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Boarelli-Scotto di Luzio

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), Milano, Feltrinelli, 281 pp., € 19,00

Nel primo decennio del dopoguerra, fino alla divulgazione del rapporto Chruscëv sui crimini di Stalin, il PCI impose ai suoi militanti di raccontare pubblicamente e di scrivere la propria autobiografia. La pratica risaliva agli anni ’30 ed era diffusa in tutto il mondo comunista. Era un aspetto della «critica e autocritica» del militante bolscevico. L’aveva codificato Stalin in persona, fin dal 1928: il Partito come tribunale della classe operaia, chiamato ad esercitare un «controllo morale, vivo e vigilante» (p. 43) sulle condotte dei singoli e sui loro atteggiamenti ideologici.
Nel caso italiano, le occasioni di dover rendere conto di sé in forma narrativa potevano essere diverse. Boarelli studia quella offerta dalla Scuola di partito di Bologna. Per dieci anni, 1.024 militanti redigono 1.217 autobiografie. Scrivono, prevalentemente, operai e contadini, benché, avverte Boarelli, l’autodefinizione sia fortemente segnata, da un lato, dal primato ideologico e dal prestigio della condizione operaia; dall’altro, dal profondo sospetto che grava su ogni altra condizione di classe, segnatamente borghese o piccolo borghese. È, in ogni caso, una documentazione vasta, e di straordinario interesse.
L’autobiografia in pubblico era spesso umiliante. Dava luogo a vere e proprie forme micro persecutorie, nello spazio di una prolungata esposizione personale al giudizio del collettivo, senza nessuna forma di tutela per chi si raccontava. In molti casi, anzi, il clima era violento, quasi sadico, come nel caso di una giovane e bella partigiana di origini slave, che durante la guerra aveva svolto, anche in virtù del suo fascino, compiti di spionaggio presso un certo comando tedesco. Nel 1950 si vede costretta a rispondere ad una compagna che la interroga per sapere se «quell’incarico non gli consentiva di soddisfare un forte desiderio di andare a letto con un tedesco» (p. 241).
Perché, si chiede Boarelli, centinaia di militanti comunisti accettarono questa forma di controllo così insinuante? La risposta viene offerta dall’a. su di un piano essenzialmente metodologico. La storia delle autobiografie comuniste è un capitolo della più ampia vicenda del rapporto tra scrittura e potere. Da questo punto di vista le pagine redatte dai militanti bolognesi del PCI si offrono come lo spazio di un conflitto: da un lato, le richieste del Partito committente, che impone modelli narrativi e fornisce schemi di auto comprensione; dall’altro, le strategie più o meno elusive, i compromessi e gli scarti, dei militanti scrittori, secondo un modello interpretativo che si richiama esplicitamente alla lezione di Carlo Ginzburg.
Ma tutto questo se vale ad affinare gli strumenti di lettura non risponde alla domanda iniziale: perché uomini e donne, usciti spesso da prove durissime, si piegarono a pratiche del genere? Nel tentativo di assimilare l’autobiografia comunista ai documenti di un processo della santa Inquisizione a restare inevaso è infatti il problema molto novecentesco dell’ideologia e della fedeltà ideologica.
Adolfo Scotto di Luzio

Replica di Mauro Boarelli

Who, Where, When, What, Why. Chi non ricorda i film americani ambientati nel mondo del giornalismo, dove i redattori esperti spronavano i più giovani a scrivere i loro pezzi tenendo sempre a mente queste regole fondamentali? Certo, si tratta di un’immagine mitizzata, le cose non sono andate e non vanno sempre in questo modo, ma da lettore mi piacerebbe ritrovare queste domande (e le relative risposte) in ogni articolo che si proponga di raccontare un fatto, un libro, un film… Così non è nella recensione che Adolfo Scotto di Luzio ha dedicato al mio libro “La fabbrica del passato” nell’Annale Sissco n. IX del 2008. Il lettore che voglia conoscere i contenuti, la struttura, la metodologia e le tesi del volume resterà a bocca asciutta. Il recensore, infatti, ha scelto di non parlarne, tranne che per un accenno fugace, non argomentato e riduttivo: affermare che l’autobiografia comunista viene “assimilata” ai documenti di un processo della Santa Inquisizione è inesatto, e non rende conto del fatto che quello dei processi inquisitoriali è solo una delle piste di indagine, non certo l’unica. Scotto di Luzio si limita a scrivere che le mie risposte vengono offerte “su di un piano essenzialmente metodologico”, senza spiegare cosa questo significhi, ma insinuando che si tratta di una metodologia fine a se stessa, di uno sterile esercizio storiografico. Perché, invece, non esamina l’uso che ho fatto delle fonti, le domande che ho posto e le risposte che ne ho ricavato, gli argomenti e gli strumenti analitici utilizzati, l’uso di studi provenienti da discipline diverse? Questo, credo, sarebbe lo scopo di una recensione che voglia offrire la lettura critica di un’opera: riassumerne i contenuti, le chiavi interpretative, gli strumenti metodologici, e sottoporli a un giudizio che può essere anche severo, ma non liquidatorio. Scotto di Luzio, invece, salta l’analisi ma non rinuncia al giudizio: il libro – sostiene – lascia “inevaso […] il problema molto novecentesco dell’ideologia e della fedeltà ideologica”. Sarebbe stato più utile se avesse spiegato perché – a suo parere – il mio studio mancherebbe di rispondere a una delle domande per le quali è stato scritto. Forse le letture ideologiche non sono finite nel Novecento…
Mauro Boarelli