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Cittadinanza e stato sociale in Italia: azione sindacale e politiche di governo negli anni Sessanta e Settanta

Ignazio Masulli
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea

a cura di C. Sorba

I limiti dell’azione riformatrice dei governi di centro-sinistra, le difficoltà incontrate dagli stessi promotori di quell’alleanza nella realizzazione dei loro propositi, sono stati studiati da più punti di vista [1]. Certo, non può essere sottovalutato il cambiamento di clima politico che quella svolta segnò rispetto agli anni precedenti [2]. Ma è proprio una valutazione attenta agli elementi di novità di quella stagione politica che induce a interrogarsi sulle ragioni dei suoi scarsi frutti.
Per restare al tema specifico, sottolineerò alcuni aspetti che mi sembrano particolarmente significativi ai fini di questa breve analisi.
Intanto, è da sottolineare il grande ritardo con cui si poneva mano a una politica di riforme. Il quindicennio che separava dalla promulgazione della Costituzione e dalla prima, cruciale, fase della ricostruzione postbelllica era stato di sostanziale immobilismo politico.
V’era l’esigenza di avviare riforme di struttura capaci di correggere i gravi squilibri economici, sia regionali che di settore, che si erano accumulati nel tempo [3]. Non si poteva più attendere nell’eliminare le larghe fasce di arretratezza sociale e culturale che ancora persistevano in molte aree del paese. In tema di riforma dello Stato, il dettato costitu-zionale attendeva ancora di essere applicato per aspetti di non secondaria importanza; né il nuovo ordinamento era compatibile con il permanere di istituzioni e leggi proprie del re-gimefascista.
La mancata soluzione e l’ingravescenza di tali problemi costituiva una sorta di incrostazione dura su cui si andavano a sovrapporre le contraddizioni derivanti dalle trasformazioni più recenti dell’economia e della società italiana.
Lo straordinario sviluppo economico della seconda metà degli anni ’50 e dei primi anni ’60, le trasformazioni dell’organizzazione sociale e dei sistemi di vita (familiare, abitativo, dei consumi, dei trasporti, delle comunicazioni ecc.) che avevano interessato soprattutto l’ambiente urbano e le regioni centro-settentrionali, richiedevano riforme capaci di governare il processo di modernizzazione e, al tempo stesso, di affrontare vecchi problemi ormai improcrastinabili.
Lo stesso, ovviamente, valeva per i limiti e gli anacronismi delle politiche sociali [4].
Com’è noto, il centro-sinistra debuttò con due provvedimenti importanti: la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai tredici anni. Ma le altre riforme previste dal governo Fanfani [5] e tutte quelle dichiarate “assolutamente prioritarie” dal primo governo Moro [6], quali la riforma fiscale, urbanistica, delle politiche agricole, delle pensioni, furono accantonate o bloccate nel giro di nemmeno due anni. Non è semplice comprendere la facilità con cui quei propositi furono sacrificati di fronte alle prime resistenze conservatrici manifestatesi in seno alla stessa maggioranza o esterne al Parlamento. Come spiegare una politica di continui rinvii e sostanziali rinunce, quale quella che caratterizzò i successivi governi Moro dal 1964 al 1968?
Anche gli intenti di programmazione economica, che pure costituivano il nerbo dei progetti di riforma della coalizione, furono presto vanificati.
La nota aggiuntiva presentata nel 1962 da Ugo La Malfa, ministro del Bilancio del go-verno Fanfani, denunciava gli squilibri territoriali e settoriali dello sviluppo degli anni ’50. Essa conteneva una lucida critica delle distorsioni del modello di consumi che si stava af-fermando in Italia e che favoriva quelli privati, mentre mancavano ancora infrastrutture pubbliche per i bisogni collettivi ed era intollerabile l’inefficienza dei servizi sociali esistenti. La mancanza di case, trasporti, scuole, ospedali era destinata a far crescere richieste di salario diretto (specie nelle aree urbane e d’immigrazione) fino a compromettere le limitate possibilità di sviluppo [7].
