministro sia contrario ad alcune proposte di scuole regionali. Vengo da Lecco e sono fiero che il Manzoni venga insegnato in tutte le scuole d’Italia, che I promessi sposi sia un testo ancora obbligatorio nel biennio della scuola pubblica, come sono altrettanto fiero di spiegare, al quinto anno della scuola superiore, Pirandello. Dico ciò perché, parafrasando Croce, vorrei che tutti affermassimo «perché non possiamo non dirci italiani»: in questo momento, sarebbe già molto.
Per quanto riguarda il federalismo, possiamo trovare la risposta più vera nella volontà che abbiamo di fornire una reale autonomia, anche gestionale, a tutte le scuole.
ALBA SASSO. Nel ringraziare il ministro per la sua relazione, vorrei fare subito due premesse, riprendendo alcuni temi sollevati dal ministro Moratti, per poi formulare osservazioni sul programma da lei esposto.
Il ministro propone una riflessione sul ruolo e sulla finalità dei sistemi di istruzione e di formazione nelle società della conoscenza. Viviamo in un mondo caratterizzato dall’innovazione delle tecnologie della comunicazione, il quale non diventerà automaticamente una società della conoscenza, dove il bene dell’istruzione sia garantito a tutti, se non si compiranno scelte politiche. Mi convince molto l’idea ripetuta in più interventi secondo cui il sistema della formazione debba oggi servire ad elevare complessivamente il livello di istruzione dell’intera popolazione italiana. Come l’onorevole Gambale, vorrei ricordare che sul terreno della diffusione dei livelli culturali e dell’intervento riguardo alla popolazione adulta, il Governo precedente (ma anche prima dei cinque anni trascorsi) si è molto impegnato: non si tratta di interventi formativi previsti solo nei momenti di passaggio tra una fase e l’altra della vita lavorativa, ma di qualcosa di più profondo. L’educazione degli adulti risponde ad un bisogno profondo di apprendimento, che è anche un bisogno di vita della nostra popolazione: non è un caso (l’onorevole Gambale ha citato i dati) che la domanda di educazione degli adulti sia esplosa in questi anni. Negli ultimi cinque anni di Governo, sono state compiute una serie di scelte, per esempio, nel campo della formazione specializzata, come i corsi di formazione superiore integrata – che non mi sembra di aver sentito nominare dal ministro – che hanno affrontato il livello della formazione superiore tra diploma ed università.
Tra i dati citati dal ministro, ne esiste uno più preoccupante di altri, quello dell’analfabetismo di ritorno, che in Italia è alto, ma è molto più alto in paesi come gli Stati Uniti d’America, anche dopo 10 o 12 anni di scolarità. L’idea della formazione permanente e ricorrente è vincente, perché il periodo della formazione non è limitato solo alla prima fase della vita, dai 3 ai 18 anni, ma si estende per accompagnare i cittadini nell’intero arco della propria esistenza: in tal modo si può impedire l’analfabetismo di ritorno che, purtroppo, è una condizione reale, come dimostra la recente inchiesta sul servizio di leva, da cui è emerso che la maggioranza di quei ragazzi non riesce a formulare o comprendere un breve messaggio scritto. Credo che queste premesse siano alla base della politica del centrosinistra sulla riforma dell’istruzione e della formazione. Non possiamo pensare che il sistema complesso della scuola – qualche anno fa il CENSIS descriveva la scuola come una petroliera lenta a far manovra – si possa governare solo dall’alto, a colpi di decreti o con soluzioni lampo di problemi che in cinquant’anni nessuno è riuscito a risolvere. La scuola, infatti, è un corpo lento perché rispetta i tempi della vita e dell’apprendimento (che sono tempi naturali), ma anche attento e vigile.
Il centrosinistra, ponendo queste premesse, ha impostato una campagna di riforme di sistema. Da trent’anni assistiamo a riforme parziali, generose, utili (come la riforma della scuola media, delle elementari, le sperimentazioni della scuola secondaria superiore) che non hanno risolto il problema vero del nostro sistema scolastico: don Milani trent’anni fa diceva che esso è rappresentato dai ragazzi che perde, dalla dispersione e dallo spreco di intelligenze. La dimensione dell’eccellenza non sarà mai raggiunta se essa non si coniugherà con l’allargamento della platea degli aventi diritto: i migliori non possono essere selezionati se non si amplia la platea.
Il problema che si è posto il centrosinistra è stato quello della riforma di sistema: riformare contemporaneamente la scuola dai 3 ai 18 anni, la formazione professionale, creando «passerelle» tra questi due sistemi; la formazione superiore integrata e al tempo stesso l’università, nell’ottica dell’educazione permanente e ricorrente. Non è possibile pensare ad una riforma dell’istruzione se non come ad una riforma di sistema, una riforma che, come il ministro ha detto, vuole mettere al centro la persona che apprende: questo è il tema essenziale che ci troviamo oggi di fronte. La persona che apprende, con le sue diversità, i suoi tempi, la sua storia, la sua cultura, perché oggi – mi riferisco all’onorevole collega che mi ha preceduto – nelle nostre classi non troviamo un pubblico selezionato che viene da una stessa cultura, storia e tradizione, ma la sfida della multiculturalità, alla quale un paese moderno deve saper rispondere, valorizzando attitudini, scelte, comportamenti che nascono da storie e culture diverse. La riforma della scuola come sistema e la scelta dell’autonomia rispettano queste esigenze: l’autonomia non è solo uno strumento di organizzazione del lavoro (è anche questo), come non è solo un modo per riequilibrare alcune situazioni.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GUGLIELMO ROSITANI
ALBA SASSO. Essa è la libertà delle scuole di poter attuare percorsi differenziati per raggiungere obiettivi comuni: credo che questo sia il tema che abbiamo di fronte oggi.
Il ministro ha parlato di una scuola lontana dal mondo del lavoro: è vero, ma anche il mondo del lavoro è lontano dalla scuola perché esso spesso chiede – mi riferisco alla ricerca Eurispes di qualche anno fa – basse qualificazioni. Credo che il nostro paese sia in testa a quelli dove, purtroppo, esiste il cosiddetto fenomeno della fuga dei cervelli. Dobbiamo ragionare rispetto ad un sistema dell’istruzione. Non mi convince l’affermazione del ministro, sulla riforma dei cicli, a favore di una formazione professionale dai 14 ai 21 anni, come canale parallelo rispetto al percorso dell’istruzione. I colleghi che mi hanno preceduto hanno sottolineato il fatto che la formazione professionale non funziona: è la verità, ma credo che Ministero del lavoro e Ministero della pubblica istruzione debbano congiuntamente impegnarsi affinché essa funzioni e non costituisca una branca subalterna del sistema o il canale di raccolta di coloro i quali non ce la fanno, come è stato per tutti questi anni. Non mi convince una canalizzazione precoce, che differenzia i percorsi dopo i 14 anni. Altri paesi ci hanno provato, come per esempio la Germania, che poi ha abbandonato questa scelta perché i lavoratori che a 14 anni avevano interrotto il percorso formativo non avevano le competenze di base necessarie per continuare ad apprendere e una volta espulsi dal mercato del lavoro non riuscivano più ad apprendere i nuovi saperi e le nuove tecnologie. Credo che non saremo d’accordo sulle proposte che avanzerete su tale questione anche se ne dovremo discutere e ragionare in modo approfondito.
Un altro tema che vorrei sollevare riguarda l’affermazione del ministro sul fatto che lo Stato non possa essere l’unico promotore del valore del capitale umano nel campo dell’istruzione. Il ministro mi convince quando afferma che lo Stato dovrà continuare a garantire il principio di eguaglianza e di equità sociale, rafforzando il proprio ruolo di controllo e di indirizzo: i poteri di controllo e di indirizzo attribuiti allo Stato sono stati definiti dalla legge sull’autonomia.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FERDINANDO ADORNATO
ALBA SASSO. Ritengo che i tre livelli di cui ha parlato il ministro – lo Stato centrale che indirizza e controlla, le regioni e le singole scuole – siano già previsti dalla legge sull’autonomia. Non sono d’accordo quando il ministro dice che lo Stato non può essere l’unico promotore: secondo la Costituzione, infatti, la Repubblica ha la responsabilità nei confronti delle future generazioni di garantire a tutti il diritto all’istruzione. Mi pare inoltre – ribadisco il mio disaccordo con il ministro – che lo Stato non sia gestore del sistema di istruzione, ma definisca i principi e controlli la loro applicazione.
Credo che questo tema abbia un legame con quello – che il ministro ha posto – della necessità di curricula nazionali; sono convinta di tale necessità, perché la legge sull’autonomia ha affidato alle scuole – che sono enti autonomi, gerarchicamente non inferiori a nessuno, chiamati ad interagire con il territorio nel quale sono collocati – la potestà sui curricula. Il ministro infatti fornisce indicazioni curriculari, secondo l’articolo 8 del regolamento sull’autonomia organizzativa e didattica, avvalendosi degli strumenti che ritiene opportuni, ma le scuole compiono le scelte. Gli unici vincoli prescrittivi sono rappresentati dagli obiettivi di apprendimento, che devono essere uguali per tutti: le scuole poi sceglieranno i propri percorsi nel rispetto dell’identità nazionale del sistema dell’istruzione (ad esempio lo studio di Manzoni e Pirandello). Esse possono articolare il proprio curricolo: l’articolo 8 del regolamento applicativo della legge sull’autonomia organizzativa e didattica prevede espressamente ciò che, obbligatoriamente, è riservato al livello nazionale e ciò che sempre obbligatoriamente, è riservato alle scuole (impropriamente detta quota locale). Quest’ultimo caso non riguarda la costituzione della società camuna o della società rupestre, ma può riguardare l’approfondimento dello studio per eliminare la vergogna dei corsi di recupero e per colmare le carenze, che molti ragazzi continuano ad avere, riguardo alle abilità fondamentali come l’uso della lingua o di capacità logico-matematiche.
Compito della Repubblica è l’assunzione di responsabilità nei confronti della scuola, stabilendo insieme quale debba essere il patrimonio di cultura e conoscenza che ogni generazione vuole affidare a quelle successive. Qual è l’identità culturale di questo paese? Ogni regione sceglie la propria? Non credo. Vedo un ruolo forte del Governo, del ministro, e delle commissioni che il ministro vorrà attivare. Rispetto a ciò credo che sia stato ingeneroso ritirare il regolamento attuativo della legge sul riordino dei cicli, dove erano previsti i temi che il ministro ha indicato. La legge n. 30 del 2000 e l’elaborazione prodotta dalla commissione De Mauro, non sono venute alla luce in due mesi. Quella legge, quelle indicazioni curricolari, quel regolamento attuativo, interpretano un processo di riforma che da anni, nei fatti, la nostra scuola sta portando avanti, che si è concretizzato in buone pratiche, esperienze di sperimentazione, in un dibattito approfondito e serrato. La legge n. 30 del 2000 prevedeva un meccanismo di autoregolazione e di modifica triennale. Credo che non sia stato giusto ritirare quel regolamento, anche perché il mondo della scuola aveva già iniziato ad elaborare, ipotizzare, programmare, così come è stato sbagliato ritirare il regolamento sulla scuola dell’infanzia, il provvedimento per la l’estensione della scuola dell’infanzia (previsto dalla legge n. 30).
Vorrei porre inoltre la questione che riguarda i docenti: come l’onorevole Gambale, non riesco a capire perché, a normativa vigente, si voglia mettere da parte il Centro europeo dell’educazione, recentemente riformato, che aveva avuto il compito di istituire (ma aveva già avviato il suo lavoro), il servizio nazionale per la valutazione, per costituire un altro organismo. È una scelta che è necessario motivare: ministro, ci dica che il Cede non funziona, o che non ha svolto bene il suo compito, ma spieghi il motivo della sua scelta!
Sia nel testo del documento di programmazione economico-finanziaria, sia nella sua relazione, ricorre l’affermazione che è necessario investire maggiormente sugli insegnanti: chiediamo in quale modo, con quale risorse, dove e perché. Molte volte abbiamo ascoltato promesse di questo tipo: paghiamo di più gli insegnanti, valorizziamo il loro percorso lavorativo, investiamo nella formazione, il ministero spende troppo solo per gli stipendi degli insegnanti, ma non investe sulla qualità. D’accordo, concretizziamo tali affermazioni, ma, signor ministro, ci dica come e con quali finanziamenti, che non ritroviamo nel documento di programmazione economico-finanziaria. Sono d’accordo con un investimento maggiore riguardo la formazione in servizio: vorrei però ricordare che nel regolamento attuativo della riforma sull’autonomia scolastica è contenuto un articolo molto importante, l’articolo 6, che assegna alle scuole l’autonomia di ricerca e sviluppo. Credo che gli insegnanti non sopportino più corsi di formazione e di aggiornamento condotti in modo estemporaneo, ma chiedono di diventare protagonisti della propria formazione e del proprio aggiornamento, imparando a lavorare in maniera diversa, riflettendo sulle proprie scelte, comprendendo cosa fare e cosa serva maggiormente per operare meglio. Investire nella formazione dell’insegnante significa investire di più nell’autonomia delle scuole, perché questo credo sia il terreno più importante della formazione.
Signor ministro, lei ha detto che l’insegnante si sente un impiegato: fino a quando sarà prevalente la cultura dell’adempimento e non quella del risultato, l’insegnante sarà sempre un impiegato. Non dimentichiamo però che, in questi anni, la figura ed il profilo professionale degli insegnanti è molto cambiato, anche se non di tutti: esistono situazioni patologiche, così come ne esistono in tanti altri comparti del mondo del lavoro. La scuola però è un grande apparato frequentato da circa 9 milioni di studenti e nel quale lavorano milioni di docenti, del quale si conoscono solo le patologie che i giornali descrivono. Molti docenti sono già cambiati perché hanno dovuto compiere scelte diverse, perché hanno di fronte emergenze rispetto alle quali non potevano continuare ad essere semplicemente degli impiegati. Gli insegnanti oggi, categoria socialmente disconosciuta, si fanno carico delle emergenze, degli handicap, dei rischi, dell’eccellenza, di ogni aspetto, senza che venga loro riconosciuto il grande valore di una professione, che rappresenta un artigianato alto, composto di cultura e di relazioni, di creatività e di attività riflessive. Stiamo attenti a non credere di trovare soluzioni estemporanee o di «vivisezionare» il lavoro degli insegnanti, scegliendo chi vale di più. Esiste già una diversificazione: gli insegnanti che lavorano nelle scuole a rischio guadagnano di più (signor ministro, legga l’ultimo contratto), questione sulla quale nessuno ha sollevato problemi perché lavorano in maniera diversa, a contatto con situazioni di emergenza, molto complesse e delicate. Alcuni insegnanti svolgono compiti che, con un brutto nome, si indicano come funzioni obiettivo, e guadagnano di più rispetto agli altri. Cominciamo a diversificare la professione, ma senza stabilire chi vale di più e chi meno perché non è facile vedere i risultati nel nostro lavoro di insegnanti, molto spesso essi si comprendono dopo anni: non cerchiamo dunque subito di valutare o di «vivisezionare» un lavoro complesso, che non può essere suddiviso in assurde valutazioni, esterne o interne alla scuola. Gli insegnanti debbono, in primo luogo, imparare a valutare autonomamente il proprio lavoro; in seguito potrà essere valutato dall’esterno: una differenziazione delle funzioni già esiste. Ministro, avanzo la richiesta, contenuta anche in altri interventi, di non buttare via ciò che è stato prodotto, perché credo che il mondo della scuola, nel suo complesso, non lo accetterebbe. Esso ha già compiuto scelte difficili e dolorose e ha la consapevolezza di dover cambiare non perché lo domanda un Governo ma perché lo chiede il paese.
GIOVANNA GRIGNAFFINI. Le puntuali osservazioni ed argomentazioni della collega Sasso e l’intervento dell’onorevole Gambale mi consentono di concentrarmi su alcune valutazioni di carattere politico. Infatti credo che dal tono e dalle forme dei vari interventi emerga una questione non più eludibile. Innanzitutto, vorrei ringraziare il ministro Moratti che, diversamente dal suo collega Tremonti, non è andata davanti agli italiani a dichiarare che c’erano 62 mila miliardi di «buco» nel bilancio dello Stato, ma ha presentato alla Commissione una relazione in cui sono contenute alcune affermazioni concrete.
Riguardo alle politiche per il sistema universitario, se escludiamo la forte indicazione di un aumento di risorse per la ricerca e il diritto allo studio, dalla relazione del ministro Moratti si desume una valutazione positiva del sistema di riforme proposto dal Governo dell’Ulivo nel corso dei cinque anni precedenti. L’unica accentuazione che ho ascoltato riguarda la questione del concorso a vincitore unico anziché la terna, che è un rifacimento di minimalia organizzativa della vita dell’università
Anche sulla questione del riordino dei cicli scolastici e del ruolo dell’autonomia, non ho ascoltato elementi di rottura o di forte discontinuità: lo apprezzo e mi piacerebbe che ad una valutazione positiva, per determinate politiche seguisse poi una esplicitazione altrettanto forte dal punto di vista politico. L’elemento più importante riguarda il capitolo dell’istruzione; il ministro ha utilizzato alcune parole generali nella sua relazione: incentivare il capitale umano, sviluppo e innovazione, standard europei, solidarietà, eccellenza (queste ultime due sono parole che condividiamo perché è necessario incentivare la qualità), i sistemi educativi come sviluppo della persona umana nell’ambiente sociale e così via. Sono parole che rappresentano elementi di carattere progettuale e culturale, che definiscono il ruolo, la funzione sociale ed individuale del sistema formativo su cui non possiamo non essere d’accordo. Ci troviamo di fronte ad un preambolo politico, programmatico e culturale che noi, come forze del centro sinistra, in qualche modo (al di là di alcune accentuazioni delle quali parlerò in seguito), non possiamo non condividere: si tratta dello stesso preambolo politico, culturale e concettuale che ha messo in movimento il sistema di riforme del centrosinistra nei precedenti cinque anni. Esse possono essere considerare riforme di sistema, come ha sottolineato la collega Sasso, articolate in una struttura a mosaico molto complessa (solo il tema degli organi collegiali non è riuscito ad entrare all’interno di un processo che ha toccato tutti gli aspetti della vita della scuola). La domanda che sorge spontanea è la seguente: dove sono le differenze? Che giudizio viene dato sulle riforme messe in atto dai governi di centrosinistra? È un giudizio relativo all’efficacia? È un giudizio relativo alla non piena attuazione e al dispiegamento nel tempo degli effetti di questo sistema di riforme, che molto spesso sono riscontrabili solo a distanza di anni? Ho assistito ad una vera e propria campagna di stampa sulla cancellazione del riordino dei cicli che è stato uno degli impegni della Casa delle libertà durante la competizione elettorale.
Ci troviamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva di qualche rilievo, perché si parla di sospensione o meglio, di una partenza a scaglioni, differenziata, con forme di sperimentazione, che ancora non costituiscono l’avvio del sistema nella sua interezza e nella sua capacità di essere attivato da ciascun territorio, interventi peraltro già previsti dai decreti attuativi del riordino dei cicli.
In realtà ci troviamo di fronte alla sottolineatura di un aspetto già previsto, dalle modalità e dalle procedure che definivano l’avvio del sistema di riforma. Pongo una domanda (ci saranno anche altre indicazioni, mi rendo conto che è un primo incontro ed alcune questioni sono state soltanto accennate): ma l’elemento differenziale rispetto al processo di riarticolazione dei cicli individuato dai ministri riguarda l’ipotesi di attribuire alla scuola dell’infanzia la definizione di primo anno di base dell’intero ciclo. Anche in questo caso si tratta di una modificazione infrastrutturale, che definirei micro perché non incide sul disegno generale del sistema e si limita ad un innalzamento, ma non definisce un diverso equilibrio. Allora voglio rivolgere al ministro una richiesta: occorre esplicitare il giudizio sul sistema di riforme attivato dai governi precedenti, per capire meglio dove conveniamo e dove ci discostiamo, dove vi sono punti di convergenza e dove invece vi è un’impostazione profondamente diversa.
Vi sono in particolare due elementi problematici su cui non mi trovo del tutto d’accordo, il primo dei quali consiste nella definizione dei punti di crisi. Un elemento di analisi che ho apprezzato è rappresentato dalla volontà di individuare i punti di criticità del sistema, avendo identificato i quali si potrà mettere in atto un sistema di riforme per la loro soluzione. Quello che non condivido è il fatto che uno degli elementi che caratterizza la crisi del sistema scolastico oggi è la mancata libertà delle famiglie. Io lo considero un punto importante, ma non lo definirei come un punto di criticità del sistema; non è quello il meccanismo a partire dal quale si possono attivare tutti gli elementi che consentono un sistema di libertà e solidarietà, di eccellenza, di promozione dei talenti e di efficacia del diritto all’istruzione.
Il secondo aspetto su cui avanzo dei dubbi riguarda la definizione – che desidererei venisse più esplicitata – di sistema integrato per una scuola della società civile. Non ripeto cose già sostenute, ma il fatto che ci troviamo di fronte a un sistema integrato in cui pubblico e privato concorrono alla definizione di una funzione pubblica è materia condivisa e che, non a caso, è stata promossa dal centrosinistra ed è già diventata legge dello Stato. Quindi se il punto è quello di richiamarsi a questa capacità di costituire un sistema integrato, siamo d’accordo, ma a partire da questa capacità di costruire sistemi integrati nascono domande collegate più concretamente con la politica e con le opzioni politico-culturali più generali.
Oltre a ciò vi è un punto toccato che riguarda il rapporto fra programmi nazionali e programmi locali. È già stato ricordato che nella scuola delle autonomie vi è già un punto forte nella definizione dei singoli curricula, e quindi la domanda che rivolgo al ministro Moratti è la seguente: il rapporto tra programmi nazionali e programmi locali significa la devoluzione del sistema di formazione alle regioni come propone la Lega? Oppure significa una integrazione tra i due programmi, come è già garantito dalla attivazione dei curricula, nell’ambito di una dimensione che può essere ancora accentuata? Qual è l’opzione politica?
Nella definizione degli elementi di diritto allo studio e degli elementi che amplificano il ruolo del privato e della società civile, la linea di tendenza è quella definita dalla «legge di parità» o è quella del bonus della regione Lombardia? Dico ciò partendo sia dal punto di vista del carattere iniquo sul piano del merito, sia della sua incapacità – è un mio giudizio ovviamente – di produrre dinamica sociale. Quando sento parlare di eccellenza e solidarietà intendo che la funzione pubblica resti sempre legata a questo duplice obiettivo: liberazione e promozione dei talenti individuali, ma anche capacità di mettere in opera quegli elementi di dinamismo sociale che sono, sul piano formativo, l’equivalente di politiche redistributive sul piano economico, anzi non redistributive, ma di politiche di promozione.
Allora rivolgo al ministro Moratti, e concludo, due domande politiche: esplicitare la sua valutazione, a partire da questi presupposti e linee programmatiche, sulle politiche attivate nel campo della formazione e dell’università dal centrosinistra. È un fatto di libertà e di responsabilità individuale fare il punto della situazione; lei lo ha fatto con questa relazione, ma secondo me sarebbe importante farlo ancora di più, precisando il contesto in cui ci troviamo, dove vi è stato fallimento e dove vi è stata l’individuazione di una prospettiva possibile non ancora realizzata. È necessario chiarire quali sono le questioni sulle quali, sotto alcune formule, vi è condivisione – come abbiamo sentito tutti – su alcuni principi generali, perché in realtà, se andiamo a vedere la loro traduzione in strumenti ed opzioni, scopriamo che essi possono diventare il simbolo di opzioni politiche, culturali, questa volta sì, anche radicalmente contrapposte.
ROBERTO DAMIANI. Dall’esame del documento di programmazione economico-finanziaria e dalle parole del signor ministro, prendo atto della lodevole intenzione, espressa dal Governo, di aumentare la spesa per la ricerca scientifica, elevandola al livello della media europea, cioè al 2 per cento. Ciò del resto mi pare fosse un obiettivo esplicito anche nella legge finanziaria del Governo precedente; su tale punto vi potrà essere, quindi, una larghissima convergenza.
Mi permetto tuttavia di svolgere, per buona memoria, alcune brevissime considerazioni. La più importante di esse credo possa attenere alla tempistica. I rapidi progressi della ricerca scientifica nei paesi dotati di maggiori risorse umane e finanziarie, rischiano, se non ci poniamo da subito nelle condizioni di competere, di alimentare un gap poi impossibile da colmare. In questo campo (parlo anche per esperienza diretta) la progressione è algebrica e non matematica: cinque anni sono troppi; se dobbiamo fare sacrifici, questi non possono mettere a repentaglio la competitività tecnologica del sistema paese.
Al problema relativo all’urgenza di un impegno finanziario adeguato e coerente va aggiunto quello delle risorse umane; lei, signor ministro, ha toccato, con la sua relazione, aspetti collegati alle risorse umane; aggiungerei però quello di una preoccupante carenza di laureati in ambiti disciplinari fondamentali per lo sviluppo della ricerca scientifica che, a sua volta, è premessa indispensabile di innovazione tecnologica. La carenza di laureati, tra l’altro, non viene determinata soltanto da una dispersione nel corso degli studi, ma anche, e le statistiche lo dimostrano, da una crescente flessione, in termini percentuali, di iscritti alle facoltà scientifiche cui corrisponde un incremento delle iscrizioni nelle facoltà umanistiche o, comunque, in quelle non strettamente scientifiche.
Credo dunque necessaria una forte azione volta a incentivare nei giovani la scelta di facoltà scientifiche, anche promuovendo la diffusione della cultura scientifica a livello di base; ritengo sia un problema strettamente connesso con quello della formazione degli insegnanti della scuola primaria. È una formazione, questa, di tipo strettamente umanistico o, per non essere troppo cattivi, para o pseudoumanistico, nonché di individuazione di altri percorsi di sensibilizzazione dei giovanissimi; penso a spazi interattivi atti a stimolare l’interesse di questi ultimi, spazi che possono essere creati senza dover per forza spendere grandi cifre (non è il caso di prendere ad esempio soltanto il museo scientifico di Boston collegato al MIT). Ciò sarà possibile se si registrerà una maggior capacità di dialogo tra due mondi, non adusi ad una frequentazione positiva: il mondo universitario e quello della scuola primaria e secondaria.
Sempre in tema di risorse umane, non vorrei sottacere il dramma della fuga di molti giovani cervelli. In numerosi paesi i ricercatori giovani e capaci ottengono soddisfazioni economiche superiori, tanto a livello personale quanto a livello di disponibilità di fondi per la ricerca. Dobbiamo dire chiaramente che un bravo giovane laureato nei nostri atenei – se non ha alle spalle una famiglia che lo possa sostenere – non può essere incentivato da ipotesi di dottorandi di ricerca che portano a casa qualche cosa come 800 dollari al mese, salvo poi trovare sbocco naturale in una carriera che, iniziando dal gradino più basso che è quello di ricercatore universitario, porta a poco più di mille dollari al mese (dopo un iter ed una selezione piuttosto complessi).
A questo va aggiunta una opportuna considerazione; vi è una competizione nella quale il pubblico, necessariamente, soccombe – per le leggi dell’economia – rispetto al privato: i migliori, infatti, se li prendono le aziende private!
Una raccomandazione viene, infine, suggerita dalla lettura della pagina 47 del documento di programmazione economico-finanziaria. Se è vero (e a mio modesto parere lo è) che, in linea di principio, la proprietà intellettuale dei risultati della ricerca scientifica deve essere riconosciuta ai singoli ricercatori o ai gruppi di ricerca, è altrettanto vero che, se la ricerca viene effettuata in strutture pubbliche – non soltanto l’università -, devono essere poste in essere misure che riconoscano anche i diritti di chi, nella ricerca, investe proprie risorse finanziarie. Penso al caso della Germania – e lo segnalo al signor ministro – un paese nel quale la normativa privilegia, in modo pressoché esclusivo, il diritto dei ricercatori senza tutelare adeguatamente il diritto al ritorno economico dei finanziatori. Qual è il risultato? È in atto una fortissima contrazione degli investimenti privati ai fini di ricerca nelle strutture accademiche. Questo è un errore che non vorremmo vedere riproposto qui, anche se la formulazione del documento che ho letto stamane mi sembra preludere ad un errore del genere; forse un controllo non sarebbe del tutto sbagliato.
Voglio ora formulare l’auspicio che le future maggiori risorse finanziarie trovino concretezza molto prima del fatidico quinquennio e che non inducano all’errore di una frammentazione degli investimenti su base di logiche distributive sul territorio, cioè alla molteplicità di azioni non deve corrispondere una molteplicità di iniziative separate o concorrenti. L’interesse superiore del paese è che si ridiventi competitivi proprio come paese, e ciò può realizzarsi allo stato attuale ed anche in prospettiva – le soluzioni possono essere suggerire anche da finalità che includano ragioni squisitamente politiche – prioritariamente attraverso l’adeguamento delle realtà esistenti agli standard internazionali. Mi riferisco in particolare ai parchi scientifici (conoscendo l’argomento) e nella fattispecie al parco scientifico di Trieste. È certamente il primo ad essere stato istituito in Italia; è costituito da un’area di ricerca scientifica e tecnologica di cui sono punta di diamante istituzioni quali il centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologia e, come sa molto bene il ministro, la macchina di luce al sincrotrone realizzata grazie anche al premio Nobel Carlo Rubbia. Mi riferisco anche al polo scientifico (sito in altra parte della città ma idealmente è un tutt’uno) costituito dalla scuola internazionale superiore di studi avanzati, che rilasciava il PhD molto prima che nel resto del paese (se si aveva addirittura nozione del concetto di PhD) dall’accademia delle scienze del terzo mondo e soprattutto dall’ICTP (International Centre for Theoretical Physics) fondato dal defunto premio Nobel Abdus Salam, dove ogni anno approdano, per stage formativi di varia durata – si va da alcune settimane fino ad alcuni anni – circa quattromila scienziati provenienti per lo più da paesi emergenti. È stato anche uno strumento fondamentale di politica estera, sia nei confronti dei paesi cosiddetti emergenti, sia, soprattutto, per l’apertura ad est che, anche in chiave di Unione europea, sta producendo frutti egregi.
Credo che l’esperienza che stiamo vivendo a Trieste, a partire da lontano 1964, e direi con buoni risultati, possa rappresentare un utile modello per l’edificazione del progetto complessivo di ripensamento della nostra politica in materia di ricerca scientifica e in quello delle sue applicazioni tecnologiche. Sarebbe un errore pensare alla ricerca scientifica come esclusivamente collegata al mondo accademico in senso stretto. Va bene l’università – è ineliminabile – ma dobbiamo dare spazio anche alle filiazioni o alle istituzioni collegate all’università stessa. La invito, signor ministro, a prendere visione, anche di persona, di questa esperienza e in tal senso il mio è molto più di un atto formale di invito.
FABIO GARAGNANI. Nel ringraziare il signor ministro, desidero anche darle atto della linearità e, allo stesso tempo, del coraggio con cui ha individuato – pur con l’eloquio molto cortese e affabile – gli indirizzi del Governo in materia di politica scolastica. Indirizzi che mi paiono largamente innovativi, al di là delle parole e del consenso che è venuto anche da alcuni settori del centrosinistra. È positivo che, se vi è consenso, esso venga espresso; credo però che non possiamo ignorare – lo dico ai colleghi della sinistra – la profonda differenza che, in una materia delicatissima come questa, ha caratterizzato e continua a farlo – è la legge della democrazia – il nostro schieramento e quello del centrosinistra. Non è sfuggita l’enfasi di tutti gli interventi che si sono succeduti sui principali provvedimenti dei governi dell’Ulivo; credo che ciò sia emblematico di una volontà di rivincita o, perlomeno, di condizionamento, peraltro legittimo, ma che rifiutiamo perché il programma esposto dal ministro evidenzia dei punti fermi che sono la netta antitesi di quelli dei governi Prodi, D’Alema e Amato. Si ipotizza, infatti, una formazione ed un indirizzo culturali che, credo, si discostino notevolmente dalle scelte di coloro che ci hanno preceduto.
Devo comunque esprimere anche preoccupazione e che non dobbiamo nasconderci dietro a luoghi comuni o a falsi unanimismi di facciata, che non servono ad un confronto serio in Commissione. La prima preoccupazione è che se è vero, come è vero, che la scuola è patrimonio di tutti e se è vero che la scuola non può essere «balcanizzata» per regioni, è altrettanto vero che essa non può essere prigioniera delle devastazioni culturali che l’hanno caratterizzata molto spesso in questi anni dove minoranze, settarie e faziose, di insegnanti provenienti principalmente dalla sinistra, se ne sono serviti per inculcare determinate idee, per fare politica – come nelle ultime elezioni – ma non per educare le giovani generazioni. Credo, pertanto, che un mea culpa – non dico collettivo o un autodafé – occorra farlo; nessuno vuole vietare agli insegnanti – ci mancherebbe – di avere una propria idea, un proprio curriculum formativo, una propria impostazione ideale.
Ritengo però che una riflessione sul rapporto tra docente e discente, che non ha possibilità di competere con una formazione di un certo tipo, ed il rispetto che si deve alla personalità del discente debbano rappresentare un punto fermo sui quali confrontarsi chiaramente. Non vorrei essere equivocato – sono a favore della libertà di insegnamento – ma ritengo che una analisi sull’introduzione di meccanismi per la salvaguardia della libertà di insegnamento, di apprendimento e del rispetto della personalità del docente e del discente sia più che mai opportuna. Veniamo da una fase storica, ancora attuale, nella quale la scuola non è stata patrimonio di tutti ma, bensì, di minoranze faziose e settarie – non sempre, vi sono professionalità eccellenti – che se ne sono servite per fini di parte. Avrei dovuto annotare, in occasione delle recenti elezioni, le frasi di incitamento, durante lezioni, con le quali veniva boicottato e demonizzato il presidente Berlusconi nelle scuole di ogni ordine e grado. Non credo che questo sia un buon modo di fare politica! Se si fossero demonizzati Prodi o altri…
FRANCA BIMBI. Dato il risultato!
FABIO GARAGNANI. Infatti ho parlato di minoranze. Sarebbe comunque assurdo, in questa fase, misconoscere e negare dati di fatto. Quando si interviene su temi tanto delicati bisogna essere sempre rispettosi della realtà e confrontarsi con la situazione che molti di noi conoscono ed è inutile nasconderci dietro le parole o dietro falsi unanimismi.
Credo di condividere pienamente con il ministro l’affermazione che lo Stato non può essere il custode esclusivo della formazione, ma deve favorire la possibilità di accesso e di apprendimento a tutti i suoi cittadini, riservando un compito particolare alla famiglia. Il diritto di scelta, di fatto, è stato misconosciuto; si tratta di definire un percorso che, attraverso una necessaria fase di transizione, senza destabilizzare gli attuali equilibri scolastici e formativi, consenta alla famiglia, in un lasso di tempo ragionevole, di diventare veramente l’arbitro del tipo di educazione che vuole riservare ai propri figli. Questo non significa «balcanizzare» il sistema di insegnamento (scuole cattoliche, mussulmane o laiche), ma significa realizzare un sistema integrato che riconosca a qualunque offerta formativa, dotata di un alta dignità professionale, la possibilità di competere nel mercato e di misurarsi con le opzioni della collettività.
Sono convinto che, accanto a taluni punti di eccellenza, nella nostra scuola statale si sia raggiunto – lo diciamo tutti – un livello di formazione culturale non sempre adeguato agli standard europei. Ciò deriva anche dalla salvaguardia di rendite di posizione che di fatto hanno «stratificato» un corpo insegnante sempre più demotivato, sempre più convinto che non esistano controlli ed esami e che è stato spinto quindi a tirare a campare, tranne lodevoli eccezioni. Siamo di fronte ad una situazione dove molto spesso viene penalizzata la meritocrazia – questo è un altro appello che rivolgo al ministro -; non è possibile che la scuola di Stato diventi un luogo dove frequentemente il criterio della selezione non ha più spazio, perché vi albergano concezioni falsamente umanitaristiche ed assistenziali nelle quali è necessario solamente aiutare. Siamo d’accordo che bisogna intervenire, ma alla fine si deve aiutare lo studente e il bambino ad apprendere e a capire che ha precisi doveri oltreché diritti. La sanzione non esiste quasi più! Il collegio dei docenti è diventato, sovente, quasi un ente di assistenza e beneficenza, e non più un organismo che deve anche, se del caso, premiare o punire chi non raggiunge certi livelli di efficienza o di preparazione. È necessario che il giovane si affacci al mondo del lavoro con la consapevolezza delle difficoltà che lo attendono, ma essendovi preparato. I problemi della meritocrazia, del giusto riconoscimento ma anche della equa sanzione sono questioni che dobbiamo porci; purtroppo gran parte del corpo docente, cresciuto con determinate impostazioni e determinate teorie, ha stabilito semplicemente il teorema che sanzionare significa penalizzare i meno abbienti e, di fatto, estromettere dalla società un giovane che ha bisogno di essere aiutato. Da questa impostazione derivano promozioni indiscriminate, senza alcuno sforzo, dettate da motivazioni umanitarie.
Dobbiamo abbandonare questo concetto per adottare, nel rispetto anche delle categorie più deboli che spesso sono anche particolarmente dotate, il criterio che chi più ha studiato e meritato deve vedere i suoi sforzi riconosciuti. Anche qui vi è molto da fare; è necessaria una reimpostazione culturale completamente diversa ed invito il ministro – pur con il tono soft che la caratterizza – a farsi carico di questa preoccupazione, perché il sistema scolastico italiano rimarrà nelle secche in cui si trova se non reinventerà se stesso e se non verrà attuata una vera e propria rivoluzione culturale rispetto a certi moduli della sinistra che l’hanno governato negli ultimi anni. Non a caso si è sempre detto che la sinistra ha scelto due campi sui quali concentrare la propria attività: la scuola e la magistratura (o almeno parte di essa). Nella scuola, soprattutto nelle discipline letterarie, storiche e filosofiche, sono prevalse impostazioni politiche che di fatto hanno realizzato tutto questo. Nessuno pretende di creare liste di coscrizione, ma giustamente, un Governo ed una maggioranza hanno il compito di delineare orientamenti di fondo ben precisi quali quelli da me ricordati.
In questo contesto ritengo quanto mai opportuno che, accanto ad un recupero della meritocrazia, vi sia anche quello del valore dell’insegnante – benissimo ha fatto lei, signor ministro, a proporre il principio dell’agenzia esterna di valutazione – perché se un docente non si sente costantemente monitorato sull’efficacia del proprio insegnamento, che non significa una spada di Damocle sulla testa che gli impedisca di lavorare, non ha stimoli per progredire. Inoltre vi è il problema della retribuzione economica, del riconoscimento di una dignità che in questi anni è venuta meno e dei motivi per i quali questo è accaduto.
Accanto a tutto questo vi è il problema di garantire un’autentica competizione tra gli istituti, che è l’unica strada che potrà consentire alla scuola di Stato di eccellere. La situazione, così come si è sviluppata finora, e per come l’hanno voluta i colleghi della sinistra, non consentirà la nascita di zone di eccellenza ed una conseguente capacità di competizione. Condivido pienamente la necessità di definire dei curricula nazionali accanto alle competenze regionali. Il sapere deve avere degli orientamenti nazionali, la difesa dell’identità e della tradizione culturale del nostro popolo non può essere demandata, solo ed esclusivamente, alle regioni. Segnalo in questo senso l’opportunità di una presenza nazionale al fine di riequilibrare, in materia di diritto allo studio e di parità scolastica, l’orientamento delle varie regioni. Abbiamo da un lato la regione Lombardia che ha adottato una legge – secondo me – di alto valore (ed in questo senso ha fatto bene il ministro a ritirare il ricorso), dall’altro, la regione Emilia-Romagna che ha invece modificato recentemente in direzione statalista la già restrittiva legge approvata nel 1999 – alla quale ho contribuito anch’io seppure da posizioni di minoranza – non solo non attuando la parità scolastica, ma addirittura ristabilendo il principio assoluto del predominio dell’ente locale, ed in particolare della regione.
Vorrei, inoltre, porre all’attenzione il problema del ruolo tradizionale dei provveditorati agli studi, ormai di assoluta irrilevanza, vista la tendenza ad un loro graduale superamento, che spesso non combacia con il ruolo sostitutivo che dovrebbero svolgere le regioni.
Un’ultima considerazione per quanto riguarda i libri di testo; si tratta di un discorso di estrema delicatezza che se, in nome della libertà di insegnamento, viene lasciato solamente ai collegi dei docenti rischia di tagliare fuori le altre componenti della scuola: gli studenti, le famiglie e lo Stato. Esistono testi scolastici di storia e di educazione civica, cito ad esempio il Camera-Fabietti, che ancora oggi, a distanza di trent’anni, compiono vere e proprie deformazioni nella storia del nostro paese e della storia europea e mondiale.
Infine valuto positivamente l’introduzione del nuovo codice deontologico per la tutela e la dignità della funzione di insegnante, perché esso ci consentirà di porre in essere anche misure, di tipo non dico disciplinare, ma comunque di condizionamento verso quegli insegnanti che non si mostrano ligi all’impegno che hanno assunto nel momento della immissione in ruolo.
GIOVANNA BIANCHI CLERICI. Signor ministro, anch’io, a nome del gruppo della Lega Nord, le porgo i più cordiali auguri di buon lavoro per il suo nuovo incarico. Devo dire che ho apprezzato la relazione da lei svolta quest’oggi sia per i contenuti sia per i modi e credo si tratti di un ottimo punto di partenza. In particolare mi ha impressionato favorevolmente il forte richiamo iniziale alla centralità dello studente e della sua famiglia all’interno del mondo della scuola, proprio perché ha rappresentato il motivo guida della nostra azione in Commissione durante la passata legislatura. Il mondo della scuola spesso e volentieri è troppo autoreferenziale, le lobby, nel senso migliore del termine, dei docenti e di coloro che operano nel sistema sono molto più ascoltate delle esigenze degli studenti e delle loro famiglie.
Trovo anche molto giusto aver richiamato l’attenzione sulle risorse umane della scuola, viste le gravi difficoltà in cui essa versa e la sua inadeguatezza. Il quadro idilliaco tracciato anche oggi da alcuni colleghi dell’opposizione non corrisponde assolutamente alla realtà; abbiamo una scuola pubblica inadeguata sotto ogni profilo, a partire dall’edilizia scolastica, passando per l’organizzazione, fino a giungere all’insegnamento. Credo che il punto fondamentale sul quale dovremmo lavorare tutti sia la formazione e la valorizzazione, sia economica che culturale, dei docenti.
Sono d’accordo con la sospensione della riforma dei cicli scolastici portata avanti nella passata legislatura a colpi di maggioranza senza alcuna condivisione con l’opposizione; ci sembra assolutamente indispensabile una sospensione al fine di operare un ripensamento dei contenuti e delle modalità di attuazione.
Ci sono notizie sulla stampa e sui mezzi di comunicazione riguardo alla devoluzione che, secondo me, rischiano di creare equivoci. Ricordo che la devoluzione è uno dei principali punti del programma della Casa delle libertà; proprio sulla base dell’accordo sulla devoluzione delle competenze in materia di sicurezza locale, di sanità e di istruzione è stata creata la coalizione che ha poi vinto le elezioni del 13 maggio. Ora, operare una devoluzione delle competenze nel settore dell’istruzione non significa modificare i programmi scolastici o fare in modo che ogni regione o comune realizzi il proprio, anche perché ci troviamo già in una situazione di autonomia delle istituzioni scolastiche dove il ministero decide solamente una parte dei programmi, mentre l’altra è nella disponibilità della singola istituzione. Il problema semmai è un altro: le singole istituzioni scolastiche, proprio per le difficoltà in cui si trovano ad operare, non hanno ancora avuto la capacità di presentare un’offerta formativa adeguata alle esigenze di genitori ed alunni, magari proponendo una serie di discipline complementari che siano in grado di soddisfare anche il legame, importantissimo, con il tessuto socio-economico in cui vivono. Abbiamo preso atto che anche nel DPEF si prevede che una parte di competenze rimarranno allo Stato centrale, il quale deve indirizzare e governare, non gestire.
La devoluzione, così com’è scritto chiaramente nel programma della nostra coalizione, significa soprattutto l’opportunità per le regioni di offrire il migliore livello possibile di servizio, a partire dal reclutamento degli insegnanti, e quindi anche dalla loro formazione e dal loro trattamento economico, fino all’organizzazione scolastica; sono convinta che seguendo questa strada arriveremo ad una soluzione che sarà in grado di eliminare quelle pecche e quelle inefficienze che caratterizzano la scuola italiana, così com’è rigidamente articolata al momento, e credo che non mancheranno in tal senso opportunità di confronto tra lei ed il ministro delle riforme istituzionali in sede di Consiglio dei ministri. Non dimentichiamoci infatti che le riforme dell’Ulivo hanno mantenuto lo strettissimo controllo centrale, penalizzando le autonomie. Faccio un esempio: i dirigenti scolastici hanno sulla carta forti poteri e competenze, senza però disporre di risorse, né umane né materiali, per metterli in pratica; un dirigente spesso deve gestire edifici e strutture scolastiche che servono quasi mille alunni.
Vorrei fare alcuni riferimenti finali. Il primo riguarda la parità scolastica, che attualmente non garantisce una libera scelta da parte delle famiglie; anche noi apprezziamo il ritiro del ricorso contro la regione Lombardia per quanto riguarda i buoni-scuola. È pacifico che esso rappresenta solamente il primo passo (mancano ancora alcuni passaggi) verso la libera scelta che deve essere garantita a tutti, anche a coloro che non godono di ampie entrate economiche.
Sull’università condividiamo la scelta, peraltro caldeggiata anche da alcuni noti docenti universitari e da intellettuali del nostro paese, di attuare a due velocità l’avvio della riforma. Come prima ricordava un collega, ad esempio in Lombardia vi sono già le condizioni per tale avvio, laddove in altre regioni non è, invece, ancora possibile.
L’ultimo argomento che vorrei trattare è quello della ricerca. In questi anni si sono spese grandi parole, anche nei documenti di programmazione economica e finanziaria. Ricordo in particolare il primo DPEF del Governo Prodi dal quale sembrava che in pochi mesi si sarebbe colmato questo gap che ci divideva, e tuttora ci divide, dall’Europa e dal resto del mondo, ma in realtà i risultati non sono arrivati. Ricordo perfettamente che, nella legge finanziaria per il 1997, venne addirittura approvato un nostro emendamento che prevedeva sgravi fiscali e agevolazioni per la piccola impresa che voleva investire nella ricerca, ma poi tutto è finito nel deserto più totale.
Auspico, quindi, che il Governo intervenga su questo aspetto, con grande decisione, perché il nostro è ancora un paese dove, ad esempio, gli scambi tra università sono penalizzati, mancando ancora una cultura di questo tipo. Ricordo la brutta figura che abbiamo fatto con alcuni studenti stranieri invitati dal ministero per uno scambio culturale: il ministero non aveva più i soldi per pagare il biglietto di ritorno nei paesi di origine. Questa purtroppo è la situazione che ci troviamo di fronte.
Mi auguro, pertanto, che su questa linea si possano veramente riuscire ad ottenere risultati migliori di quelli conseguiti finora.
PRESIDENTE. Diversamente da quanto preannunciato in precedenza relativamente alla decisione di rinviare a domani il seguito degli interventi, i colleghi Palmieri, Ranieli e Santulli possono prendere ora la parola, in modo da snellire il prosieguo dei nostri lavori previsto per domattina.
ANTONIO PALMIERI. Rivolgendo al ministro gli auguri per lo svolgimento del suo incarico, vorrei esprimere tre considerazioni: una di merito, una culturale e una «lombarda».
La considerazione di merito riguarda una delle tre «i» della nostra campagna elettorale: Internet. Sia nel DPEF, sia nel nostro programma di Governo, è dato grande risalto alla questione dell’alfabetizzazione digitale per i docenti e per gli alunni. Proprio ieri, in un articolo pubblicato da Italia Oggi si sottolineava che, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il nostro paese è pesantemente arretrato su questo versante; vorrei pertanto sapere come il Governo intenda procedere. Vorrei suggerire, richiamando il contenuto della proposta di legge Berlusconi-Tremonti sulla new economy presentata nel 1999 ed anche la mia precedente esperienza professionale in televisione, che l’uso della TV di Stato ai fini dell’alfabetizzazione, non solo del corpo docente e degli alunni, ma dell’intero paese potrebbe rappresentare uno strumento molto interessante per consentirci di abbreviare, in modo consistente, i tempi di questa importante azione.
Vorrei aggiungere che l’e-government rappresenta un forte «anticalcare» nei confronti della burocrazia, nel senso sia di fornire attraverso di esso servizi direttamente agli utenti, sia di riorganizzare l’apparato interno dell’azienda scuola per essere adeguati all’uso di questa tecnologia.
La mia seconda considerazione è di tipo culturale: ho apprezzato il prudente ma deciso accenno alla scuola della libera scelta, alla scuola della famiglia, e quindi alla scuola della concorrenza e della competizione. Sono consapevole che, su questo tema, le forze politiche probabilmente si divideranno, al di là delle osservazioni dei colleghi intervenuti in precedenza perché, come spesso accade, una stessa parola, come ad esempio la parola sussidiarietà, assume significati completamente diversi a seconda dell’impostazione culturale delle parti che la fanno propria.
Relativamente alla mia terza considerazione, quella «lombarda», vorrei sottolineare che la riforma adottata da Formigoni ha il pregio di mettere la famiglia in una posizione centrale. Concordo con l’osservazione della collega Bianchi Clerici che si tratterebbe di un primo passo da estendere probabilmente a tutto il sistema scolastico. Bisognerebbe, poi, ragionare dell’abolizione legale del titolo di studio, che potrebbe anche surrogare, almeno in parte, il problema dei cosiddetti diplomifici.
In conclusione, mi auguro che la stagione che comincia adesso per la scuola possa essere una fase di un lungo e fecondo riscatto.
MICHELE RANIELI. Vorrei ringraziare il ministro per la sua relazione, per la compiutezza della conoscenza dei problemi evidenziati, ma anche per la disponibilità con cui si è posto nei confronti della Commissione.
La scuola italiana, certamente, ha vissuto e vive momenti di grande difficoltà. La riforma arriva con vent’anni di ritardo, rispetto al contesto europeo. I titoli di studio italiani, molti diplomi e quasi tutte le lauree non sono ancora riconosciuti all’estero, a causa dei cosiddetti principi di uniformità che non abbiamo sottoscritto a livello europeo. La scuola italiana vive un momento di grave ritardo soprattutto per quanto riguarda la conoscenza delle lingue straniere e l’innovazione informatica e telematica, perché manca ancora una alfabetizzazione diffusa in tutto il nostro sistema scolastico.
La scuola italiana, soprattutto quella elementare ma anche quella dei licei, si è sempre distinta per qualità e per essere la scuola umanistica per eccellenza: sappiamo tutto dei filosofi, dei greci, dei Borboni e così via. Sappiamo tutto della storia antica, ma siamo tutti fermi alla seconda guerra mondiale, nel senso che non conosciamo i fatti storici e culturali verificatisi nel nostro paese dopo il secondo conflitto mondiale. Questo è lo stato di arretratezza della scuola italiana: chi ha sostenuto il fatto che la riforma avesse risolto i noti problemi del settore ha evidentemente dimenticato le arretratezze metodologiche, legislative e culturali che invece il mondo della scuola vive. È una situazione di arretratezza anche quella in cui la scuola, soprattutto quella elementare, ha spesso accompagnato le famiglie, o addirittura si è sostituita ad esse, con grande senso di responsabilità e di capacità dimostrato dal personale docente e da quello operante all’interno della scuola.
La delusione di una riforma che non arrivava ha trasformato l’educatore in un impiegato comune dello Stato: gli ha fatto perdere l’attaccamento e la passione di essere educatore, di essere quindi qualcosa in più del comune impiegato statale. Ho apprezzato molto quanto detto dal ministro sulla necessità di porre al centro della scuola, non soltanto l’alunno, ma anche e soprattutto l’insegnante ed il personale che opera all’interno della scuola stessa, affinché possano sentirsi diversi dai comuni impiegati dello Stato. Per realizzare ciò è necessaria una formazione continua e porre, sotto il profilo della dignità e dell’autonomia del metodo didattico, nonché dell’autonomia finanziaria, il personale docente e non docente nella condizione di operare in modo più adeguato alla società del terzo millennio.
Dalla relazione svolta dal ministro emerge chiaramente la volontà di rivoluzionare questo sistema. Ritengo che l’istituzione di un centro di valutazione nazionale autonoma sia un’iniziativa in grado di fornire una risposta unitaria a livello nazionale. Anche l’istituzione di un tavolo delle semplificazioni è sicuramente significativa, così come la concessione di maggiore libertà ed autonomia agli istituti scolastici. Come diceva la collega Bianchi Clerici, un dirigente non può essere veramente tale se non dispone di risorse umane e finanziarie. Gli organici di fatto assegnati a livello centrale ai vari dirigenti sono quasi sempre insufficienti per poter pensare di andare oltre l’ordinario apprendimento del quotidiano nel mondo della scuola e, forse, a volte sono anche inadeguati a garantire l’ordinario. Mi riferisco alle strutture ed alle infrastrutture fatiscenti e soprattutto alla carenza di nuove tecnologie informatiche e telematiche, in particolare nelle aree del Mezzogiorno.
Alcuni passaggi della relazione del ministro non mi sono completamente chiari e in proposito vorrei qualche chiarimento e maggiori informazioni. Per esempio, il gruppo di lavoro nazionale costituito per approfondire la ricerca dei cicli, mi fa pensare ad un ripristino della scuola dell’obbligo, cioè la reintroduzione del ciclo delle scuole elementari e di quello della scuola media.
Con riferimento alla formazione obbligatoria, parallela al sistema scolastico, questa per essere efficace deve vivere a contatto diretto con l’impresa: una sorta di formazione in azienda. Non ho sentito parlare di formazione continua, né di FTS, formazione tecnica superiore integrata, che a mio parere deve essere rafforzata perché può anche diventare la cosiddetta laurea breve (il post diploma che diventa laurea breve, altamente specializzata in alcuni settori della tecnologia e della domanda proveniente dalla società dell’azienda e dell’impresa). Credo che tutto ciò vada – ripeto – rafforzato tenuto conto che almeno il 20 per cento di coloro che raggiungono un diploma non si iscrive all’università, e circa il 65 per cento degli iscritti non si laurea. Lo Stato, il Governo, e certamente la Casa delle libertà devono interrogarsi e dichiarare cosa possa essere offerto a questo 50 per cento nella sua interezza, tenuto conto che esistono difficoltà, una certa svogliatezza, in presenza di un mondo del lavoro che non offre occasioni.
Dobbiamo creare delle opportunità che possano essere rappresentate dalla formazione tecnica superiore integrata, concepita con curricula nazionali dove, nell’ambito degli FTS, deve diventare obbligatorio l’apprendimento di due o tre lingue straniere, dei sistemi informatici e telematici, di un sistema di pubbliche relazioni (cioè di come porsi di fronte all’interlocutore e al mondo dell’impresa). In sostanza gli FTS italiani potrebbero diventare quello che in Inghilterra chiamano baccellierato.
Non ho sentito parlare dei master e dei diplomi postlaurea, che non possono essere solo ed esclusivamente i dottorati di ricerca, perché abbiamo saputo e vissuto sulla nostra pelle come sono stati gestiti: in primo luogo con la limitatezza dei posti, in secondo luogo con il fenomeno del nepotismo (il barone di turno che gestisce alcune postazioni universitarie). Occorre allargare e ampliare al massimo i master attraverso i quali le università, i consorzi e gli enti di formazione italiani e stranieri possono utilizzare i fondi comunitari. In qualità di coordinatore degli assessorati regionali alla formazione e all’istruzione, ho constatato che la mia è stata la prima regione italiana ad utilizzare interamente i fondi comunitari per la predisposizione di master della durata di due anni (dei quali sei mesi si trascorrevano presso università estere che rilasciavano l’attestato, che le nostre non erano ancora abilitate a fare). Dobbiamo incentivare la ricerca perché l’Italia è quasi ultima per livello di investimenti; attraverso la ricerca è possibile non soltanto adeguarci alle nuove esigenze e alle nuove tecnologie, ma anche sviluppare il settore occupazionale in modo serio e significativo per i giovani laureati. Anche in tale caso non basta investire, occorre soprattutto aumentare la disponibilità e gli spazi per quanto riguarda i dottorati di ricerca.
Credo che complessivamente la devolution, così come emerge dal documento di programmazione economica e finanziaria, sia un fatto che non sconvolge nessuno. Anzi, per quanto mi riguarda, mantenere un unico quadro di riferimento nazionale e trasferire ai dirigenti regionali alcune competenze e funzioni, significa certamente introdurre una semplificazione dal punto di vista della funzionalità e di una maggiore efficacia nella gestione della scuola. Mi domando anche se i provveditorati agli studi debbano necessariamente essere cancellati o se essi rispondano ancora ad una logica che, come dimostra anche l’ultimo decreto-legge sui precari che abbiamo approvato, demanda ai singoli capi di istituto (per esempio la possibilità di procedere alla nomina). Personalmente, ritengo che, forse, i provveditori agli studi rispondano ad una logica soprattutto territoriale, perché in alcune realtà del Mezzogiorno raggiungere l’interlocutore regionale significa percorrere 300 o 350 chilometri, non garantendo un servizio né alla didattica, né al cittadino. Forse il provveditorato agli studi risponde ancora alla logica territoriale del servizio che vogliamo fornire al mondo della scuola.
Sono preoccupato perché non possiamo ancora temporeggiare sulla riforma della scuola: lo abbiamo fatto per un ventennio e l’Europa ci impone di fare in fretta, di adeguarci di fatto agli standard europei e, soprattutto, di mettere gli insegnanti e le risorse umane primarie, che sono i giovani, nelle condizioni di pari opportunità per poter competere in termini di linguaggio (e perciò insisto sull’insegnamento di almeno due lingue straniere e sul sistema alfabetico informatico in ogni stato e grado dell’istruzione e dell’informazione). Le nuove tecnologie ci consentono, oggi, di recuperare le lacune delle quali il paese ancora soffre a causa di difetti e ritardi strutturali e infrastrutturali. Sono convinto che un manager come il ministro Moratti saprà velocemente colmare tali lacune e farci recuperare ritardi ormai ultraventennali, che gravano sul sistema scolastico italiano.
PAOLO SANTULLI. La ringrazio, signor ministro, perché mentre lei svolgeva la sua relazione mi veniva naturalmente da annuire in quanto le sue dichiarazioni, per persone che hanno vissuto come genitori o come docenti nella scuola, fanno veramente pensare che ci possa essere una svolta. Si è sempre parlato della centralità della scuola per la crescita civile di un paese, però si sono fatti sempre i conti in termini di risorse ed i risultati non davano la possibilità di rendere centrale questa idea. Oggi, invece, ascoltando ciò che lei ha detto, sono convinto che veramente ci troviamo di fronte – ripeto – ad una svolta epocale: me lo auguro, perché il mondo della scuola e l’intero paese ci osservano e ci guardano. Effettivamente la scuola riguarda tutti, nessuno escluso, ed è per tale motivo che sono contento di poter partecipare in qualche modo al suo sviluppo. Provarci è necessario: è evidente che gli ostacoli non mancano, in quanto dobbiamo fare sempre i conti con la borsa e le difficoltà sono obiettive, però ritengo che ci troviamo ad un punto di non ritorno.
Lei parlava di investimenti strutturali per la scuola ed io credo che ciò sia fondamentale, atteso che, signor ministro, al sud stiamo ancora vivendo, per quanto riguarda le strutture scolastiche, sulla legge Falcucci, emanata per risolvere i soliti problemi dei doppi, tripli e, a volte, quadrupli turni. Non vi è stata in tal senso una politica di investimenti e, addirittura, si continuano a prendere in locazione strutture indegne, che fanno sperperare denaro pubblico. La invito, perciò, a pensare a qualche provvedimento veramente forte, come è stato, a mio giudizio, la legge Falcucci. Mentre al nord si dismettono gli edifici scolastici, al sud siamo ancora in condizioni precarie: gli enti locali non hanno risorse, i ragazzi non hanno la possibilità di poter sviluppare funzionalmente un discorso che, altrove, è ordinario.
Tali forme di discriminazione non possono essere più accettate in un paese come il nostro. È vero che l’Italia è stretta e lunga, ma quello che vale per Milano, signor ministro, deve valere anche per Reggio Calabria. Dobbiamo fare in modo che ciò avvenga, ci dobbiamo almeno provare. Parlo di problemi che conosco bene: la legge n. 88 del 7 febbraio 1958, mai abrogata, stabilisce che un istituto con 20 classi deve disporre di una palestra, mentre oltre tale limite, sono necessarie due palestre, ma in Italia non vi sono neanche le scuole. Poiché tale legge non è stata mai abrogata e l’educazione fisica è una materia pratica vi è una discriminazione di fatto nel suo insegnamento. Atteso che non vi sono materie di serie A e di serie B (tutte concorrono alla formazione), ci dobbiamo guardare negli occhi e stabilire quello che dobbiamo fare oppure dobbiamo rivedere quelli norme ancora in vigore, ma inattuate. Diversamente, alcuni enti locali, seguendo la legge, operano in un certo modo, altri enti locali, non osservando la normativa, agiscono in modo diverso.
Ho parlato di palestre, quindi di sport, che dà la possibilità ai ragazzi di avere un legame con la scuola, perché sono attività che veramente permettono loro di sentirsi bene nella scuola. Laddove si sviluppano le discipline che fanno fare ai ragazzi ciò che a loro piace, è evidente che vi è la possibilità che essi non vadano altrove e non cerchino altrove. Facciamo in modo che la scuola diventi un luogo nel quale, quando suona il campanello, non si cerchi di fuggire (come invece è sempre successo a noi in quanto non esistevano le possibilità di sentirsi veramente bene nella scuola). Inoltre ritengo, signor ministro, che ultimamente determinate scelte ideologiche abbiano appesantito, penalizzato e addirittura mortificato la scuola. Se lei pensa – lo diceva nella sua relazione – a ciò che hanno dovuto e devono subire i docenti, converrà con me sulla necessità di approfondite alcune questioni. Non sono più ammissibili, per gli insegnanti, inutili carichi di lavoro che fanno perdere di vista la loro funzione docente: è evidente che essi non sono più motivati in quanto gli vengono attribuiti compiti che devono essere affidati ad impiegati di segreteria. Se guardiamo alla scuola di un tempo – come dicevano gli amici dell’opposizione – sicuramente non tutto ciò che è stato fatto deve essere cancellato. Anche nelle radici della nostra scuola, quella che hanno voluto cancellare, vi erano tradizioni che andavano mantenute: abbiamo una scuola elementare che è la migliore d’Europa, una scuola secondaria che va benino, perché la riforma della scuola media del 1962 ha dato risultati eccezionali. Perché allora non rivedere qualche aspetto e cercare di recuperare una tradizione che, purtroppo, si è voluto cancellare? Non sappiamo ancora per quale motivo siano state invertite determinate tendenze e tradizioni che erano funzionali e produttive.
Cerchiamo di mettere un freno ad alcuni meccanismi perversi che si sono realizzati negli ultimi anni per l’acquisizione di titoli per la progressione della carriera. Cerchiamo di operare diversamente, in quanto gli insegnanti sono stati mortificati e hanno dovuto fare la corsa per ottenere certificazioni e privilegi finalizzati a certi incarichi e per guadagnare quel poco di salario in più.
È indispensabile offrire alla scuola un’autonomia gestionale reale, perché, signor ministro, ultimamente si sono realizzati progetti a tema con i quali, a livello centrale, si sono sperperati miliardi inutilmente: la scuola non ne aveva bisogno, ma il collegio dei docenti, pur di non perdere quelle opportunità, faceva «al mare il progetto della montagna e alla montagna il progetto del mare». Tali iniziative servivano solo ed esclusivamente ai docenti che le realizzavano, non ai discenti e agli alunni. Diamo, allora, la possibilità alle scuole di ottenere finanziamenti, ma di realizzare autonomamente, secondo le reali esigenze e necessità, i progetti collegati con l’offerta formativa già programmata, argomenti che lei ha centrato appieno nella sua relazione, che tuttavia ho voluto rimarcare perché sono aspetti molto sentiti.
Relativamente all’università vorrei chiederle, signor ministro, se non sia possibile valutare quelle esigenze del mondo del lavoro che l’università non riesce praticamente ad attuare. Vi sono lauree brevi dove il numero chiuso non consente la partecipazione di tanti studenti, mentre, invece, il mondo del lavoro ha bisogno di molti operatori specializzati. In questo modo facciamo proliferare il numero di personale aspecifico che occupa posti di lavoro attraverso specializzazioni organizzate da enti ed agenzie che non hanno alcun titolo legittimante (addirittura diplomifici che vengono poi equiparati e riconosciuti). Perché allora non dare la possibilità all’università di avviare tali specializzazioni e di adeguarsi per poter formare meglio il personale in questione?
Concludo il mio intervento con un argomento sul quale è opportuno soffermarci: la questione degli insegnanti di sostegno. Signor ministro, il problema è molto grave. Bisogna intervenire drasticamente perchè – lo denuncio pubblicamente – alcuni docenti, senza una sincera motivazione, acquistano le licenze e, non avendo passione e inclinazione verso quella professionalità, a chi danno sostegno? Abbiamo eliminato le scuole differenziali con l’introduzione delle integrazioni, ma non esiste niente. Bisogna rivedere anche tale questione: affidiamo ciò alle università, facciamo partecipare tutti. Chi veramente se la sente vada all’università e dopo a svolgere determinate attività, ma rispettando quanti hanno bisogno di essere sostenuti in questa azione e non mortificando ulteriormente famiglie e persone che hanno necessità di tale servizio, perché così non facciamo giustizia in nessun senso. È importante che gli enti locali, le aziende sanitarie locali e le strutture deputate ai servizi sanitari e riabilitativi attuino una concertazione, perché vi sono figure professionali che possono operare in sinergia, veicolando professionalità che esistono, ma non vi è nessuno che si preoccupa di strutturare funzionalmente tali percorsi.
PRESIDENTE. Nel ringraziare il ministro per la sua disponibilità e i colleghi per i loro interventi, rinvio il seguito dell’audizione alla seduta di domani 19 luglio, alle ore 9. Avverto che a seguire avranno luogo le sedute della Commissione già convocate per domani a partire dalle 14,15.
La seduta termina alle 18,05.
Seduta di giovedì 19 luglio 2001
La seduta comincia alle 9.15.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Seguito dell’audizione del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Letizia Moratti, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Letizia Moratti, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Proseguiamo l’audizione iniziata nella seduta di ieri dando subito la parola all’onorevole Bimbi.
FRANCA BIMBI. Signor ministro, preliminarmente la voglio ringraziare per il tono e lo stile della sua relazione, perché ritengo che mantenere nella dialettica politica lo stile delle relazioni sia un segno positivo per la democrazia, perché ci aiuta a capire dove sono le reali distinzioni e dove invece innalziamo gli steccati dei pregiudizi e delle ideologie. Fatta questa premessa, sottolineo non solo elementi di distinzione, ma anche elementi di artifizio ideologico insiti nella sua relazione.
Quando la società discute, si appassiona e si divide sulla scuola,dà segno di interesse verso le grandi questioni e ciò non è un fatto negativo, ma un segnale altamente positivo; mi riferisco alla formazione delle giovani generazioni, alla trasmissione dei modelli culturali in una società complessa, allo sviluppo economico e sociale del paese. Tuttavia, il dibattito ha un significato diverso se avviene seguendo il metodo della distinzione tra le ideologie, le considerazioni di merito, i costi, i benefici e gli approcci scientifico-culturali ai problemi, oppure, al contrario, se si svolge nella confusione dei piani, nella riduzione di ogni questione di metodo e di schieramento culturale ad opzioni riconducibili a polemiche ideologiche.
La proposta del Governo di slittamento della riforma dei cicli e anche quella pur parziale della riforma universitaria tendono a corrispondere più a scelte dettate dalla polemica ideologica che da critiche congruenti di merito alle riforme dell’Ulivo; neppure mi sembra discendano da un programma organico del Governo, in relazione ad opzioni culturali coese e sistematizzate all’interno della sua composita compagine. In questo senso, non mi sento di condividere della sua relazione, a volte, nemmeno l’esposizione del quadro descrittivo degli indicatori relativi al sistema formativo italiano nel contesto europeo. Essi infatti sono presentati in maniera da sostenere un approccio ideologico del Governo alle questioni del sistema formativo, senza fornirci quegli elementi di distinzione programmatica che ci saremmo attesi, in virtù delle specifiche proposte avanzate, man mano nell’esposizione della sua relazione. Faccio un esempio; non c’è dubbio che la numerosità delle classi in Italia sia più bassa rispetto agli altri paesi europei, ma non ci siamo chiesti a che tipo di indicatore corrisponde la numerosità delle classi e come esso incide sugli obiettivi della scuola.
In Francia la discussione è durata diversi mesi: si è partiti dall’obiettivo positivo di diminuire la numerosità delle classi, giungendo infine pubblicamente a riconoscere che tale diminuzione non era possibile a seguito di vincoli economici, distinguendo quindi la qualità della relazione pedagogica, che corrisponde ad una minore numerosità delle classi, dalla reale capacità di risorse. Si è sostenuta una delle caratteristiche del sistema di istruzione francese nelle scuole superiori, che è quella di un complesso sistema di tutoraggio, considerato strumento utile per raggiungere l’obiettivo di fondo del Governo francese: tutti con un diploma superiore. Mi pare che questa indicazione della distinzione tra aspetti di contenuto pedagogico e aspetti di utilizzazione delle risorse dovrebbe essere considerata attentamente anche dal nostro Governo.
Voglio inoltre sottolineare come su alcune opzioni di fondo vi siano forti distinzioni. Signor ministro, lei ha presentato come obiettivo principale della scuola la formazione del capitale umano; a noi sembra che tale riforma e comunque l’approccio alla questione del sistema scolastico e formativo del paese debba considerare complessivamente la formazione ed il valore del capitale umano, sociale e culturale delle giovani generazioni. Infatti, se c’è oggi una crisi nel sistema scolastico, non solo italiano, riguarda proprio la capacità di istituzioni, come la scuola e la famiglia, di fornire ai giovani un contesto di integrazione sociale e di sostegno all’identità, complementare alla formazione delle competenze.
Se analizziamo gli indicatori relativi alla dispersione scolastica e consideriamo semplicemente la differenza di genere, constatiamo che la maggiore integrazione sociale delle donne comporta migliori performance all’interno del sistema scolastico. Ciò è importante anche per farci riflettere sul fatto che non esistono automatismi nei processi di cambiamento sociale e nel passaggio dal disegno istituzionale ai processi sociali, né esiste una corrispondenza assoluta o automatica tra il successo scolastico e le performance nel mercato del lavoro. Se distinguiamo per genere tutti gli indicatori che utilizziamo rispetto al rapporto tra la scuola e il mercato del lavoro, vediamo che gli automatismi tra successo scolastico ed affermazione nel mercato del lavoro funziona in maniera assolutamente diversificata per le donne e per gli uomini. Il nostro sistema scolastico, analizzato dal punto di vista delle performance delle donne, è in gran parte coerente, ma non corrisponde al successo professionale delle donne; il che significa che quando affrontiamo la gestione del sistema formativo dobbiamo inserire al suo interno delle variabili tra cui quelle relative alla diseguaglianza sociale, alle discriminazioni. Dobbiamo cioè inserire il tema della relazione pedagogica e dell’integrazione sociale come un aspetto dell’offerta formativa, ma anche del sistema di valutazione, tenendo presente che non esiste un automatismo diretto tra sistema formativo e mercato del lavoro, bensì che si opera su di essi nell’ambito di obiettivi generali che possono riguardare o meno il riequilibrio delle diseguaglianze sociali.
La scuola è uno dei pochi canali di mobilità sociale e sappiamo che non funziona bene in nessun paese del mondo; tuttavia, se non ci poniamo questo obiettivo non comprendiamo nemmeno quale sia la ratio dell’allungamento dell’obbligo scolastico. La scuola ha tre funzioni quali lo sviluppo e formazione del capitale umano, sociale e culturale delle giovani generazioni, l’integrazione sociale rispetto a norme e valori condivisi ed infine una funzione di riproduzione culturale anche delle opzioni culturali delle comunità e delle famiglie.
Anche sul tema della libertà in termini di scelte delle famiglie, occorre intendersi; dobbiamo ricordare che esiste persino una convenzione internazionale sui diritti dei minori, sottoscritta anche dal nostro paese, che tutela la libertà religiosa, di espressione, e così via. Se intendessimo che la scelta della famiglia di una scuola di un determinato orientamento corrisponde al primo diritto della società civile, vorrebbe dire che riduciamo i diritti dei giovani e degli adolescenti ai diritti dei genitori.
Credo che in una società multiculturale ci troveremo sempre di più di fronte a contraddizioni; quindi sostenere una scuola delle identità, che è diverso dal sostenere le opzioni culturali delle famiglie, può voler dire mettere in conflitto ancor più le generazioni, in una situazione sociale in cui invece si tratta di ricucire e di ricostruire i legami sociali tra le generazioni.
Non voglio dire che la scelta di una «scuola dell’identità» sia inferibile dalla sua relazione: si palesa, piuttosto, in qualche intervento dei colleghi della maggioranza o esternazioni di ministri – non v’è dubbio -, soprattutto all’interno di una certa interpretazione della cosiddetta devolution. D’altra parte, la libertà delle famiglie nasce e si sviluppa se vi è pari opportunità di accesso alle risorse. Forse, non è poi così vero che i genitori italiani scelgano una scuola di un certo tipo (statale o parificata) per motivi di orientamento culturale; spesso la scelgono perché prossima al luogo in cui abitano o perché, indipendentemente dall’approccio culturale, sono convinti della qualità e degli elevati standard formativi. Quindi, dobbiamo dare alle famiglie opportunità di accesso alle risorse economiche affinché possano scegliere all’interno del sistema di istruzione: tale uguaglianza di condizioni, infatti, è il primo gradino per scegliere con reale libertà tra le varie opzioni culturali.
Immagino che lei condivida con me la tesi di una libertà negativa, integrata dalla non ingerenza da parte dello Stato (ma anche delle regioni e delle istituzioni pubbliche in genere) nelle opzioni culturali dei cittadini; perciò, anziché enfatizzare il ruolo giocato dall’ideologia – il che non avrebbe alcuna corrispondenza, tra l’altro, neppure nelle relazioni tra genitori e figli, così come vengono concepite oggi e quali si sono sedimentate in conseguenza delle garanzie predisposte a tutela dei diritti dei minori -, dobbiamo, nella scelta della scuola da parte delle famiglie, porre le condizioni di una pari opportunità di accesso alle risorse. Certo, noi siamo d’accordo con la tesi che vuole una scuola che diversifichi la sua offerta culturale in relazione ai contesti territoriali, ma siamo fortemente contrari ad una scuola delle identità. Siamo, infatti, fortemente contrari ad una scuola che enfatizzi le differenze di identità culturale – sotto qualsiasi aspetto queste vengano intese -, una scuola cioè che schiacci le origini culturali delle famiglie omologandoli ad un’idea monolitica di orientamento dei programmi.
Sarei stata alquanto contenta se i miei figli, nati in Veneto (a differenza di me, come si può intuire), avessero imparato a leggere Goldoni e Ruzzante a scuola; al contrario, sarei estremamente preoccupata se il modello fosse quello di una scuola appiattita sull’identità veneta. Non nutro alcuna preoccupazione per il fatto che mia figlia abbia studiato per circa 15 anni i paleoveneti piuttosto che gli etruschi (provo un po’ di sofferenza ma è il costo della mia integrazione sociale); nutro, invece, grande preoccupazione per la circostanza che si enfatizzi l’identità veneta come primo contenuto di una scuola regionalizzata, e lo si faccia anche con corsi di formazione per gli insegnanti, attraverso un percorso che può portare solo ad un provincialismo della cultura. Dobbiamo piuttosto coniugare la più ampia riscoperta possibile delle radici locali (delle città, dei giacimenti culturali del nostro paese) con il cosmopolitismo e l’apertura internazionale.
Posta questa premessa, vorrei tornare brevemente sulle ragioni in base alle quali la nostra interpretazione della libertà delle famiglie (intesa quale pari opportunità nella redistribuzione delle risorse) confligge fortemente con la scelta, per esempio della Lombardia, di un buono scuola. Quest’ultimo è un provvedimento che emargina proprio le famiglie appartenenti alle fasce meno abbienti finendo, in realtà, per diventare un marchingegno per non finanziare la scelta della scuola statale; riteniamo che ciò strida proprio con la definizione di libertà che dovrebbe accomunare ogni liberale.
Vorrei fare un breve cenno anche al tema della «valutazione», peraltro manifestando una grande stima per alcuni colleghi suoi consulenti. In questo caso, le mie considerazioni nascono non tanto da un’aprioristica opposizione ad una agenzia terza di valutazione quanto da una riflessione sul significato più profondo di autonomia scolastica, riflessione maturata anche grazie alla mia esperienza all’interno dell’università (cioè in un ambito nel quale i processi di valutazione, là dove si cominciano a fare seriamente, sono processi di autovalutazione). Se il Governo vuole davvero implementare la motivazione degli insegnanti, ritengo debba avvicinare quanto più possibile gli strumenti di valutazione al principio di autogestione della comunità scientifica; nell’esporre tale opinione non ho tenuto conto delle resistenze che verranno dai corporativismi di ogni ordine di insegnanti, a partire da quello dei professori universitari. Personalmente, devo dire che per due anni ho subito il giudizio del mio nucleo di valutazione, senza condividerlo. Tuttavia, al di là delle resistenze soggettive, il fatto che all’interno di alcune università vi siano, ormai, esperienze consolidate di nuclei di valutazione, che confrontano sia i loro metodi sia i loro risultati all’interno della comunità universitaria, serve a conseguire due obiettivi: anzitutto, la circostanza che tutti i professori, tutti gli insegnanti riconoscono che la valutazione è uno strumento di competizione positiva che giova alla qualità; quindi, la presa d’atto, da parte loro che il governo della valutazione si trova all’interno degli obiettivi che il sistema formativo si è dato.
In questo senso, mi sembra che la scelta dell’agenzia esterna deprima tale tipo di percorso; peraltro, se il Governo vuole veramente sostenere l’autonomia scolastica, dovrebbe, probabilmente, apprestare strumenti premiali, affinché essa diventi, come lo è già nel caso dell’università, l’autonomia del sistema scolastico in un territorio piuttosto che l’autonomia della singola scuola. All’interno di tale disegno (non certo all’interno della singola scuola), è possibile realizzare anche un sistema di valutazione che tenga conto non solamente delle performance della scuola nelle conoscenze e nelle competenze che è in grado di fornire, ma anche delle sue performance nelle funzioni sociali che fosse in grado di assolvere: bisognerebbe poter valutare, cioè, quanto, ad esempio, sia in condizione di prevenire il disagio giovanile; come riesca a produrre integrazione sociale, anche con riferimento ai cittadini di origine straniera (vieppiù presenti nella nostra scuola). Le performance di multiculturalismo, quindi, dovrebbero venir prese in considerazione nella valutazione del sistema scolastico: signor ministro, nessun accenno a tutto ciò è contenuto nella sua relazione.
Inoltre, andrebbe anche valutato come il sistema scolastico di un territorio massimizzi le risorse in funzione della prevenzione e del contrasto alla dispersione scolastica. In questo senso, probabilmente, doveva procedere anche la riforma dei cicli scolastici dell’Ulivo, avvicinando l’esperienza del CEDE (Centro europeo dell’educazione) a quella dei sistemi scolastici territoriali. Credo che la scelta operata di una agenzia esterna, in considerazione dello stato di debolezza dell’autonomia della scuola italiana, sia una scelta contraddittoria proprio con l’implementazione della motivazione degli insegnanti. L’autonomia della scuola italiana, a differenza di quella dell’università (che ha dietro una tradizione secolare), è un’autonomia di recente acquisizione e appena agli inizi per quanto riguarda la definizione dei curricula.
Ho voluto, pur non essendo un’esperta di sistemi scolastici, esporre tali rilievi di metodo rispetto al suo approccio politico alla riforma della scuola; mi spiace fortemente che il suo intervento adduca, per il rinvio delle due riforme, motivazioni forse pertinenti sugli specifici punti, ma non motivate rispetto alla portata complessiva delle decisioni. Vero è che nell’esposizione orale lei ha sfumato i toni, per quanto riguarda la riforma universitaria. Ma non voglio essere fraintesa: mi rendo conto che, rispetto alla riforma universitaria, è intervenuta la presa d’atto della forza con la quale l’università ha governato e sta governando la riforma. Tuttavia, a me sembra piuttosto pericoloso dare facoltà, alle università che ne sentano l’esigenza, di differire l’inizio dei nuovi corsi di studio relativi all’anno accademico 2003-2004. Poiché la riforma universitaria è stata introdotta nell’ordinamento quasi senza predisporre risorse, le università che non sono in grado quest’anno di applicare la riforma sono sostanzialmente quelle che non si sono messe in grado, organizzativamente, di partire con i corsi. A tale riguardo, posso, infatti, essere particolarmente «cattiva» proprio perché, operando all’interno del sistema universitario, conosco la situazione. È vero che, oggi, il sistema universitario, acquisito il tre più due, richiede – l’ha richiesto il Governo dell’Ulivo e lo richiede l’attuale Governo – una flessibilità rispetto allo stesso tre più due. Secondo i diversi atenei, ciò sembra indubitabile; tuttavia, siccome nella sua relazione lei ha posto grande enfasi sulla centralità degli studenti e delle famiglie nel sistema scolastico e formativo, vorrei farla riflettere sulle loro difficoltà, poiché per l’anno scorso (infatti, una parte della riforma universitaria è partita l’anno scorso), quest’anno o il prossimo anno, hanno dovuto o devono scegliere tra il nuovo e il vecchio sistema. Credo che ciò ingeneri confusione nelle famiglie e negli studenti, confusione riferita proprio alla differenza nella qualità dell’offerta formativa.
È vero che alcune facoltà – non sempre le facoltà umanistiche -, se non richiedono un mantenimento del vecchio ordinamento degli studi, richiederebbero, però, una sperimentazione, parallela al «3 più 2», di esperienze quali, per esempio, il quattro più uno. Per intenderci, si tratterebbe di una laurea tradizionale rinnovata più un master, ma non voglio ora indugiare in aspetti tecnici che aumenterebbero solo il mio senso di colpa per aver lasciato, il 13 maggio, una classe di laurea di cui ero responsabile. Vi è, però, qualche differenza tra sostenere un differimento della riforma universitaria e, invece, acquisire il «3 più 2» come base per tutta l’università italiana, permettendo – come suggeriscono anche autorevoli membri della CRUI (conferenza dei rettori delle università italiane) – sperimentazioni anche pesanti di altri tipi di organizzazione delle classi di laurea (e di percorsi che dalla laurea proseguono con il master ed il dottorato); spero che sia un equivoco del testo piuttosto che una volontà politica.
È molto importante il sostegno del Governo a favore della ricerca scientifica; tuttavia, negli interventi dei 100 giorni, ho trovato la proposta delle invenzioni agli inventori abbastanza debole rispetto all’attuale livello di sperimentazione di alcune università statali e non: il singolo ricercatore difficilmente riesce a vendere il proprio brevetto. Semmai dovrebbero essere incentivate le esperienze di spin off e di imprese innovative all’interno dell’università. Si deve compiere perciò un approfondimento maggiore, anche in sintonia con quello che diceva ieri il collega Damiani.
Desidero fare una considerazione più approfondita sul rapporto tra dottorato e sbocchi occupazionali: è giusto spingere per un rafforzamento della competitività scientifico-tecnologica del nostro sistema universitario. Tuttavia, l’Italia è un paese ricco di giacimenti culturali che vanno mantenuti e sviluppati, anche all’interno del sistema formativo. È assolutamente negativo che giovani studiosi di musicologia e di arte bizantina, o di letteratura del cinquecento, debbano recarsi negli atenei degli Stati Uniti per studiare e per trovare i testi. Non è possibile impostare allo stesso modo le relazioni tra l’alta formazione universitaria e il mercato del lavoro per le facoltà scientifiche, umanistiche, economiche. Esiste infatti una potenzialità nel mercato del lavoro per le specializzazioni di tipo umanistico, che però non godono di incentivi, per scarsità di risorse.
Il proposito di aumentare lo stanziamento ordinario delle università è un primo passo avanti per sostenere in maniera più ampia la loro autonomia.
MARCELLO PACINI. Signor ministro, le manifesto il mio consenso per l’impostazione generale della sua relazione.
Desidero fare alcune osservazioni sulla ricerca e sul problema del multiculturalismo nella scuola. Premetto che sono lieto di osservare da parte dell’opposizione un consenso sui principi generali (solo quando si puntualizzeranno meglio le modalità di realizzazione dei programmi, sorgeranno i contrasti).
La gravità dei problemi della ricerca invoca alcuni provvedimenti per cambiarne la struttura organizzativa. Ho apprezzato la sua sincerità nel sottolineare il rischio di una marginalizzazione progressiva del nostro paese. È giusta la sua ricetta di introdurre il principio di eccellenza, nella scuola e nella ricerca, ma è importante porre anche scadenze temporali: quello che infatti si può fare oggi, non si rimandi a domani. Se siamo in questa situazione, è perché cinque anni fa, certe cose non sono state fatte.
Ho letto oggi un articolo di un quotidiano italiano che riportava le considerazioni affatto positive di una rivista britannica sul nostro modo di fare ricerca: potrebbe essere scritto anche da un commentatore italiano attento a ciò che accade nel nostro paese. Da queste analisi deriva che puntare solo all’aumento delle risorse finanziarie, è negativo, anche perché, pur non sapendo se il sistema di distribuzione delle risorse funzioni bene o male, esse sono comunque del tutto insufficienti. Bisogna allora costruire un pacchetto di interventi, per una seria politica di ricerca, interventi che sono previsti nella sua relazione a cominciare dai provvedimenti di natura fiscale.
Dall’articolo di Nature e da alcune altre informazioni che ho avuto, nel nostro paese, il raggiungimento degli obiettivi della ricerca da parte dei grandi enti pubblici – in primo luogo il CNR, con oltre 3.500 ricercatori – risulta essere niente affatto risolto. Il giudizio di Nature sulla riforma in corso è di insufficienza: l’accusa è di «gattopardismo» che, tradotto nei nostri termini, significa aver compiuto una riforma del tutto formale e che, nella sostanza, le cose continuano come prima. Un’altra informazione, fornita da un esperto, è che la riduzione a 100 dei 340 organi del CNR è stata puramente formale: alcuni sono diventati istituti principali, altri ne sono stati assorbiti. Che ruolo hanno allora i grandi enti che canalizzano la gran parte dei fondi della ricerca? Condivido la necessità di uno svecchiamento del personale, attraverso processi di mobilità verso la pubblica amministrazione, l’università, il privato, o con il prepensionamento, ma è opportuno adottare, al più presto, una strategia che con tempi certi concretizzi il ragionamento.
La riforma del dottorato di ricerca avrebbe quindi significato solo se avvenisse tale svecchiamento. Nell’arco di tre anni, l’Italia licenzia circa 12 mila dottori di ricerca, in Europa la media è sui 30 mila. Il quadro descritto mostra il complesso di una situazione niente affatto rosea: ogni momento che passa, cresce la drammaticità della nostra posizione. Come arrestare e invertire questa tendenza? Si deve fare un piano molto ancorato a termini ed a scadenze. Un passaggio obbligato di questa situazione è la riflessione sullo stato giuridico dei ricercatori. Ieri, è stato posto il problema (che entra solo marginalmente nel discorso che stiamo facendo questa mattina, ma è uno dei grandi temi su cui ogni tanto si ragiona) del valore giuridico dei titoli di studio. Quello che ora sto sollevando è un altro grande problema. Certamente lo stato giuridico di un ricercatore – e di un professore universitario in generale – va affrontato all’insegna di una maggiore contrattualizzazione, di un maggiore orientamento al privato, di una minore differenza tra un rapporto di impiego privato ed il rapporto di impiego di questi grandi istituti. La linea con cui il CNR andrebbe riformato non è la privatizzazione, che a mio parere risolverebbe poco, anzi nulla, ma – auspicherei – la sua trasformazione in una serie di fondazioni di alta ricerca. Immagino l’inserimento di questo ente all’interno del terzo settore, non più pubblico, ma neanche privato in cui vi possano essere profili istituzionali privatistici di natura non lucrativa, che permettano una maggiore flessibilità e sinergia con altri soggetti e, comunque, una fuoriuscita totale dal sistema di natura pubblica, che ha ormai fatto il suo tempo. Su tali problemi e sulle modalità concrete con cui si potranno realizzare, mi auguro si possa instaurare un colloquio tra il Governo e la Commissione, perché reputo questo un punto focale, necessario da risolvere, se si intende frenare quel processo di marginalizzazione di cui ho detto.
Un altro problema riguarda il regime della proprietà intellettuale. Si tratta di una proposta che va approfondita e rientra nei suggerimenti che devono essere inquadrati all’interno di un programma più organico. Oggi, il brevetto non esiste all’interno dell’università italiana; non è neanche un titolo concorsuale (è molto più importante scrivere un articolo che non conseguire un brevetto). Si tratta di realizzare una rivalutazione completa ed una ricollocazione del brevetto come elemento di valore, che non è nella nostra tradizione. È apprezzabile questo tipo di intervento e di interesse, ma, proprio perché è importante, nel momento in cui si riescono a porre le basi di un suo rinnovamento, bisogna collocarlo all’interno di una prospettiva più generale del tipo di ricerca, l’individuazione in quale ambito debba essere svolta la ricerca di provenienza pubblica.
Vorrei svolgere una breve notazione sul tema della multiculturalità, che, immagino, sarà uno dei punti su cui ci troveremo a discutere ampiamente con l’opposizione in maniera, mi auguro, serena. Molte preoccupazioni sulla cosiddetta devolution sono infondate. L’intervento fatto ieri dalla collega Bianchi Clerici della Lega Nord Padania, ad esempio, mi sembra improntato all’insegna della tranquillità. Personalmente, penso che la scuola debba fornire un’identità – come diceva la collega che mi ha preceduto – di cittadini italiani e, senza alcun riferimento ad una celebre fondazione politica, anche europei (e probabilmente anche toscani, veneti ed altro), dove insegnare Manzoni, Pirandello ed altri. Nella mia esperienza, anche banale, di questi giorni, ho avuto la certezza che la lingua italiana si è profondamente radicata negli ultimi due secoli anche nei punti più sperduti: ad esempio, a Cividale del Friuli, nel 1849, la pubblicità di un ristorante – che tuttora esiste – è stata scritta in un perfetto italiano. Nella sostanza, questo radicamento della cultura italiana è una delle caratteristiche del nostro paese: siamo più italiani di quanto non ci rendiamo conto.
Il problema vero è continuare in quest’opera di costruzione di un’identità italiana federale, articolata nelle varie origini regionali, e rivolgere tale atteggiamento ed attitudine anche ai nuovi arrivati, gli immigrati. Esprimo qualche preoccupazione sull’accento e sulla sottolineatura degli interventi sul termine multiculturalità. Compito principale della scuola, anche verso gli immigrati, è dare i principi generali dell’ordinamento e della Costituzione italiana; segnalerei alla sua attenzione, signor ministro, la possibilità di consigliare o ordinare – non so più quali sono i rapporti che legano il ministro con le scuole – dei corsi di educazione civica e di insegnamento, anche con docenti di supporto e di appoggio, dell’italiano ai giovani figli di immigrati che frequentano la scuola, proprio perché la conoscenza della lingua è il principio primo della socializzazione e dell’integrazione. Proporrei anche che fosse riscoperta quella felice esperienza degli anni settanta, le 150 ore, da dedicare agli immigrati adulti, affinché possano attraverso questi corsi serali, opportunamente finanziati dal ministero, trovare le modalità di inserimento nella società italiana.
PIERA CAPITELLI. Vorrei partire da una premessa generale sull’idea che esiste oggi della scuola, tra molte persone, e mi soffermerò, in particolare, sull’idea che nella coalizione di centrosinistra è molto forte. La consapevolezza dei diritti dei cittadini è una condizione essenziale per la convivenza civile. Sappiamo che nel corso della storia, dal ‘700 ad oggi, tutti i diritti che consentono la promozione ed il rispetto della persona sono stati oggetto di grande interesse e, qualche volta, anche di grandi dispute, ma l’esaltazione del diritto al sapere è un fenomeno dell’era postmoderna. Mai come oggi, il diritto al sapere è stato inteso come valore essenziale, come risorsa di cui deve essere dotato il singolo individuo. Il sapere è un nuovo strumento di emancipazione: sapere, conoscenza per dominare il presente e per determinare e controllare lo sviluppo del futuro, sia esso sociale, economico e culturale; sapere come punto di incontro e di snodo tra eredità culturale; e costruzione della storia futura. Per tutte queste ragioni, l’attenzione sul sistema generale dell’istruzione e della formazione è diventata importante per la politica ed è fondamentale che una coalizione che voglia governare abbia una ben precisa idea della scuola e del sistema formativo da voler realizzare, a partire dall’idea di società a cui fa riferimento. Perciò, è essenziale che la scuola occupi il primo posto nell’agenda politica di un Governo.
La nostra idea di scuola mette al centro la persona e lo sviluppo di tutte le sue potenzialità. La scuola esercita una funzione sociale e civile ineliminabile di formazione del cittadino, dove al centro sta lo studente con il suo diritto a diventare un cittadino consapevole e capace di orientarsi nella società compiendo delle scelte autonome, assicurandogli benessere e piena integrazione con i propri simili e dissimili. Dietro a ciò, vi è un’idea di società democratica ispirata ai valori di solidarietà, tolleranza e giustizia, che concepisce lo sviluppo non come mero processo economico, ma come aspirazione ad un benessere diffuso, condiviso ed equamente ripartito, che soddisfi tutti i bisogni della persona, materiali e spirituali. La scuola che noi pensiamo vuole prima educare lo studente alla cittadinanza ed alla convivenza e fornirgli – anche se è difficile stabilire un prima ed un poi – gli strumenti affinché sia in grado di esercitare pienamente i propri diritti, inserendosi attivamente nel tessuto socio-economico del proprio paese.
Siamo preoccupati non di ciò che è stato esposto dal ministro, ma di certe visioni emergenti, che esaltano una formazione individualistica e privatistica rivolta prevalentemente al mercato. Le indicazioni programmatiche del ministro ci hanno rassicurato in questo senso, perché la nostra è una visione della scuola, in cui il diritto al successo formativo per tutti è essenziale, in cui almeno sino a 18 anni vengano messe a disposizione opportunità formative, che allarghino (questo è importante e non l’abbiamo sentito dal ministro) la platea degli aventi diritto a quel sapere, che – come abbiamo già detto – è presupposto di sviluppo e di emancipazione di un popolo.
Abbiamo bisogno di un sistema formativo in cui al cittadino sia garantita la possibilità di completare ed aggiornare la propria formazione, quindi un sistema formativo che duri per tutta la vita. Non pretendiamo che la relazione sia esaustiva di tutti gli aspetti, ma vorrei richiamare l’attenzione del ministro su tale punto. Nelle sue dichiarazioni programmatiche, signor ministro, abbiamo riscontrato alcuni elementi di questo sentire, di cui ho parlato, ma soltanto parzialmente. Abbiamo, comunque, apprezzato il fatto che la sua relazione fosse assolutamente priva di polemiche con un sottofondo di carattere ideologico.
Lei però ha parlato di solidarietà, di eccellenza, di talenti, di qualità e di innovazione, parole chiare anche per noi; però, ribadisco, la solidarietà la vogliamo fortemente coniugata con l’eguaglianza dell’opportunità e crediamo che lei signor ministro abbia insistito troppo poco su tale questione. Noi abbiamo bisogno sia che si allarghi la platea degli aventi diritto al successo formativo sia che vi sia una sempre più alta qualità e un sempre più alto livello dell’istruzione. Sono convinta che lei vorrà tener conto di queste sollecitazioni ed integrare la sua relazione.
Lei non ha fatto riferimenti a concezioni mercantili della conoscenza della scuola – mi riferisco a quelle concezioni che avevano caratterizzato la campagna elettorale del centrodestra – e ciò, a dire la verità, ci ha un può sorpresi così come ci ha sorpreso una certa difformità di impianto tra la sua relazione e le indicazioni programmatiche del Presidente del Consiglio Berlusconi. Pertanto, siamo in attesa di sviluppi in tal senso.
Noi apprezziamo queste differenze, dobbiamo però dire che valuteremo i fatti, gli atti politici concreti, che lei in prima persona promuoverà e assumerà e quelli che collegialmente il Governo assumerà o sta già assumendo e che hanno attinenza con la scuola. Se questo è un Governo che intende agire collegialmente, noi crediamo che non sia possibile che il ministro Maroni si adoperi affinché si intraprenda la strada del buono salute senza che nella scuola ci si avvii a generalizzare il buono scuola cosiddetto «alla Formigoni» che un suo atto amministrativo, signor ministro ha già legittimato; mi riferisco al ricorso al Consiglio di Stato presentato dal precedente Governo e da lei ritirato. Noi ci siamo chiesti quali siano le ragioni per le quali lei di buono scuola non ha parlato nella sua relazione, considerato che è di estrema attualità nel complessivo agire del Governo di centrodestra. Qual è allora la modalità attraverso la quale – se non si parla di buono scuola – si vorrà garantire alle famiglie quel maggiore esercizio di libertà che fino ad ora è stato mortificato? Questa parte del suo intervento avrebbe meritato, signor ministro, un approfondimento.
Signor ministro, lei ha poi espresso un’idea che condividiamo: la scuola non appartiene nè allo Stato, né alle regioni ma al paese. Nella legge sul federalismo, approvata dal Governo di centrosinistra, che sarà sottoposta a referendum confermativo, le istituzioni sono considerate soggetto autonomo. Lei però non ha evidenziato nella sua relazione quale rapporto abbia la sua idea di scuola nel contesto della legge costituzionale sul federalismo, e nemmeno in che rapporto la sua idea di scuola si ponga nel contesto del progetto di devolution di cui si discute in questi giorni. Dove sta la vostra idea di scuola? Delle due l’una: o sta nel contesto della legge sul federalismo, o nel progetto di devolution. Noi riteniamo che non si possa stare con l’uno o con l’altro progetto; lei, signor ministro, deve dirci dove si colloca il suo progetto.
Come hanno già evidenziato i colleghi intervenuti prima di me, noi, in relazione a tali questioni, abbiamo già dei riferimenti certi nella legge sul federalismo e nella legge n.59 del 1997. Tali riferimenti ci garantiscono un equilibrio tra il rispetto delle identità e della cultura nazionale e la valorizzazione delle realtà territoriali. Noi faremo sentire la forza dell’opposizione nei confronti della scuola della devolution, che divide la scuola per regioni creando disparità di condizioni benché la scuola sia chiamata a promuovere uguaglianze di opportunità e di giustizia.
Signor ministro, il suo piano programmatico parte da presupposti ed esplicita finalità ed obiettivi che anche noi condividiamo, perché sono stati nostri per cinque anni; imboccare la strada dell’innovazione non è una novità ma è stata una necessità che ha fortemente caratterizzato la spinta alle riforme del Governo di centrosinistra. L’importante non è enunciare la necessità dell’innovazione ma reperire le risorse e i mezzi per realizzarla come lei giustamente ha affermato. Tuttavia, proprio sulle risorse e sui mezzi vorrei qualche precisazione: il DPEF contempla ad ampio raggio tutte le questioni però senza quantificarle. Gradirei che lei ministro aggiungesse qualcosa, quantomeno sulle priorità rispetto a quegli impegni che ha assunto nella sua relazione.
Inoltre, perché lei signor ministro, che sostiene in una parte della sua relazione che risulta essere importante la rapidità delle decisioni e condivide le finalità dell’operato del Governo di centrosinistra, anche se non ne ha condiviso le modalità operative, assume poi una posizione che, anziché proseguire con una certa rapidità lungo la strada dei processi di innovazione già messi in atto, adotta una strategia che io non esito a definire un po’ attendista. Vi è bisogno di attendere un anno per riflettere sul riordino dei cicli? Molte consultazioni sono state già fatte e di esse si ha testimonianza non solo nel lavoro parlamentare ma anche nel collegamento in rete con le scuole da parte del ministero. Ritengo legittimo un contatto diretto da parte del nuovo ministro con la realtà scolastica, ma credo che esso non debba essere prolungato al di là di qualche mese. Bisogna anche capire quale sia la ratio della presunta – io la definisco – «ansia del nuovo» che ha caratterizzato l’atteggiamento di molti docenti. Ci chiediamo inoltre, se vi fosse proprio bisogno di sospendere alcuni processi di innovazione legati ai cicli ma facilmente estrapolabili: mi riferisco in particolare alle trentadue ore, alla formazione universitaria dei docenti, alla sperimentazione della scuola dell’infanzia, che peraltro lei ha ritirato anche sulla spinta di alcune osservazioni dell’opposizione.
Mi chiedo anche perché non consentire di assumere, in prima e in seconda elementare, quei curricula, nei quali molti insegnanti già si riconoscono anche se, più che di curricula bisognerebbe parlare di indicazioni curriculari; queste ultime hanno quelle caratteristiche di essenzialità – di cui lei ha parlato – che consentono che le scuole siano davvero autonome per costruire percorsi educativi in piena libertà e con la piena possibilità di valorizzazione anche delle culture locali. Su tale aspetto vorrei da lei, signor ministro, una risposta nel merito in quanto non mi è chiaro perché non si sia voluto tener conto di alcuni elementi sui quali è possibile una convergenza tra l’impostazione, peraltro graduale, di attuazione della riforma dei cicli e una nuova impostazione. Non mettiamo assolutamente in discussione la legittimità di rivedere il percorso di innovazione innescato dal precedente Governo, però, non siamo d’accordo su una brusca interruzione, senza possibilità di confrontarsi sulla base di un vero e proprio piano effettivo. Perciò, vorremmo sapere di più; i nodi che lei individua come nodi da sciogliere, non ci spiegano la sua strategia; vi è inoltre una lettura che definirei «tra le righe» la quale, a mio parere, è molto pericolosa e inquietante. Di conseguenza, la invito ad una maggiore chiarezza su questa materia.
In tema di scuola dell’infanzia, apprezziamo la valutazione secondo cui tale scuola debba essere unitaria, ma non riusciamo a capire come la valorizzazione della scuola dell’infanzia unitaria e la sua costituzione in un triennio – come credito per costituire un eventuale anno di obbligo scolastico – si raccordi con un nuovo progetto della scuola dell’obbligo.
Che cosa significa poi che i curricula della scuola secondaria debbano prevedere specializzazioni? Significa che si mantiene la situazione attuale di una moltitudine di indirizzi anche negli istituti tecnici e professionali? Noi non capiamo dove si voglia arrivare. Le sollecitazioni che peraltro arrivano dal mondo del lavoro vanno in senso opposto a quello delle specializzazioni; vanno nel senso di far acquisire forti competenze trasversali, una forte cultura di base e quindi capacità di trasferire culture, capacità di innescare culture della specializzazione su forti competenze di base. Le chiedo: quale è l’impianto per la nuova architettura della scuola? Ancora: quale è l’obbligo formativo, e quale la sua durata? Perché non si è fatto alcun riferimento alle norme vigenti sull’obbligo formativo a 18 anni? Eppure, esso è stato un primo consistente risultato molto apprezzato dall’OCSE che ci ha fortemente avvicinato agli standard europei. Spero che su tutto questo vi sia in futuro un vero confronto.
Noi non vogliamo farle dire cose che non ha detto, ma ci opporremo a qualsiasi percorso parallelo a quello scolastico che preveda una canalizzazione precoce. Non siamo contro la valorizzazione della formazione professionale e la riqualificazione della stessa, anzi sono anni che ribadiamo questa necessità, però, se tale ipotesi ci conduce su una strada che prevede una canalizzazione precoce – scelte precoci a 14 anni – non possiamo essere d’accordo. A 14 anni, come evidenziava la collega Alba Sasso, non è ancora completa la formazione culturale di base.
Riguardo ai docenti, non possiamo condividere la sua visione un po’ catastrofica dello stato in cui verserebbe la docenza; piuttosto, crediamo – lo evidenziava molto bene la collega Alba Sasso, profonda conoscitrice del mondo e della sensibilità degli insegnanti – che molto sia cambiato nelle scuole, anche in ordine alla valorizzazione della maggiore quantità e qualità di certa attività svolta dal corpo docente.
Signor ministro, noi apprezziamo il suo forte «no» alla caratterizzazione di tipo impiegatizio assunta, in una certa fase (sostanzialmente, in questi ultimi anni), dalla funzione docente: ciò forse si può ricondurre all’eccessiva attenzione portata dal mondo della scuola alla normativa secondaria rispetto alla normativa primaria, il che ha costituito un vero e proprio dramma per la scuola.
Quindi, anche noi vogliamo valorizzare la professionalità del docente caratterizzandolo come un professionista; ci rendiamo conto, però, che si tratta di un professionista particolare, speciale, non assimilabile, quindi, ad altre categorie professionali; invero, è un professionista rispetto al quale è anche complicata e difficile l’identificazione di un codice deontologico. Raggiungere un siffatto obiettivo, peraltro, non è impossibile; personalmente, anzi, apprezzo il tentativo in atto ma devo anche dire che si rischia, in tal modo, di compiere pericolosi percorsi di identificazione stretta tra professionisti quali medici, ingegneri, avvocati ed il docente: una tale assimilazione tra simili categorie sarebbe sbagliata.
Esprimo, dunque, un forte «sì» alla volontà di svincolare dalle maglie della burocrazia il lavoro dell’insegnante; però, esprimo anche un forte «no» all’idea che da ciò si possa ritenere che, allora, il rapporto di insegnamento-apprendimento si esaurisca nel solo rapporto intercorrente in classe tra docente e studente. Questa è una tentazione, nella quale, qualche volta, i docenti cadono e rispetto alla quale dobbiamo essere particolarmente vigili. Altro è, infatti, sburocratizzare il loro lavoro; altro è tornare al passato quando un buon insegnante era chi, semplicemente, sapeva soltanto far bene lezione ed avere un rapporto corretto con i propri discenti. Infatti, molte delle attività che oggi i docenti lamentano come burocratiche, in realtà non lo sono, essendo, piuttosto, legate all’esigenza di una maggiore collegialità del lavoro scolastico: ebbene, l’impegno collegiale deve essere valorizzato e trovare una corrispondente rivalutazione economica.
Tra l’altro, noi pensiamo sia veramente giunto il momento di portare i livelli stipendiali nella media europea e, quindi, di operare una forte rivalutazione delle retribuzioni dei docenti e dei dirigenti scolastici; aggiungo, anzi, che vogliamo impegnare il ministro a percorrere questa strada.
Lei, signor ministro, ha poi insistito sulla formazione in servizio dei docenti, formazione in servizio che costituiva, peraltro, una parte fondamentale – lo ripeto e lo dico con orgoglio – del piano di attuazione della legge sul riordino dei cicli. Però, lei, signor ministro, non ci ha detto nulla circa la formazione iniziale dei docenti. Cosa intendeva quando – cito dal suo intervento – ha detto: «…prevedere linee di formazione iniziale degli insegnanti in relazione ai cicli scolastici». Questa sua asserzione, unitamente al ritiro del provvedimento sulla nuova formazione universitaria degli insegnanti della scuola di base, mi fa pensare ad un percorso formativo che distingue ancora tra maestri e professori. Spero non sia così ma glielo domando.
Desidero, poi, manifestarle la mia approvazione per l’insistenza con cui lei ha evidenziato la necessità di elaborare strumenti perché avanzi la cultura della valutazione, cultura che deve crescere nella nostra scuola unitamente alla cultura dei risultati. Dobbiamo, però, vigilare affinché crescano anche l’attenzione per la cultura dei processi che portano ai risultati. Ciò è fondamentale per la scuola.
Rispetto a dette questioni, ritengo sia particolarmente difficile che enti autonomi, totalmente esterni alla scuola, possano cimentarsi in una valutazione del sistema scuola senza correre grossi rischi di assimilazione ad altri sistemi, magari aziendalistici. Apprezzo il coraggio avuto dal ministro, in occasione di interventi pubblici, quando ha parlato esplicitamente di valutazioni del lavoro dei docenti: si tratta, infatti, di un nervo assolutamente scoperto, che, qualche volta, può diventare una polveriera. Apprezzo tutto ciò; invito, però, il signor ministro ad avere molta prudenza su tale questione perché noi veniamo da anni di scarsa penetrazione nella nostra scuola di una cultura corretta della valutazione e, tuttavia, viviamo anche momenti in cui vi sono fughe in avanti e assimilazioni a modelli di carattere aziendalistico che la scuola italiana rifugge e dai quali anche altri sistemi – da noi ritenuti più avanzati (ma bisogna poi vedere se lo sono veramente) – hanno fatto marcia indietro.
ALESSIO BUTTI. Signor ministro, augurandole buon giorno, le confido di aver preso qualche appunto per essere più sintetico; tuttavia, proprio per questo, il mio sarà, forse, un intervento un po’ disordinato. Infatti, molte sono le considerazioni affastellate, leggendo attentamente le agenzie che fanno riferimento alle sue dichiarazioni di ieri; ascoltandola, quindi, con molto piacere; leggendo, infine, stamattina, qualche quotidiano. Inoltre, proprio adesso, la durata dell’intervento della collega che mi ha preceduto, un’ora ed un quarto, ha offerto certamente stimoli e spunti per un dibattito senz’altro interessante.
Lei avrà tratto certamente qualche spunto utile dal dibattito; io, onestamente, sotto il profilo politico, ne esco un po’ confuso (ne discutevo prima con qualche collega). Sono alquanto confuso perché, in effetti, qualche intervento, pure molto attento e profondo circa la materia, non si è proprio attenuto alla sua relazione. Vi è stato, forse, per certi versi, il dovere di difendere l’operato del quinquennio trascorso; ora, però, bisogna rendersi conto che il quinquennio è trascorso ed il Governo è cambiato. Bisogna anche capire che, se alcuni spunti, emersi in questa occasione soprattutto negli interventi dei colleghi della minoranza, fossero emersi già nella precedente legislatura, forse oggi non avremmo – e lei non avrebbe ereditato – il Ministero della pubblica istruzione in queste condizioni. Non entro in questioni tecniche; non lo faccio, certamente perché, occupandomi generalmente di altro, non sarei in grado di intervenire nel modo in cui, ad esempio, è intervenuta la collega Capitelli – cito lei perché è stata l’ultima ad intervenire – ma anche perché sulle questioni tecniche la Commissione sarà, poi, chiamata a lavorare nel prosieguo della legislatura. Allora, voglio svolgere qualche riflessione di carattere più prettamente politico, partendo da un punto certo, signor ministro: la soddisfazione, mia e del mio gruppo, derivante dalla chiarezza e dalla compiutezza del suo intervento di ieri. Mi congratulo per l’analisi della situazione da lei fatta, un’analisi che conforta e conferisce un significato particolare alla battaglia che l’allora minoranza, oggi maggioranza di governo, ha condotto in questa stessa Commissione. Ricordo battaglie epiche dell’attuale sottosegretario onorevole Aprea e del mio allora capogruppo Napoli.
Ci sono piaciuti, signor ministro, i suoi propositi, l’impostazione del lavoro che lei ha inteso offrire alla Commissione e le linee programmatiche che, a giudicare dai prodromi, rispecchiano fedelmente – come spiegherò brevemente nel mio intervento – le linee programmatiche per le quali ci siamo battuti in campagna elettorale. Il programma, del resto, può essere letto da chiunque; analogamente, mi auguro, il suo intervento: non vi sono discrasie.
Il suo, signor ministro, è un ministero difficile, vecchio, affetto da elefantiasi: faccio riferimento ai 118 uffici direzionali da lei menzionati ed alla burocrazia soffocante non solo per gli studenti ma anche per i docenti e le famiglie. Auspico, al riguardo, un proficuo lavoro per il tavolo della semplificazione da lei ideato, un’iniziativa veramente determinante.
Il suo è un apparato che si deve costantemente misurare con il mondo della scuola, già di per sé molto complesso ma in continua evoluzione, perché è in continuo svolgimento la materia prima, l’elemento più importante, la conoscenza, definita da qualcuno la ricchezza autentica dei nostri giovani, secondo un’opinione da me condivisa. Si tratta, quindi, di guidare un ministero certamente difficile, artritico e però determinante: infatti, sebbene ora non sia più così, lei sa, signor ministro, che, per 45 anni circa, la democrazia cristiana, prima del suo crollo, su due ministeri non transigeva nelle «trattative»: il primo era il Ministero dell’interno, quasi a rivendicare un controllo totale sul paese; il secondo era il Ministero della pubblica istruzione, quasi volesse garantirsi un totale controllo sull’ educazione e sull’istruzione delle giovani generazioni, quasi, cioè, volesse crescerle a propria immagine e somiglianza. Il suo è, decisamente, un ministero chiave.
A noi è piaciuto moltissimo anche il binomio rassicurante che lei ha voluto utilizzare: solidarietà ed eccellenza, binomio poi largamente ripreso da tutti gli organi di stampa. È rassicurante e infonde anche fiducia, perché solidarietà ed eccellenza significano certamente prendere per mano i meno fortunati e portarli al limite delle loro possibilità; ma significano anche consentire ai più dotati di sprigionare le loro potenzialità e far fruttare i propri talenti. Si cancella così quanto era sembrato una caratteristica della precedente legislatura per quanto riguarda il Ministero della pubblica istruzione e cioè un livellamento verso il basso che ci aveva alquanto preoccupati. Quindi, noi apprezziamo il fatto, da lei più volte rimarcato, della necessità di partire da uguali basi (quindi, basi di partenza uguali per tutti). Lei ha parlato di opportunità di accesso allo studio – giustissimo – e però ha aggiunto: «e per il successo nello studio». Ciò ci rassicura perché palesa la volontà di non appiattire le aspirazioni, le capacità e i talenti dei più bravi. Noi, da tempo, non sentivamo in questa Commissione, da parte di rappresentanti del Governo, sostenere, con autentica convinzione, i principi e i concetti da lei sviluppati in relazione al talento, al merito, alla meritocrazia, alla selezione (selezione che, anche nel mondo della scuola, deve necessariamente esistere). Si tratta di concetti che lei ha saputo sapientemente sviluppare con l’equilibrio e la sobrietà: l’equilibrio, perché lei stessa ha più volte ricordato che questi valori certamente vanno di pari passo con la giustizia sociale, l’equità e la solidarietà. Però, gli studenti, i docenti hanno certamente una serie di diritti ma hanno anche qualche dovere. Io mi ricollego allora a quanto detto, nel suo puntuale intervento, anche dal capogruppo di Forza Italia e vorrei, per inciso, cercare di riattribuire, per esempio, alle sanzioni il giusto significato pedagogico ed educativo che hanno sempre avuto nel mondo della scuola. Spererei anche nella rivalutazione del termine, forse fuori moda – ma posso assicurarvi che non intendo attribuirgli un significato retorico -, di «disciplina», di «rispetto» verso i docenti, verso chi insegna, verso le strutture e quant’altro.
Come non condividere, signor ministro, i suoi pensieri, dedicati alla libertà, se noi stessi ci chiamiamo Casa delle libertà: non di una, ma di tutte le libertà, per cui, si immagini, con noi lei «sfonda una porta aperta», soprattutto per quanto riguarda la libertà nella scelta educativa delle famiglie, la libertà, per i docenti, nei metodi di insegnamento ed una certa libertà – questo è uno spunto interessantissimo che lei ha voluto dare – nella scelta dei programmi. Lei, infatti, ha parlato di programmi suddivisi su tre livelli: a livello nazionale, a livello regionale e ad un livello nel quale si arriva addirittura a programmi istituto per istituto, soprattutto laddove vi siano scuole con specificità evidenti sul territorio.
Sottolineo che da questo punto di vista vi è una convinzione unanimemente condivisa dalla Casa delle Libertà; ed allora sono fuori gioco le provocazioni di chi cerca garanzie su presunte spinte della Lega sulla devoluzione. Prima ho detto che lei ha svolto un intervento che rispecchia fedelmente il programma sottoscritto anche dai colleghi della Lega, prima della campagna elettorale. I tre livelli saranno certamente integrati tra loro e valorizzeranno le realtà locali, siciliane, lombarde, emiliane, in un quadro nazionale ben definito.
Apprezzo la sua chiarezza sull’educazione e sull’istruzione per le competenze spettanti allo Stato, che non può essere l’unico promotore del valore del capitale umano; ma aggiungo che non può essere nemmeno il solo a valorizzare la cultura e l’informazione.
Esaminato il ruolo dello Stato, mi soffermerò su quello della famiglia, che è ancora il nucleo fondamentale per l’educazione e lo sviluppo dell’essere umano. Se però dobbiamo formare il futuro della nazione – lo dico senza retorica – e non solo per l’aspetto nozionistico, ma anche per quello culturale ed umano, ci vuole un corpo docente che sia capace, aggiornato, ed incentivato economicamente (con attenzione comunque, perché la scuola non è un’industria). E purtroppo oggi queste condizioni non ci sono.
La sua relazione, così garbata, come gli stessi colleghi dell’opposizione hanno riconosciuto, è stata però impietosa, attraverso una puntuale descrizione delle carenze del nostro sistema scolastico: dai bassi investimenti sulla professionalità del corpo docente – a fronte di spese correnti elevatissime – alla mancanza di raccordo tra il mondo della scuola e quello del lavoro; dalla insufficiente competitività del nostro sistema rispetto a quello degli altri paesi europei, all’appiattimento economico dei nostri docenti e del restante personale della scuola; dall’elevata mortalità scolastica – essendovi una elevata sproporzione tra il numero di coloro che si iscrivono all’università e quello di coloro che concludono gli studi – all’eccessivo peso burocratico e alle carenze strutturali.
Lei però ha anche indicato qualche rimedio, e come gruppo di Alleanza nazionale siamo disponibilissimi ad esaminare questi rimedi in Commissione, con i gruppi di minoranza che si renderanno disponibili. Ho apprezzato infatti l’intervento e la disponibilità del collega Gambale, ed anche il concetto della collega Capitelli sulla persona al centro di tutto. Essere disposti a lavorare attorno allo stesso tavolo credo sia un dovere; sono per la politica della massima convergenza con le dovute e ovvie mediazioni. Ma attenzione: sui valori non ci siamo, abbiamo posizioni diverse, nonostante il tentativo di qualche componente dell’opposizione di rimescolare le acque.
Al collega Gambale, che ieri con una nota di ironia ha parlato di qualche chiacchiera anticipata ai giornali, confermo io stesso che noi vogliamo la riforma della scuola, ma deve essere organica e globale; né dirigistica e verticistica, né compiuta a colpi di circolare, come è avvenuto in precedenza. Vogliamo una riforma che coinvolga tutti gli attori protagonisti, insieme naturalmente al Parlamento, evitando quei «salti dell’aula» che sono stati compiuti durante la precedente legislatura, come è stato riconosciuto anche da alcuni colleghi della minoranza. Quindi, nessun blocco…
GIOVANNA GRIGNAFFINI. Abbiamo discusso per mesi, anni.
ALESSIO BUTTI. No, non è vero. Rileggendo i resoconti stenografici, noterà che abbiamo parlato un po’ di riforma dei cicli scolastici, di qualche provvedimento ad hoc, ma che l’impianto della riforma è stata fatta nella segreteria del ministro, probabilmente. Nessun blocco quindi, ma solo la volontà di riavviare la riforma, di perfezionarla, di correggerla, e di coinvolgere le parti attive, per cui è importante la convocazione degli stati generali per lavorare sul prodotto del gruppo di lavoro da lei costituito. È comunque importante coinvolgere gli studenti, perché i primi a ribellarsi contro l’impianto dirigistico della riforma furono proprio loro sotto la sigla dell’UDS, scendendo in piazza per criticare aspramente il ministro.
Due parole rapide sul DPEF. Il messaggio politico è chiarissimo: leggendo tra le righe emerge infatti con chiarezza l’investimento per la ricerca, nella formazione, nella valorizzazione del corpo docente e nell’aumento della scolarizzazione.
Si tratta di una sfida difficile, ma abbiamo già fatto un passo avanti, ministro. Non si tratta infatti di un’avventura, come è avvenuto nel passato, ma di una sfida ed io appartengo ad una forza politica che ne subisce il fascino.
PRESIDENTE. Considerato l’imminente inizio in Assemblea della discussione sulle linee generali del decreto-legge sui lavoratori precari della scuola, sospendo la seduta, che riprenderà alle 12.
La seduta, sospesa alle 10.55, è ripresa alle 12.10.
PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori.
Ho deciso di intervenire non tanto sul merito delle linee programmatiche quanto per segnalare un elemento politico. Tra l’importanza della relazione esposta dal ministro Moratti ed il contributo degli interventi finora svolti, si sta determinando un fatto piuttosto importante, che, personalmente, avrei a cuore se non fosse sottovalutato dalla Commissione. Il fatto importante è questo: voi sapete che nell’immaginazione mediatica – ed anche nelle prese di posizioni politiche – il tema della scuola è stato presentato come il possibile oggetto di un «autunno caldo», di una contrapposizione lacerante tra maggioranza ed opposizione, come il fronte dei fronti. Ciò corrisponde alla circostanza che nelle politiche governative di tutti i paesi occidentali, esiste un confine molto netto tra centrodestra e centrosinistra, però le politiche che realmente si svolgono su molti argomenti debbono obbedire anche a sistemi di compatibilità (pensiamo a quelli europei), che non permettono grandi differenze di posizione e valutazione. Invece, su scuola e sanità, che sono il cuore del welfare in crisi in Europa, si prevede il nascere ed il formarsi di contrapposizioni molto radicali; sono praticamente le uniche due questioni su cui si presuppone possa avvenire un contrasto aspro, ed è possibile che sia così. In Italia, si è immaginato che su questo terreno si aprisse un fronte di scontro.
La discussione che abbiamo svolto oggi – ripeto – grazie all’importanza della relazione del ministro ed ai contributi ed al tono, anche, degli interventi, sia della maggioranza, sia dell’opposizione, credo conceda un’opportunità alla politica del Parlamento ed a questa – sottolineo questa – Commissione. Sappiamo che spesso la politica smarrisce le opportunità che le sono di fronte e, quindi, non è escluso che anche questa venga smarrita. Suggerisco di fare di tutto, maggioranza ed opposizione, affinché quest’opportunità di arrivare ad un confronto anche conflittuale ed importante, ma non determinato da lacerazioni ideologiche e culturali (quindi ad un confronto sugli strumenti necessari per raggiungere obiettivi, che mi sembrano, avendo sentito il dibattito, possono essere considerati comuni), non sia tralasciata.
In fondo, abbiamo sempre detto che il tema delle regole era per definizione bipartisan, ma neanche in questo campo siamo riusciti a trovare un accordo, tanto che sono fallite diverse Commissioni bicamerali, l’ultima delle quali recentemente. Ma se vi è un tema che, oltre a quello delle regole del gioco, delle riforme istituzionali, è, effettivamente, un tema della Repubblica, che riguarda tutti (com’è stato detto dal ministro ed in tutti gli altri interventi), l’essenza della Repubblica, del suo futuro, della sua composizione in famiglia, in comunità, in corpi intermedi, questo è la scuola e sarebbe sciocco considerare la scuola meno importante delle riforme istituzionali. Ciò richiede una grande capacità di confronto. Abbiamo cinque anni dinanzi a noi, come un corso di scuola secondaria; siamo quasi al primo giorno di scuola ed è chiaro che se vogliamo poi raggiungere la maturità, abbiamo cinque anni davanti.
Il mio invito è di considerare il percorso in questa maniera, come è stato detto da alcuni membri della maggioranza (il collega Butti lo ha detto nella maniera più sincera e vera chiedendo se doveva o meno essere confuso su alcuni elementi che sembrano comuni a maggioranza ed opposizione), mentre altri hanno dichiarato che il momento dello scontro sarebbe arrivato. Non illudiamoci. È probabile che sia così; ma non è questo il problema, bensì la mentalità che dobbiamo avere: se vogliamo evitare lo scontro oppure accelerarlo od ancora limitarlo. Anche negli interventi dell’opposizione – come ad esempio in quello dell’onorevole Grignaffini – ho sentito chiedere, quasi con incredulità, dove fosse la distinzione. Certo è possibile che essa vi sia e nel confronto, molto probabilmente, la troveremo; ma anche in questo caso bisogna vedere se si ha l’ansia di trovarla o la volontà – come molti interventi peraltro hanno sostenuto – di raggiungere elementi di condivisione. Da questo punto di vista, anche il fatto di dire che su alcuni elementi di indirizzo i governi del centrosinistra hanno cominciato l’opera, può aprire una discussione accademica. Ho qualche obiezione su questo tipo di ragionamento, ma non mi sembra, comunque, una questione decisiva; si potrebbe anche rispondere affermativamente – il centrosinistra ha cominciato un’opera -, ma il problema è come continuarla e completarla e se è vero che alcuni dei valori dentro quest’opera sono presenti nella relazione del ministro Moratti e nei documenti programmatici della Casa delle libertà. Le discussioni sul merito, sulla primogenitura, possono essere fatte, ma non sono poi così decisive rispetto al fatto che noi stiamo iniziando una nuova legislatura e non ci spetta tanto dire cosa pensiamo della legislatura precedente (questo era un compito della campagna elettorale), quanto dove vogliamo condurre il paese in questi cinque anni.
Si può partire da un elemento di condivisione: l’allarme. Se è vero che il centrosinistra ha immaginato una grande riforma della scuola (secondo la maggioranza, non era così grande, ma, comunque nelle intenzioni di chi la proponeva lo era ed erano buone intenzioni; infatti, Berlinguer e De Mauro sono persone che amano la scuola e non avevano certo l’intenzione di distruggerla), è perché partiva dall’allarme. È stato evidenziato in maniera molto semplice – e credo condivisibilissima – dal ministro Moratti il fatto che si possa creare una forbice tra lo sviluppo culturale del mondo, la cui competizione sarà sempre più basata sul possesso del sapere e della cultura, e gli strumenti che l’Italia si dà per partecipare a questa competizione umana non economica, ma sociale e culturale, di traguardi di benessere. Aggiungo un’altra questione: nel mondo del futuro, della globalizzazione, sarà ancora la scuola la sede della trasmissione del sapere? Perché, se noi guardiamo effettivamente ai diversi gradi di apprendimento che i nostri ragazzi hanno, da Internet alla televisione al tempo che passano nello studio ed al grado di ambientazione oltre la scuola – lo vediamo ogni giorno con i nostri occhi di genitori -, dobbiamo porre a noi stessi questa domanda. Rischiamo di dividerci, ad esempio, tra statalisti ed antistatalisti, senza accorgerci che anche chi pensa che lo Stato debba essere l’unico soggetto a detenere il monopolio dell’educazione della formazione rischia di non raggiungere l’obiettivo, non perché vi sono le scuole private, ma perché la scuola fa fatica a trasmettere valori che abbiano il dono di unificare le generazioni intorno all’identità di un paese.
Questo è un punto molto importante, perché corrisponde ad un fatto obiettivo: non è né del centrodestra né del centrosinistra. Il fatto obiettivo – detto in due parole – è questo: la rivoluzione degli anni ’60 ha creato un’alfabetizzazione nuova, rivolgendosi a ceti sociali che prima non potevano averla. I figli dei contadini e degli operai potevano diventare dottori (allora si diceva in questo modo), quindi, per utilizzare un’espressione che ho sentito usare dall’onorevole Sasso e dall’onorevole Capitelli, si è allargata la platea degli aventi diritto. È stata una grande rivoluzione. Trent’anni sono un ciclo generazionale compiuto. La domanda che ci dobbiamo porre è se la scuola italiana sia ancora in grado di corrispondere all’esigenza di dare contenuti a questa grande platea o se, invece, stia diventando un contenitore non più capace di rispondere alle domande che nascono dai cittadini, dalle famiglie e dagli studenti. Questo non certo per cattiveria di chi ha governato il paese, ma perché, se aumentano la complessità di una società, anche solo il numero demografico dei suoi abitanti, gli stili di vita, le domande, le richieste, i desideri, le suggestioni, (il ministro diceva anche i sogni che ciascuno ripone sulla propria vita), le differenze culturali e regionali, è più difficile che una scuola possa farvi fronte. È evidente che non si può più agire solo aumentando le materie inserite nella scuola per rispondere alle sempre maggiori domande che provengono dalla società, ma bisogna seguire una logica diversa, cioè quella di un aumento della pluralità dell’offerta e degli strumenti attraverso cui questa pluralità possa raggiungere strati sociali che hanno domande differenziate.
Voglio ricordare una frase della relazione del ministro, che in sintesi sottolinea quello che ho cercato di dire adesso: si sta creando una grande contraddizione tra gli sforzi sostenuti dalla scuola, dagli insegnanti, dai ministri per adeguarsi a questa situazione ed il risultato prodotto. Non vi è paragone tra la fatica del mondo della scuola ed il risultato che ne fuoriesce. Dov’è il problema? Questa è la domanda che un paese serio dovrebbe porsi. Dove bisogna intervenire per adeguare lo sforzo al risultato od almeno per avvicinarlo, se non per renderlo equilibrato? Per raggiungere questo scopo, non si può privatizzare o smantellare la scuola statale, perché non lo si raggiunge – non per una questione ideologica -, ma non si può neanche rimanere nella situazione in cui siamo. Non si può privatizzare; tengo a dirlo proprio per le polemiche che sono avvenute, che Cofferati ha voluto immediatamente fare, totalmente immotivate. Il ministro lo ha già detto, non c’è bisogno che lo ripeta, ma voglio soltanto sottolinearlo come dato politico: non vi è alcuna intenzione di smantellare la scuola statale.
Il pericolo che si vede è un altro: se non si interviene in modo radicale, può aumentare la decadenza che – lo sappiamo tutti – esiste e creare alla fine (magari non domani, ma fra dieci o 15 anni) un movimento centrifugo, fuori dalla scuola, oltre la scuola. Se la politica non interviene, la società fa da sé: questa è la storia dei paesi occidentali. Il rischio è quello di perdere il controllo pubblico, la valutazione e la formazione pubblica dei nostri ragazzi, perché, inevitabilmente, crescendo le domande ed i bisogni, questi cercheranno soddisfazione altrove. La funzione unificatrice dello Stato non è messa in discussione dalle riforme, ma dalla loro assenza. Non so se ciò può aiutare a capire dove sta la confusione, ma il nostro punto di vista – credo di poterlo dire con molta serietà – è salvare la possibilità di un’istruzione pubblica, dignitosa e degna dei livelli di modernità dell’occidente; salvare un’ipotesi di controllo, valutazione e formazione pubblica dello spirito pubblico, offerto dalle nostre scuole; non il contrario. Pubblica non vuol dire statale. Per far ciò noi pensiamo che, lontano dal privatizzare la scuola, bisogna inserire le scuole private nel sistema pubblico: il contrario di ciò che, all’inizio di questa legislatura, è stato rimproverato alla maggioranza.
Il che vuol dire che esiste un controllo pubblico nei sistemi di valutazione, negli standard educativi, nei programmi, nelle aree di formazione e nel modo di procedere agli esami, anche delle scuole private. In altri termini, bisogna utilizzare le energie che abbiamo a disposizione per realizzare un grande investimento sul sapere (come ha fatto Tony Blair in Inghilterra), e sono d’accordo con l’onorevole Capitelli quando sostiene che l’istruzione debba diventare una priorità nell’agenda del Governo; cioè, dobbiamo chiamare tutta la società ad investire sull’istruzione e aprire nuove scuole, in modo da mettere in concorrenza – mi riferisco alla concorrenza culturale -, in termini di offerte formative, gli istituti statali tra loro e con quelli non statali, tutti facenti parte di un unico sistema pubblico. Ciò costituisce, in estrema sintesi, la linea che può consentire di realizzare un salto di qualità, puntando sulle energie di tutti. Non possiamo finanziare una scuola privata e poi disinteressarci di quello che fa. Chiedo inoltre agli imprenditori, visto che spendono tanti soldi in altri settori – ad esempio nel calcio – di contribuire per l’istruzione del paese. Chiedo inoltre alle associazioni del volontariato, dei genitori, degli studenti e delle famiglie, di sentirsi responsabili del mondo della scuola. Questo costituisce la centralità! Questo costituisce la scuola della società civile; tutto ciò non comporta uno smantellamento della scuola pubblica, ma un’estensione dell’offerta formativa a quella privata, controllata però dal sistema pubblico. Si interviene con criteri di equità, perché se i figli di chi ha più soldi possono scegliere scuole private o scuole di eccellenza, i figli di chi ha meno soldi se, la decadenza continua, saranno costretti a subire la decadenza. Il che vuol dire che se trovano un buon insegnante saranno fortunati, se al contrario ne trovano uno pessimo resteranno invece indietro. Ed è per questo che bisogna creare una situazione nella quale chiunque possa partecipare a tutti i tipi di scuola scegliendo l’offerta formativa che preferisce sulla base dei curricula che, il signor ministro, ha esplicitato nella sua relazione.
Il problema concerne il come, ed è il quesito che giustamente l’onorevole Grignaffini ha posto. Do anche una mia interpretazione – lasciando al ministro la possibilità di rispondere più approfonditamente – alla domanda posta dall’onorevole Capitelli sul perché non si fosse parlato nella relazione del ministro di buono-scuola. Secondo me il come è l’aspetto meno importante del problema; se fossimo d’accordo – e dagli interventi che vi sono stati credo che possa esistere un accordo sui valori – che l’obiettivo fosse quello di non smantellare la scuola pubblica, di non privatizzare nulla ma semmai di inserire le scuole private (che dovrebbero aumentare in un piano di controllo di valutazione) in un sistema pubblico integrato, allora il problema del come diventa meno importante. Nella linea che corre dalla parità, così come è stata proposta dal precedente Governo, al buono-scuola previsto dalla regione Lombardia, esiste un universo di sfumature; forse la verità sta in mezzo. Perché se si dà libertà di scelta alle famiglie, in ordine agli istituti, non la si può dare solo con riguardo agli istituti privati; in parole povere, l’ipotesi del buono-scuola non può valere per i cittadini che scelgono di frequentare gli istituti privati ma deve valere per tutti gli istituti, statali e non, in quanto si è inseriti in un unico sistema pubblico. Esiste anche lo strumento del credito d’imposta, o quello che attribuisce finanziamenti agli istituti in funzione del numero degli alunni; il come, ripeto, è meno importante. Pertanto, l’importante è stabilire se è vero che ci vuole un sistema pubblico integrato, in cui le famiglie possano scegliere a seconda del piano di offerta formativa, andando lungo la via dell’autonomia degli istituti avviata dal precedente Governo. Questo costituisce l’orizzonte, a mio parere, al quale, pur con i conflitti che potranno emergere, dobbiamo tendere. Quindi, è esattamente il contrario di quello che il segretario della CGIL – Cofferati – teme. Se questo è l’obiettivo, il discorso sugli strumenti può divenire secondario o riservato ad una seconda fase, perché il problema è se l’intera società sia d’accordo su ciò. È ovvio che, nel momento in cui questo accordo non ci fosse, il Governo e la maggioranza avrebbero comunque il dovere di tener fronte a questa che noi consideriamo un’analisi giusta, (mi riferisco al rischio della decadenza) e su tale aspetto noi sentiamo il dovere di intervenire. Si potrebbe anche sostenere però che ciò potrebbe condurre ad una lacerazione del paese o ad avere dei conflitti ideologici; in tal caso occorrerà agire limitatamente, sulla base di interventi correttivi, ed ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità.
Se è vero, come è vero, che condividiamo tutti l’analisi dell’allarme e della decadenza e che sentiamo la necessità di innalzare il livello qualitativo dell’istruzione, allora non vedo altro strumento per raggiungere questo scopo che quello di entrare in emulazione, in una gara sul sapere dove ciascun istituto nella sua autonomia è chiamato a dare la migliore offerta formativa, così come la società è chiamata a dare la migliore prova di sé stessa sul tema della scuola. Ripeto, in un sistema pubblico integrato che porti le scuole private nell’ambito di un controllo e di una valutazione del pubblico e non viceversa. Ciò non elimina affatto le distinzioni tra i valori e le politiche, anzi, li accomuna nel vedere dove esiste la distinzione. Su quanto detto, siamo o non siamo d’accordo? Se siamo d’accordo, ritengo che potremo aprire una stagione importante in modo da raggiungere, attraverso l’utilizzo degli strumenti migliori, un risultato che interessa l’intera nazione. Per quanto mi riguarda, e credo anche per la maggioranza, lavoreremo perché questo possa realizzarsi.
Si tratta di un problema che il ministro Moratti ha saputo inquadrare non solo come manager ma anche e soprattutto come madre e maestra, perché non bisogna dimenticare – come sostiene l’onorevole Berlinguer – che abbiamo a cuore la persona; ed io personalmente non vedo contraddizione fra persona e collettività: se una scuola, una società, punta alla valorizzazione della persona – come anche l’onorevole Berlinguer sostiene di credere – io non vedo allora alternative «non alla comunità» come lui sostiene – in quanto se si punta alla valorizzazione della persona si punta anche alla valorizzazione della comunità, perché la persona non vive che nella comunità.
ANDREA MARTELLA. Desidero anch’io, oltre che esprimere il mio apprezzamento al ministro per il tono che ha usato nell’illustrare le sue dichiarazioni programmatiche, augurarle buon lavoro.
Mi permetta però di dirle, contrariamente a quanto affermato dai colleghi del centrodestra, che non ho colto nella sua relazione una discontinuità vera o comunque esplicitata e neanche un particolare sforzo innovativo rispetto alle politiche e alle riforme messe in campo e realizzate dai Governi di centrosinistra. Il mio, signor ministro, non è un giudizio negativo, anzi interpreto questo suo approccio come un fatto positivo nell’interesse del paese e del mondo della scuola. Voglio però affermare che non ho rilevato nelle sue linee programmatiche una nuova ideazione strategica; anzi, dagli interventi e dalle dichiarazioni, fatte anche durante la campagna elettorale, mi pare oggi di poter dire che esiste una volontà politica del Governo o di una sua parte di cui si coglie il senso, ma alla prova dei fatti, e le sue dichiarazioni programmatiche lo dimostrano, emergono le difficoltà forse anche l’incapacità di costruire e di rendere concreto un progetto davvero alternativo a quanto si è realizzato nel corso di questi anni. Anch’io mi auguro che il progetto alternativo non sia quello di smantellare la scuola pubblica.
Signor ministro, noi siamo d’accordo quando lei sostiene di voler accrescere e di valorizzare il capitale umano del paese, il patrimonio culturale e scientifico, le competenze intellettuali e tecniche; siamo ancora d’accordo con lei quando sostiene che la nuova sfida alla quale siamo di fronte è quella della conoscenza e dei talenti. Però oggi è possibile affrontare questa nuova sfida perché nel corso degli anni precedenti se ne sono affrontate e se ne sono vinte delle altre. Si tratta, non tanto di rivendicare il lavoro svolto nel quinquennio precedente, ma di effettuare una valutazione politica, oggettiva, che ci porta a sostenere che il suo lavoro parte da una situazione in qualche modo positiva perché il nostro paese ha già recentemente recuperato un grave ritardo, rispetto agli altri paesi europei, sul terreno della formazione; ciò sulla base di interventi di riordino e di ammodernamento del sistema scolastico e di quello universitario, che sono stati progettati e realizzati, in parte, in questi anni dai Governi di centrosinistra. Questa rappresenta, a mio parere, una valutazione politica rispetto alla quale la sua relazione non costituisce una discontinuità esplicita.
Voglio soffermarmi, in particolare, sul tema dell’università, che rappresenta uno dei settori strategici per la crescita economica e sociale del paese.
Come ha già detto l’onorevole Grignaffini nel suo intervento, potremmo dedurre dalla sua relazione che lei è d’accordo con il complesso delle riforme realizzate nel settore. Personalmente, sono d’accordo con i tre obiettivi da lei indicati, rispetto ai quali dovrebbe orientarsi l’autonomia didattica delle università. Lei ha testualmente detto, signor ministro, che i tre obiettivi dichiarati da tempo (immagino che l’espressione «da tempo» si riferisca anche a quanti vi abbiano lavorato precedentemente) sono i seguenti: aumentare il numero di laureati, portandoli a livelli e standard europei; ridurre i tempi effettivi per il conseguimento dei titoli universitari; l’interazione dei corsi universitari con il mondo produttivo e del lavoro. In questo senso, credo che la riforma dell’autonomia universitaria abbia già messo e stia mettendo gli atenei in grado di rispondere in maniera più puntuale alle richieste degli studenti e alle esigenze della società. Ma, signor ministro, questo mi pare – visto che si tratta non di essere d’accordo sul tutto ma, piuttosto, di confrontarsi sulle politiche – il punto cruciale: lei deve dirci come pensate di realizzare questi tre obiettivi. Deve dirci, cioè, con quali scelte, con quali politiche, con quali interventi, con quali fondi si pensa di ottenere una reale integrazione tra università, territorio, mondo del lavoro, pubblico e privato e come si pensa di integrare nelle reti internazionali di formazione e ricerca l’università italiana, argomento, quest’ultimo, che lei ha già sottolineato.
Lei ha giustamente parlato della necessità di orientare e aumentare le risorse; anche a tale riguardo, noi aspettiamo di poterci misurare e confrontare con proposte concrete. Non vi è dubbio, infatti, che per rendere adeguata la spesa italiana per studente, per laureato vi è bisogno di un considerevole aumento delle risorse; analogamente, occorrono risorse finanziarie aggiuntive nei servizi reali, se è vero che, come lei ha detto, al centro della vostra azione di governo vi saranno gli studenti con i loro problemi, le loro aspettative, i loro bisogni. Sono quindi necessarie risorse aggiuntive, borse di studio – ma non solo -, risorse per mense, edilizia, residenze universitarie, biblioteche, servizi di orientamento e di rapporto con il mercato del lavoro. Anche in proposito, le sue dichiarazioni programmatiche devono portarci al punto di poter ragionare sul concreto raggiungimento di questi obiettivi.
Infine, quanto alla riforma universitaria, lei, al riguardo, ha pronunciato parole molto misurate: mi sembra che condivida l’idea che si tratti di una riforma necessaria per l’università italiana. Mi pare, infatti, che non abbia messo in discussione la scelta di fondo cioè che la riforma, se si è fedeli ai suoi obiettivi primari, può porre rimedio ai difetti ormai endemici dell’università italiana, anzitutto alla dispersione. Non mi pare sia in discussione il senso profondo del cambiamento già in atto che, se la riforma verrà attuata con intelligenza e con il senso di responsabilità che merita, riguarda – a me pare opportuno sottolinearlo – soprattutto gli studenti. Riguarda, infatti, la possibilità per gli studenti laureati di entrare nel mercato del lavoro in età competitiva con i colleghi europei; di entrarci preparati, quindi competitivi non solo anagraficamente ma anche sostanzialmente; riguarda, infine, la possibilità di continuare ad apprendere, per chi lo vorrà, partecipando a cicli di studio successivi, a lauree specialistiche, a master con la conseguente possibilità di maturare una formazione rispondente alle esigenze della società in continuo e rapido mutamento.
Certo, sussistono alcuni problemi aperti, sui quali credo potrebbe essere utile sentire alcuni suoi chiarimenti. Accenno solamente alle questioni principali: sicuramente lo stato giuridico dei docenti; il legame – che va migliorato – con il mondo delle professioni e delle imprese; il collegamento dell’innovazione universitaria con la riforma delle professioni e degli ordini professionali. Anche a tale riguardo, credo vi sia un banco di prova importante per il nuovo Governo ma, se le riforme verranno realizzate, lei, signor ministro, avrà la possibilità di trovarsi nella favorevole situazione di portare a compimento la realizzazione di una riforma di enorme portata ed anche, se necessario, di migliorarla utilizzando una grande mole di lavoro svolta in parte anche dai precedenti governi.
Concludo, auspicando che a questo primo incontro seguiranno altre occasioni per poterci confrontare concretamente su politiche e decisioni concrete. Credo che oggi non vi siano ancora gli elementi sufficienti per valutare la politica del Governo sui temi della scuola, dell’università e della ricerca. Quindi, a questo incontro dovranno seguire sicuramente altre occasioni e, naturalmente, noi vigileremo sul suo lavoro, nell’interesse della società italiana, degli studenti, delle giovani generazioni, ma vigileremo con quello spirito costruttivo teso a cercare una possibile intesa sui valori e sulle questioni di fondo, spirito richiamato anche dal presidente della Commissione nel suo intervento.
ANDREA GIORGIO FELICE MARIA ORSINI. Intervenendo alla fine di un dibattito, ovviamente molti argomenti sono stati sviscerati e ciò mi facilita nel tentare di essere breve trattando, solo con qualche flash, qualche aspetto, consapevole che la vastità del problema richiederebbe, naturalmente, discussioni molto più articolate ed approfondite. D’altronde, abbiamo cinque anni di lavoro comune per poterle, in futuro, affrontare. Credo, signor ministro, che il generale apprezzamento riscosso dalla sua relazione nasca non soltanto dalla stima personale di cui lei gode in tutti gli ambienti – in questo senz’altro ella è molto bipartisan – ma anche dai tratti di realismo, di concretezza, di astensione da qualsiasi demagogia da lei impressi a questi suoi iniziali contatti con il Parlamento avuti nell’assolvimento del suo incarico di governo. Questo atteggiamento, d’altra parte, a mio avviso, corrisponde pienamente alla linea di comportamento che lei e l’intero Governo Berlusconi vi siete proposti di seguire nella vostra azione di governo. Invero, l’attività del Governo – esattamente in piena coerenza (su ciò devo contraddire qualche collega della minoranza) con l’impostazione seguita in campagna elettorale prima e, poi, nelle indicazioni programmatiche – sarà basata sulla concretezza, su un approccio fattivo, su un approccio, quindi, alle «cose». La politica del Governo si caratterizzerà per il rifiuto delle astrazioni ideologiche e per la capacità di svolgere quel lavoro concreto che significa anche continua verifica quotidiana. Saranno necessarie tutta l’onestà, la pazienza, l’attenzione indispensabili per realizzare progetti che scaturiranno da valori di riferimento per noi ben chiari, anche se, naturalmente, non totalmente condivisibili con le opposizioni. Diversamente, infatti, ovviamente, non avrebbero senso le distinzioni di schieramento, che invece sono chiare e nette.
Credo che la sua analisi, signor ministro, sia stata assolutamente impietosa ma anche assolutamente lucida e precisa nel descrivere le situazioni della scuola, dell’università e della ricerca in Italia, situazioni che abbiamo ereditato dal passato. È necessario superare con grande urgenza siffatte situazioni – lo ricordava giustamente, prima, l’onorevole Pacini – perché ogni giorno, ogni ora che trascorrono, sono un passo in avanti sulla strada della marginalizzazione da lei, ministro, indicata nella sua relazione: marginalizzazione dell’Italia, marginalizzazione del nostro sistema rispetto alle tendenze del mondo più sviluppato, alle tendenze dei paesi più competitivi. Giustamente, lei non ha imputato al Governo precedente questa crisi perché si tratta, naturalmente, di un problema molto più vasto. Sono, infatti, questioni annose, le cui responsabilità si sono sedimentate negli anni e nei decenni: sarebbe poco corretto, concettualmente, limitare il discorso alle responsabilità della maggioranza di governo degli ultimi cinque anni, alla quale pure, tuttavia, va attribuita una corresponsabilità: costoro, pur non essendo cioè gli unici responsabili della situazione, ne sono, però, in parte, corresponsabili.
Credo che la scuola italiana, pur soffrendo di numerosi problemi storici, ne presenti due particolarmente gravi: uno consiste nell’incapacità di coniugare le esigenze di egualitarismo, di equità e di solidarietà con le esigenze di qualificazione, di eccellenza e di selezione. Se la parità dei punti di partenza è una delle finalità istituzionali di un sistema scolastico – finalità ideale alla quale bisogna sempre tendere – la parità dei punti di arrivo non è un obiettivo altrettanto imprescindibile. Mi ha un po’ «colpito» l’onorevole Capitelli quando, in un passaggio del suo intervento, ha accennato al diritto al successo formativo, diritto che mi ricorda un po’ quello alla felicità attribuito dalla Costituzione americana ai cittadini. Sono enunciazioni, ovviamente, del tutto astratte: il diritto è non al successo; piuttosto, è alla possibilità – situazione lievemente diversa – di avere successo…
GIOVANNA GRIGNAFFINI. Non utilizzare un linguaggio da tecnico…
ANDREA GIORGIO FELICE MARIA ORSINI. …alla possibilità di avere successo… È una sfumatura la differenza, naturalmente. Ma, obiettivamente, nella storia della scuola e nel dibattito sulla scuola svoltosi anche nel mondo politico e sui mezzi di informazione, vi è stata più attenzione a tali problemi di equità che alle esigenze di una riqualificazione. Ma l’equità, senza riqualificazione, è una falsa equità perché non serve a niente, è orientata solo verso il basso, moltiplica e non elimina gli elementi di discriminazione: in tali casi, infatti, se la scuola non riesce ad essere in grado di realizzare i suoi obiettivi, la selezione si fa in altri modi, certamente più iniqui.
L’altro grande problema è dato dall’approccio burocratico, cui il ministro ha accennato parlando di scuola delle circolari, scuola della quale ci si è occupati in termini di grande burocrazia. Forse, del resto, il sistema dell’istruzione è la più grande burocrazia esistente in Italia; il ruolo degli insegnanti è stato per troppo tempo pensato in termini di una sorta di parcheggio occupazionale e non si è teso ad una valorizzazione delle professionalità o ad una qualificazione del corpo insegnante, non soltanto in termini di attitudine ma proprio in termini di ruolo. In altri tempi l’insegnante era, assieme al medico, al farmacista e al parroco, una delle autorità riconosciute socialmente ed era un punto di riferimento. Oggi l’insegnante troppo spesso è considerato un piccolo burocrate; diciamo che troppo spesso l’insegnamento è quasi un’attività residuale rispetto ad altri tipi di aspirazione non realizzate. Tutto ciò, naturalmente, non giova né all’insegnante né agli studenti né alla società nel suo insieme. Opportunamente, il ministro ha parlato non di una netta discontinuità rispetto al passato ma di un approccio basato sul realismo e sulla prudenza nell’attuazione delle misure intraprese. Quanto alla sospensione della riforma dei cicli, essa non è una cancellazione, un rovesciamento netto ma è proprio un approccio empirico di riflessione, di verifica, di approfondimento, nel tentativo di coinvolgere tutte le parti interessate, questi stati generali ai quali – ma, naturalmente, in questo caso, l’esito sarà completamente diverso – auguro miglior fortuna di altri stati generali che non giovarono a chi li convocò.
Lo stesso realismo, l’ho ritrovato nell’approccio alla riforma universitaria: anche in tal caso, mi rivolgo all’onorevole Bimbi che accennava prima all’inopportunità di una applicazione scaglionata nel tempo della riforma universitaria secondo le singole necessità. Al contrario, io, invece, credo che anche ciò sia un atto di realismo, di concretezza e di quella flessibilità opportuna che poi è un’applicazione dei principi di decentramento e di autonomia delle singole realtà universitarie. Come nelle singole realtà scolastiche sussistono esigenze diverse e particolari così vi sono esigenze diverse e particolari secondo il tipo di specializzazione delle diverse università. Credo che anche volere imporre in modo dogmatico un criterio generale ed astratto non sarebbe l’approccio migliore ed opportunamente il Governo, per bocca del ministro Moratti, evita di seguire questa strada. Decentramento non significa, naturalmente, che l’istruzione vada frammentata; non significa che il progetto di formazione sia da parcellizzare per città, per regioni. Chi ha fatto delle polemiche su questo argomento nella scorsa settimana, è ricorso ad una forzatura tendenzialmente sterile. Molti interventi – ricordo quello dell’onorevole Bianchi Clerici – dovrebbero avere rimosso ogni equivoco su questa materia.
L’autonomia gestionale degli istituti scolastici, aperta alle regioni, è una strada già avviata, e non vedo perché non si debba continuare. È un’applicazione del principio di sussidiarietà, e quindi di allargamento dei processi decisionali, che devono il più possibile essere avvicinati alle loro esigenze. In questo senso, la scelta del buono scuola, che ha fatto la regione Lombardia, è una applicazione corretta per questa realtà, sebbene esistano possibili soluzioni diverse per altre regioni. Non si possono impedire «centralisticamente» queste scelte, che rappresentano in realtà strade alternative per estendere il principio di parità scolastica e per favorire un sistema di istruzione pubblica in cui concorrano, in una reale parità di condizioni, la scuola di Stato e quella privata. D’altronde, la scuola di Stato non è un monopolio della cultura di sinistra o di quella statalista, essa nasce infatti con lo Stato liberale, che vuole farla funzionare, senza smantellarla a vantaggio di qualcun altro: ciò sarebbe in contraddizione con i nostri principi e con la nostra cultura.
Altra cosa è, invece, realizzare il massimo grado di autonomia della scuola e di pluralità delle offerte educative sia in ambito pubblico sia in ambito privato. Stesso discorso vale anche per l’autonomia dell’università, accentuando e recuperando la sua funzione critica, come luogo, non solo di formazione e professionalizzazione, ma anche di ricerca. Stamattina il collega Pacini ha parlato a lungo dei problemi della ricerca: ricordo che il coinvolgimento dei privati, sia a livello universitario sia ad altro tipo, è una opportunità da cogliere.
La discussione di oggi ha generato un clima positivo, di confronto nella diversità, con uno spirito comunque costruttivo. Se continueremo a lavorare così, non faremo il bene del Governo o della maggioranza, bensì del paese che siamo chiamati a rappresentare.
MARCO FILIPPESCHI. Da parte dell’opposizione non c’è stata difficoltà ad affermare che le linee programmatiche esposte dal ministro sulla ricerca scientifica e sull’università rappresentano una possibile traccia di lavoro per il completamento, almeno in parte, delle riforme avviate, anche se, tuttavia, esistono alcune ambiguità di fondo e alcuni nodi irrisolti, su cui abbiamo richiamato il ministro, e che sono stati già sottolineati dagli onorevoli Bimbi e Martella.
Gli ultimi cinque anni di Governo, come è stato detto, sono stati importanti: hanno lasciato il segno sia per la scuola, in generale, sia per l’università, in particolare. Sulla scuola, nonostante i primi atti che abbiamo considerato contraddittori e sbagliati, si stenta ad individuare un progetto alternativo, capace di tenere il confronto sociale con le competenze e con un mondo impressionato dallo sforzo di riforma avviato dal precedente Governo. Signor ministro, la verità è che lei non ha ereditato dalla vecchia opposizione un progetto alternativo. Per esempio, chiedo all’onorevole Butti quale sia il programma, non essendocene ancora uno compiuto, ma solo uno in divenire: è un punto di debolezza, che esalta la forza della proposta riformatrice costruita nella scorsa legislatura, ed è un dato di verità emerso da questa discussione.
In particolare, per l’università, le critiche alla riforma del «3 più 2», avevano motivazioni deboli: provenivano dalla destra politica ed intellettuale e da una parte limitata della destra accademica, che hanno trovato spazio sul Corriere della Sera e su Il Sole 24ORE. Cercavano di contrastare la riforma e proponevano valutazioni sul rischio di dequalificazione del primo livello di laurea, sul confronto internazionale – tema che non ha più tenuto banco dopo le decisioni assunte dalla Sorbona fino all’università di Bologna – sulla limitazione degli accessi, e sulla marginalizzazione delle attività di ricerca. Tali puntualizzazioni critiche sono state superate grazie allo sforzo compiuto negli atenei che, a tappe forzate hanno accolto la sfida della riforma, agli orientamenti degli organi di rappresentanza delle diverse componenti del mondo universitario e della Conferenza dei rettori delle università italiane.
Si deve allora promuovere una corsa in avanti che scongiuri un progressivo rallentamento della riforma. In un passaggio della sua relazione, ho rilevato il rischio di un effetto a catena regressivo sulle difficoltà oggettive organizzative e concettuali, che soprattutto gli atenei più deboli potrebbero scontare. Laddove è minore la cultura della riforma, va dato aiuto, senza scappatoie. Altrimenti, si porterebbe indietro un fronte di riforma che, se è vera la premessa sulla quale conveniamo, costituisce il segno del differenziale negativo da recuperare. È doveroso quindi recuperare i tempi per mettere il nostro paese al passo con gli altri più avanzati. Prendiamo atto perciò degli impegni che il ministro ha assunto a sostegno dei processi di riforma avviati, favorendo gli incrementi del fondo ordinario per l’università e della spesa pubblica in ricerca, per raggiungere in cinque anni l’allineamento con gli altri paesi europei nel rapporto con il PIL.
La parte discorsiva del DPEF, dedicata alla formazione e alla ricerca, appare però troppo fragile: non si capisce come le politiche fiscali annunciate dal Governo – dall’onorevole Berlusconi nel suo discorso di insediamento – e l’ingente impegno per l’ammodernamento infrastrutturale accelerato, in particolare su questo capitolo della spesa di investimento, consentano uno spazio certo per lo sviluppo dei presupposti formativi e di avanzamento tecnologico, e per un inevitabile processo di modernizzazione.
A nostro avviso emerge una contraddizione – almeno potenziale e di tipo politico – uno scarto visibile, tra innovazione e tradizione. Da settori estesi della maggioranza si guarda ad un ciclo della spesa pubblica di tipo tradizionale fatto di opere infrastrutturali ed edili, completamente diverso da quello che si discute in questa sede. Se poi si palesassero due politiche, esse sarebbero difficilmente compatibili finanziariamente.
Occorre dunque una grande chiarezza di indirizzi politici, altrimenti avremo a che fare con alcune contraddizioni di fondo. Cercheremo allora di metterci in sintonia con quella parte, degli operatori dell’alta formazione e della ricerca, più aperta all’innovazione, con quella più giovane e creativa che preme affinché si faccia un salto di qualità. Serve una politica che unifichi le risorse: quelle da investire, economiche, e quelle da formare, il capitale intellettuale. Negli ultimi cinque anni, ed anche recentemente, sono stati introdotti principi di valutazione, di selezione e di finanziamento dei progetti secondo criteri di qualità, evitando quelli «a pioggia». Ma attenzione: perché alcuni settori della maggioranza di centrodestra sono assai tradizionali su questi temi, e sono insediati laddove ci sono spazi di resistenza nel mondo della ricerca.
È stato fatto un notevole passo in avanti per la promozione della ricerca nelle imprese con il decreto legislativo n. 297 del 1999; anche se si coglie una responsabilità delle imprese per l’assenza di una accelerazione attenta alla ricerca, nonostante le dichiarazioni del presidente della Confindustria D’Amato, e senza per altro stare a nominare le piccole e le medie imprese, affette da nanismo su questi temi. Io provengo dalla Toscana, una regione con un forte tessuto di piccole e medie imprese e so che il nostro problema è l’innovazione e la formazione. Riteniamo quindi che il programma sulla ricerca del giugno 2000 conservi tutta la sua intrinseca validità e che, per affrontare il cambiamento, sia essenziale investire sui giovani talenti e rendere dinamici i sistemi, per selezionare in maniera nuova la nostra classe dirigente ed evitare il dramma dei cervelli «in fuga», senza cadere nel provincialismo protezionistico, ma promuovendo comunque una permeabilità biunivoca e non unidirezionale.
Naturalmente serve che si investa sulla ricerca per adeguarci ai livelli europei. Devono essere individuati criteri affidabili di valutazione delle qualità delle persone da assumere, dei corsi di formazione erogati dall’università e dei progetti di ricerca da finanziare. La valutazione va fatta seriamente, individuando meccanismi che sganciano il valutato dal valutatore – e su questo siamo sempre in ritardo -, rompendo il circolo vizioso dell’autoreferenzialità. Le competenze, la creatività e l’originalità della ricerca devono essere effettivamente premiate, anziché penalizzate. Troppo spesso sono premiate e privilegiate la fedeltà a un docente e ad una scuola; deve essere definitivamente chiusa la stagione dell’ope legis; la formazione deve essere valutata in sede concorsuale. Ai giovani ricercatori (che di solito tanto giovani non sono, perché ultra trentenni) dev’essere riconosciuto, quantomeno, lo status di lavoratore a contratto (questa è una rivendicazione importante fatta dai ricercatori), non di assegnisti o di borsisti, come oggi avviene nonostante i miglioramenti normativi di trattamento avvenuti nella passata legislatura. Si deve dare loro la possibilità di lavorare con maggiore autonomia, con minore sudditanza e, dunque, con maggiore mobilità, creando – uso un termine che, forse, non ci appartiene – un mercato dei talenti più fluido, mentre oggi è anchilosato e bloccato.
Se è vero che il picco della creatività intellettuale si raggiunge intorno ai ventisei, trent’anni, bisogna che le persone di questa fascia di età siano messe in condizione di produrre intellettualmente e di lavorare con dignità; sottolineo con dignità perché oggi non è così. Dobbiamo superare una tutela che incentiva la fuga delle eccellenze verso posti dove questa tutela non c’è e si cresce rapidamente e rapidamente si fa carriera. Servono cambiamenti strutturali ed anche culturali. Consideriamo questi cambiamenti di sinistra, pienamente inseriti in un progetto di modernizzazione, che ha un segno sociale. Consideriamo questo tipo di sviluppo utile e necessario per la coesione sociale, per una politica delle opportunità, che parte anche dai tre obiettivi da lei sottolineati, signor ministro, all’inizio: aumentare il numero dei laureati, ridurre i tempi effettivi per il conseguimento dei titoli e garantire sbocchi professionali. Questi sono i punti di partenza e quelli – come diceva il collega Martella – da cui è partita un’azione riformatrice intensa portata avanti dal centrosinistra nella passata legislatura. Anche da questi obiettivi dipende l’incremento del numero dei giovani ricercatori, la qualificazione, la motivazione delle nuove forze impegnate su tale decisiva frontiera.
Esiste un altro piano importante, solo accennato nella dichiarazione del ministro, quello della formazione di eccellenza, che meriterebbe una maggiore impegno e chiarimento di indirizzo. Noi siamo per non contrapporre il percorso di allargamento dell’offerta formativa a percorsi di formazione di eccellenza, che devono essere strettamente intrecciati ai corsi universitari normali, affinché non si perda una tradizione importante. Lo dico, partendo da un’esperienza e da una conoscenza come quella delle scuole d’eccellenza pisane (la Scuola normale e la scuola sant’Anna) che stanno sforzandosi di fecondare altre esperienze, in un progetto partito nella passata legislatura e che vorremmo vedere sostenuto (su questo aspetto, signor ministro, le chiederemo un chiarimento).
Lo stesso vale per i centri di ricerca; non lavoriamo soltanto su una valutazione immediata. Conosciamo i problemi del CNR, ma sappiamo anche che al suo interno vi sono istituti di punta, molto avanzati. Inoltre, non tutti gli enti di ricerca hanno modelli organizzativi da mettere in discussione: una cosa è il CNR, nella sua struttura pachidermica, altro è l’INFN, che, per esempio, è un istituto di eccellenza in Europa. Ispiriamoci anche alle riforme già fatte ed a modelli organizzativi che, nel pubblico, funzionano, senza, ovviamente, disdegnare rapporti tra ricerca pubblica e privata. Rispetto all’alta formazione ed a quella universitaria, mi permetto di sottolineare un punto, non affrontato nelle sue dichiarazioni in Commissione, signor ministro, quello dell’utilizzazione della multimedialità della rete, e-learning, una parte importante di sviluppo che, in paesi avanzati – Stati Uniti, Canada ed alcuni paesi europei – è ormai la frontiera innovativa tra le più importanti e rilevanti nel campo dell’alta formazione. Crediamo che debbano essere aiutati gli atenei che nell’ambito della loro autonomia producono esperienze pilota, trainanti anche da questo punto di vista.
Vorrei fare, ora, una considerazione solo politica. Vorremmo credere che il tono ed alcuni contenuti delle dichiarazioni del ministro siano dovuti alla percezione di una situazione nuova, affermatasi non a caso a partire dai soggetti protagonisti del mondo della formazione: docenti, studenti, ricercatori, dottorandi e dottori di ricerca, i più giovani tra coloro che sono stati impegnati nella riforma. Vi è stata una maturazione politica dei soggetti ed è stata assunta una prospettiva di Governo e di innovazione. Scuola ed università sono state spesso il campo, non dell’innovazione, ma di una conservazione, a volte ammantata di movimentismo. Oggi i movimenti sono stati spesi per l’innovazione ed il cambiamento; non è un fatto scontato, ciò è costato una difficile battaglia politica, condotta dall’Ulivo e dalla sinistra – in particolare da questa sinistra -, mentre la destra, spesso, si è limitata alla resistenza passiva e non ha messo in campo grandi idee (questo ovviamente è un giudizio di parte) o a contestazioni che non hanno prodotto un progetto. Ho sentito, anche nella nostra discussione «tirare per la giacca» le dichiarazioni del ministro, in senso puramente politico, quasi vi fosse la necessità di definire l’avversario politico in negativo. Però, serve un progetto; lo sforzo dei colleghi della maggioranza non ha grande respiro.
L’Ulivo e la sinistra hanno perso le elezioni, ma nella sconfitta hanno vinto una sfida. Infatti, se si guardano le analisi qualitative (le avrete viste anche voi, colleghi della destra, che siete bravi su questo piano), bisogna riconoscere che gran parte dei lavoratori intellettuali ha votato in maggioranza per l’Ulivo e così gran parte degli studenti universitari e degli insegnanti, anche tra coloro che hanno contestato le riforme. Tutto ciò non era scontato, perché, a volte, le riforme si pagano in termini di consenso. Per noi dell’Ulivo questo è un dato da cui ripartire, una sponda per le nostre politiche ed una riserva di modernità con un chiaro segno sociale, ma, al di là delle scelte di voto che sono contendibili e si contendono da un’elezione all’altra, voi avete vinto le elezioni nel maggioritario con un piccolo scarto di voti, poco più di cinquecentomila…
FABIO GARAGNANI. Nel 1996 voi avete vinto le elezioni perdendole.
MARCO FILIPPESCHI. In queste elezioni è avvenuta la stessa cosa, a ruoli invertiti.
FABIO GARAGNANI. No, questa volta abbiamo vinto!
PRESIDENTE. Colleghi, vi prego, la trasmissione di Porta a Porta del 14 maggio si è già svolta…
MARCO FILIPPESCHI. La diversità sta nel fatto che noi non stiamo ricordando la cosa al paese e dovremmo farlo. Invece, l’onorevole Berlusconi, cinque anni fa, lo ricordava tutti i giorni. Dentro la nostra sconfitta vi sono questi dati di valore che crediamo vadano al di là di una componente politica, oggi minoranza. A questa componente sociale rilevante del paese, ci rivolgeremo all’apertura dell’anno scolastico ed accademico con le nostre proposte, chiamando allo scoperto il Governo e la maggioranza per dimostrare la validità delle proprie.
PRESIDENTE. Dopo questa lunga e proficua discussione della Commissione ascoltiamo adesso la replica del ministro.
LETIZIA MORATTI, Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Innanzitutto intendo spiegare le linee di svolgimento della replica: vorrei soffermarmi, brevemente, su alcuni temi che sono stati toccati da tutti gli interventi e, in seguito, cercare di dare una risposta ai punti essenziali evidenziati da ogni singolo intervento.
Prima di toccare i temi comuni su cui soffermarmi, voglio anch’io ringraziarvi per il clima dell’incontro e del dibattito: mi auguro possa essere mantenuto sempre, perché è più facile spiegare le proprie idee e posizioni in un confronto pacato, ma, soprattutto, perché l’istruzione è un bene talmente importante per tutti noi, da evitare che diventi oggetto di scontro politico. L’impegno che il Governo prende nei confronti del dibattito parlamentare è di portare avanti un progetto il più ampiamente possibile condivisibile: sono certa che ci misureremo, dividendoci, sugli strumenti, ma, da parte nostra, cercheremo di lavorare su obiettivi comuni.
La capitalizzazione di quanto di positivo è stato fatto è un altro punto su cui intendo soffermarmi. Proprio perché il Governo ritiene talmente fondamentale l’istruzione da evitare – ripeto – che diventi scontro politico, intendiamo capitalizzare tutto ciò che di positivo è stato fatto e certamente non vogliamo annullare conquiste, di cui il paese deve poter beneficiare. Voglio richiamare i principi ai quali il Governo si ispira; li ho già detti nella relazione ma li richiamo adesso, perché ritengo importante sottolinearli. La nostra azione sarà ispirata dalla centralità delle famiglie, degli studenti e dei docenti; la richiamo perché sarà il nostro punto di partenza. Cercheremo di indirizzare il nostro programma verso un sistema di istruzione che formi, innanzitutto, le persone. Le persone poi divengono cittadini e devono essere libere di poter avere le proprie idee ed una formazione culturale, politica e religiosa diversa; ma, prima di tutto, dobbiamo dare ai ragazzi la possibilità di essere liberi, per poter compiere consapevolmente le proprie scelte.
Questo è il punto di partenza; sono certa che questo è un obiettivo condiviso – la formazione di persone libere – e su questo punto mi auguro di poter trovare quel consenso che ci consenta di costruire un progetto che non sia il nostro progetto ma quello della società civile.
Detto questo, mi soffermo su alcuni temi che sono stati toccati, partendo da quello dell’autonomia. Voglio innanzitutto osservare che l’autonomia che già esiste va rafforzata, perché la vera autonomia è quella che deve comprendere anche la definizione dei curricula: questo costituisce sicuramente un punto importante, che non è stato toccato dalla legge nè dal decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 2000. Vi è poi il decreto ministeriale n. 234 del 2000 che all’articolo 3, comma 2, fornisce una definizione dei curricula che sono a disposizione dei singoli istituti; si tratta di un articolato che va sicuramente modificato, in modo da attribuire agli istituti un’autonomia maggiore rispetto a quanto previsto. Tale articolato stabilisce che gli istituti possono o mantenere i programmi che già hanno – e questo sicuramente non è in linea con una reale autonomia – o apportare delle modifiche, però nell’ambito delle materie che hanno già a disposizione, oppure possono integrarle in maniera suppletiva ma senza modificare i curricula ad essi attribuiti. Si tratta di un impianto normativo che, a nostro avviso, va modificato nel senso di rafforzare l’autonomia; peraltro, questo mi sembra un tema condiviso sul quale deve esserci un impegno maggiore per rendere più reale l’autonomia già avviata.
Un ultimo accenno sull’autonomia con riferimento all’università. Nell’ambito universitario i crediti che il centro attribuisce ai corsi pesano per il 65 per cento; ritengo che quanto il centro stabilisce rispetto ai crediti formativi, che poi i singoli atenei possono integrare con propri crediti, abbia un peso troppo elevato. Anche in questo senso l’autonomia che si è avviata va rafforzata.
Un altro tema che è stato toccato è quello della valutazione. In questo caso vi sono diversi aspetti da considerare. Un primo aspetto consegue all’accorpamento tra i due ministeri – previsto dal decreto legislativo n. 300 del 1999 – e riguarda l’esistenza di due diverse organizzazioni aventi ad oggetto la valutazione: una all’università, l’altra alla pubblica istruzione. Nell’ottica della riorganizzazione richiesta dal decreto legislativo citato, è apparso opportuno verificare quale possa essere l’assetto che, dal punto di vista organizzativo, vada incontro a tale esigenza.
Un secondo punto in tema di valutazione deriva dal fatto che al rafforzamento dell’autonomia non può non corrispondere un rafforzamento dei sistemi di valutazione, come accade in tutti i paesi. Senza giungere ai modelli più spinti da questo punto di vista – ad esempio l’Inghilterra, che assegna ai singoli istituti un’assoluta autonomia nella definizione dei curricula, ma nel contempo centralizza il sistema di valutazione attraverso l’offsted con circa 12 mila ispettori che verificano i risultati dei livelli di apprendimento -, anche perché riteniamo che ogni modello debba essere contestualizzato al paese nel quale deve trovare applicazione, tuttavia non si può pensare di rafforzare l’autonomia senza rafforzare al contempo il sistema di valutazione. Il sistema di valutazione del Ministero dell’istruzione da cui partiamo ha sicuramente raggiunto un primo risultato positivo perché ha effettuato le prime rilevazioni dei livelli di apprendimento così come richiesto dalla IEA. Si tratta di un risultato che va mantenuto, ma ritengo che occorra una mentalità diversa rispetto alla valutazione: ad esempio rendendo trasparenti le valutazioni adesso, all’interno del ministero. Pertanto, si può affermare che si deve far crescere la cultura della valutazione come strumento di miglioramento e come strumento di crescita complessiva del sistema ma non come strumento positivo; è certamente un compito difficile e come tale costituisce una sfida, soprattutto perché nel nostro modello culturale, a volte, la valutazione – non mi riferisco solo al sistema scolastico – è vista come un momento di verifica che può produrre risultati punitivi; va pertanto superato questo modello, con prudenza e gradualità, partendo dall’autovalutazione, come esiste in alcuni paesi, e come esiste da noi, sotto certi aspetti, solo all’università.
Un altro tema toccato è quello del buono-scuola. A tal proposito voglio solo ricordare che il Governo ha ritenuto di dover rinunciare al ricorso, cui alcuni deputati intervenuti hanno fatto riferimento, per diversi motivi. Innanzitutto, vi è stata una delibera della giunta della regione Veneto che non era stata oggetto di conflitto di attribuzione; quindi, esisteva già un precedente, e pertanto non si giustificava un atteggiamento diverso relativamente alla delibera della giunta della regione Lombardia. Inoltre, la legge n. 62 sulla parità prevede la concessione di contributi nella forma di buoni-scuola o di detrazione d’imposta, rispetto ai quali quelli delle leggi regionali si configurano come aggiuntivi ed integrativi e quindi è giustificata la parziale diversità dei criteri di ammissione. Peraltro, la legge regionale n. 1 del 2000 che aveva disciplinato la materia dei buoni-scuola non era stato oggetto di rilievi da parte del Governo. Il ricorso era basato esclusivamente su aspetti procedurali; per tutti questi motivi si è ritenuto di non procedere e di ritirare il ricorso.
Un accenno al tema della formazione, in particolare della formazione professionale. Da parecchi interventi è emersa l’importanza di tale tema, che sarà oggetto della verifica della commissione che abbiamo istituito; pertanto, non entro nel merito di quello che sarà oggetto del lavoro di questo organo collegiale. Mi limiterò soltanto a constatare quanto il nostro paese nuovamente si discosta, in termini di formazione professionale (di competenza delle regioni), dagli altri paesi OCSE; la nostra è una formazione professionale con una bassissima percentuale di ore dedicate al laboratorio rispetto alla formazione in aula (su 36-40 ore, 4 sono di laboratorio, collocandosi intorno al 7 per cento rispetto a una media del 40 per cento).
Si tratta, pertanto di una non reale formazione professionale che si è sviluppata in maniera centralizzata rispetto a quello che invece avrebbe dovuto essere il percorso corretto. Sono emerse anche delle esperienze positive che verranno certamente capitalizzate, però ritengo che il punto fondamentale sia quello di ridare alle regioni, con il supporto dello Stato, quella che costituisce materia di loro competenza unitamente al Ministero del lavoro e al mondo produttivo che interagisce con le regioni in tale materia.
Un ultimo cenno al DPEF. Come voi tutti sapete, tale documento non parla e non ha mai parlato di risorse. Dico questo perché molti interventi hanno fatto riferimento al DPEF in termini di risorse che tale documento dedica alla scuola: questa non è materia di DPEF perché di risorse si parlerà nell’ambito della legge finanziaria. Tuttavia, il DPEF ha posto, in tema di scuola, di università e di ricerca, le premesse perché poi si possa, in finanziaria, avere le risorse adeguate alle linee guida che sono state individuate.
Per quanto riguarda l’intervento dell’onorevole Gambale, mi sembra che i passaggi più significativi si riferivano al DPEF, al parere di costituzionalità rispetto al ritiro del ricorso in tema di buono-scuola e al sistema di valutazione; su tutto ciò credo di aver risposto.
Per quanto concerne le osservazioni dell’onorevole Galvagno, in tema di qualità e di meritocrazia, mi sento di condividerle; ribadisco soltanto che la meritocrazia deve esistere e deve essere coniugata con la giustizia e l’equità sociale.
L’onorevole Rusconi aveva posto il problema della fuga dei talenti. Devo, invero, riconoscere che, effettivamente, purtroppo, molti laureati non rimangono in Italia: le lauree italiane non specializzano, le università non hanno sufficienti laboratori, mancano le biblioteche, ed in questo senso mi riallaccio anche all’intervento dell’onorevole Filippeschi.
Quindi, sicuramente le risorse dovranno essere indirizzate anche al fine di ovviare a tale situazione, in quanto gli studenti non hanno tante risorse quante sono quelle a disposizione degli studenti di altri paesi. Si tratta sicuramente di un problema importante.
È stato toccato il tema del valore legale del titolo di studio: è una questione delicata, anche perché di rilievo costituzionale; devo dire che già adesso in Europa, più che al risultato finale costituito dal conseguimento del titolo di studio, si guarda al percorso formativo; quindi, è già in atto, perlomeno di fatto, una minore attenzione al titolo legale ed una maggiore attenzione, invece, al percorso compiuto dagli studenti. Peraltro, vorrei anche far notare che la questione va analizzata anche in rapporto agli altri paesi europei perché, come sapete, i paesi nordici tendono a non dare valore legale al titolo di studio mentre la situazione è inversa in tutti gli altri paesi dell’Europa continentale. Perciò, va operato, anche in questo senso, un raccordo con gli altri paesi europei.
L’onorevole Sasso ha giustamente toccato l’argomento dell’importanza della multiculturalità: credo che, sotto questo profilo, il nostro paese sia estremamente avanzato. Penso anzi che, dal punto di vista dell’impostazione dei curricula, il nostro sia probabilmente il paese più avanzato. Analogamente, credo che la multiculturalità vada vista nell’ottica di aiutare i ragazzi ad integrarsi e, quindi, ad essere cittadini italiani: si deve operare nel rispetto, certamente, delle culture e delle civiltà, ma con l’obiettivo di favorire una integrazione piena nella nostra società.
Mi permetto – visto che avevo premesso che lo Stato deve indirizzare e controllare, ma non gestire – di accennare soltanto alla circostanza che lo Stato attualmente è gestore perché gestisce, se non altro, il contratto collettivo dei docenti e quindi circa un milione di persone. Ciò sicuramente determina una burocratizzazione che non sempre è in linea con quello che dovrebbe essere il ruolo di servizio alle famiglie ed agli studenti.
L’onorevole Grignaffini ha chiesto quali differenze emergano rispetto al nostro progetto; non lo so, ma mi auguro di poter lavorare – come ho detto prima – per perseguire obiettivi comuni. Sicuramente, l’obiettivo fondamentale è la centralità della persona e delle famiglie. A tale proposito, però, non possiamo non registrare che da parte delle famiglie vi è, nei confronti del sistema scolastico, una notevole sfiducia: è quanto asserito nell’ultima relazione del CENSIS. Le famiglie preferiscono a volte spendere non per investire nella carriera scolastica ma, piuttosto, per soddisfare altri bisogni dei figli. Si tratta di un punto critico che credo debba essere tenuto in considerazione.
L’onorevole Damiani ha parlato dell’importanza di valorizzare alcune esperienze ed ha citato i parchi tematici ed i parchi scientifici di Trieste, che sono sicuramente un punto di eccellenza. Credo che sarebbe profondamente sbagliato non valorizzare le esperienze positive, i poli di eccellenza che vi sono e, quindi, sicuramente vi sarà da parte nostra una grande attenzione a tutto ciò che di positivo, anche in questo campo, già sussiste.
All’onorevole Garagnani credo di aver già risposto, visto che, in particolare, aveva parlato di buono-scuola.
Per quanto riguarda l’onorevole Bianchi Clerici, credo abbia svolto una puntuale esposizione di come debba intendersi la devoluzione; da lei è venuto, peraltro, un giusto suggerimento a riprendere in esame il provvedimento sugli sgravi fiscali: sicuramente ne terremo conto.
L’onorevole Palmieri ha parlato dell’importanza delle tecnologie multimediali; queste sicuramente fanno parte del programma di Governo. Ci raccorderemo con il ministro che ha la delega in questa materia nell’ottica non di ridurre le tecnologie multimediali ad una mera disciplina ma di considerarle uno strumento didattico. Si tratterà, quindi, di un’ottica profondamente innovativa rispetto a quella attuale: peraltro, in tutti i paesi più avanzati, è proprio questo il modo in cui ci si avvicina alla multimedialità ed all’informatica.
L’onorevole Ranieli ha parlato dell’importanza delle risorse per gestire l’autonomia: l’argomento, naturalmente, è condiviso.
L’onorevole Santulli ha parlato dell’importanza del recupero delle tradizioni; credo che volesse sicuramente dare maggiore enfasi alla grande tradizione pedagogica del nostro paese. Vorrei, peraltro, richiamare un altro aspetto che sinora non è emerso dal dibattito: l’OCSE ci richiama ad una maggiore tutela di altre tradizioni che forse possono apparire meno nobili ma sono altrettanto importanti. Si tratta, ad esempio, della tradizione artigianale, che si sta perdendo nel nostro paese. Sicuramente andrebbe prestata una maggiore attenzione a tutto quanto fa parte della nostra storia, delle nostre radici culturali, delle nostre tradizioni.
Quanto all’intervento dell’onorevole Bimbi, nella relazione di ieri dicevo che per valorizzazione del capitale umano si intende la valorizzazione della persona, quindi si intende esattamente quanto lei ha richiamato oggi parlando di valore del capitale sociale, umano e culturale. Non a caso ho richiamato Vivian Reding che, infatti, parla proprio di sviluppo sociale, e certamente non solo di sviluppo economico, nel processo educativo. Credo sia totalmente condivisibile il concetto di dare alle famiglie pari opportunità nell’accesso alle risorse; noi abbiamo parlato di libertà di scelta per le famiglie e credo che questo possa essere un obiettivo condiviso. Per quanto riguarda gli strumenti – a proposito dei quali è intervenuto il presidente Adornato – con i quali arrivare a dare un’effettiva opportunità di scelta alle famiglie, credo che essi andranno individuati e verificati; certamente, non deve essere data allo strumento un’importanza maggiore rispetto all’obiettivo. Quindi, l’obiettivo è sicuramente la libertà di scelta delle famiglie; verificheremo quali saranno gli strumenti più opportuni.
L’onorevole Pacini ha parlato dell’importanza della ricerca; è condivisibile che si chieda la fissazione di scadenze temporali rispetto agli interventi che devono effettuarsi. Per quanto riguarda gli enti di ricerca, in modo particolare, l’onorevole Pacini citava il CNR. Vorrei al riguardo dire che abbiamo già avviato con il presidente del CNR, Lucio Bianco, una riflessione circa una revisione anche organizzativa dell’istituto medesimo, al fine di renderlo più efficiente e più efficace nella sua attività di ricerca. Si tratta, dunque, di un processo già iniziato, che abbiamo condiviso con il presidente del CNR.
L’onorevole Capitelli credo abbia posto il problema della centralità della persona in quanto tale e come cittadino. Personalmente, credo che, se si fa sviluppare la persona dandole la capacità di essere libera e responsabile, non si può formare se non una persona che diventa un cittadino a sua volta libero e responsabile. Quindi, non credo vi sia differenza.
Un accenno, infine, va fatto ai provvedimenti relativi ai cicli scolastici: abbiamo riattivato il provvedimento relativo alla scuola materna, generalizzando le cinquecento sezioni (e quindi esattamente come era previsto). Il motivo del ritiro era assolutamente tecnico: il ritiro è avvenuto perché nel decreto vi erano richiami alla legge-quadro sulla parità scolastica 10 febbraio 2000 n. 30. Quindi, l’abbiamo ritirato, rivisto, rianalizzato e, togliendo quei richiami, il provvedimento è ripartito. Si tratta, quindi, di un provvedimento che abbiamo riavviato.
Quanto agli altri provvedimenti, il ministero aveva avuto parere negativo dal Consiglio nazionale della pubblica istruzione circa quello sulle trentadue ore. Dunque, tale provvedimento andrà rivisto.
Era stato fatto un richiamo alla prudenza per quanto riguarda il sistema di valutazione, ma credo di avere già risposto. L’onorevole Butti ha messo l’accento sull’importanza della semplificazione, sulla necessità di non appiattire i talenti e di non omologarli. Sicuramente questa è la grande sfida di una scuola che deve essere capace di allargare la base il più possibile, ma che non deve sacrificare i talenti. L’obiettivo è, appunto, cercare di costruire una scuola che sia di tutti e che però non penalizzi i migliori.
È assolutamente condivisibile quanto detto dal presidente Adornato, cioè l’invito, nella ricerca di comuni obiettivi, a misurarsi sulla diversità degli strumenti. Quando parliamo di sistema scolastico italiano, parliamo di un sistema fatto per il 93 per cento circa dalla scuola pubblica sicché, se ci proponiamo di innalzare la qualità della scuola, chiaramente la centralità della scuola pubblica non può non essere considerata.
Per quanto riguarda l’intervento dell’onorevole Martella credo di avere, forse, risposto per quanto riguarda l’autonomia universitaria, che va rafforzata. Credo che dal punto di vista della riforma universitaria vi sia una volontà assoluta di capitalizzare quanto di positivo è stato fatto; le risorse debbono, però, essere indirizzate coerentemente agli obiettivi che ci siamo prefissi. Questo anzi, forse, è l’aspetto più importante della nostra azione, per quanto riguarda le università, visto che non sempre le risorse vengono indirizzate rispetto agli obiettitivi. Credo, quindi, che il tema di fondo sia una riqualificazione della spesa e indirizzare le risorse al raggiungimento degli obiettivi. Credo di avere risposto anche all’onorevole Filippeschi.
Vorrei solo aggiungere che quello odierno per me è stato un incontro molto utile dal punto di vista dei suggerimenti e delle proposte e mi auguro di potere continuare ad approfondire tutti gli argomenti che sono stati oggi e ieri oggetto di dibattito. A nome del Governo, cercheremo di farlo sempre con la convinzione – lo ripeto ancora – che la scuola non deve essere terreno di scontro, visto che si tratta del presente e del futuro dei nostri figli, dei nostri ragazzi. Quindi, la materia è troppo importante perché non si cerchi di arrivare a definire insieme politiche per la scuola che siano le migliori per il paese.
PRESIDENTE. Ringraziamo molto il signor ministro e riconfermiamo la scelta della Commissione, se sarà possibile, con la volontà di tutti, di agire con questo spirito. Ad ogni modo, vi è anche l’urgenza dei tempi di cui parlavamo, rispetto alla situazione del rapporto tra la scuola e la società, tra la scuola e la globalizzazione, tra la scuola e il mondo. Ringrazio ancora il ministro per la sua partecipazione.
La seduta termina alle 13,55.