Quel documento evidenziava un nesso importante tra politica economica e politica sociale. Si proponeva ai sindacati un contenimento o una riduzione dei salari in cambio di altre forme di reddito reale da realizzare, appunto, attarverso le riforme e con risorse pubbliche.
Questi temi furono ripresi nel primo progetto di Piano quinquennale del ministro del Bilancio Antonio Giolitti, nel 1964. Il documento incontrò fortissime resistenze nei settori moderati e maggioritari dell’alleanza, nonché in gran parte del mondo imprenditoriale [8].
Dopo la grave crisi politica di quello stesso anno, il nuovo ministro del Bilancio Giovanni Pieraccini redigeva un secondo progetto, più limitato. Ma anche questo, appro-vato dopo ben due anni di travagliato confronto parlamentare, restò lettera morta.
In realtà, si può dire che fin dal 1963 si andò delineando una politica economica nettamente deflazionistica e di restrizione creditizia. Essa era il frutto di un’intesa tra la Banca d’Italia e il ministero del Tesoro che si consolidò e conobbe una notevole continuità negli anni successivi [9].
Quanto alle politiche sociali, mentre gli intenti di riformare sanità e assistenza sulla base di prestazioni universalistiche restavano sulla carta del Piano Pieraccini, le leggi operanti continuavano a essere quelle d’anteguerra. A esse si erano aggiunti i provvedimenti presi dai governi centristi negli anni ’50. Provvedimenti che, nella maggior parte dei casi, erano ispirati alla logica di una politica decisamente “particolaristica e clientelare” [10].
Quanto alla riforma pensionistica, essa fu menzionata nelle dichiarazioni programmatiche del primo governo Moro, ma restò un’altra pia intenzione.
Quali furono, dunque, le ragioni del quasi completo naufragio dei progetti riformatori del centro-sinistra?
Senza sottovalutare altri elementi di risposta che sono stati dati a questi interrogativi e [11], se si vuole, proprio dandoli per acquisiti, io sposterei l’attenzione su due aspetti pro-priamente storici.
Un elemento di risposta mi sembra sia da ricercare in alcuni caratteri di fondo del blocco sociale e del sistema di potere costruiti dalla DC nel dopoguerra.
Un tratto significativo di quel blocco sociale consisteva nel carattere particolarmente composito e vario dei gruppi e degli interessi che connotavano i ceti dominanti. Pur nelle differenze, essi erano affiancati gli uni agli altri, senza aperta competizione o grossi conflittti interni. Anche ricchezze e poteri di più recente formazione che avevano raggiunto il vertice della gerarchia sociale, lo avevano fatto attraverso processi di cooptazione e assimilazione che non avevano provocato traumi né grossi cambiamenti di posizioni.
La seconda caratteristica si riferisce ai ceti medi. Sono ben noti gli aspetti quantitativi e qualitativi della loro crescita patologica rispetto agli altri strati della struttura sociale italiana, nel periodo tra le due guerre e dopo. Il carattere estremamente composito di tali ceti era dovuto alla tenuta dei gruppi più tradizionali (lavoratori autonomi, commercianti, artigiani, sia in ambiente rurale che urbano, impiegati delle amministrazioni pubbliche e private) e al fatto che ad essi si erano andati aggiungendo segmenti sempre più numerosi di ceti impiegatizi della più varia formazione e di lavoratori dei servizi [12].
Ovviamente, anche per ciò che riguarda i ceti medi, condizioni sociali e atteggiamenti politici erano cambiati notevolmente rispetto al ventennio fascista. Ciò non toglie che si riproponessero taluni elementi di continuità che, per il problema di cui ci occupiamo, non furono di poco conto. I ceti medi furono obiettivo precipuo e, insieme, stumento efficace dell’indirizzo clientelare delle politiche sociali durante il fascismo. Nel dopoguerra e nei primi anni Cinquanta la situazione era certamente molto diversa, ma l’esigenza di rafforzare ed estendere il consenso politico dei ceti medi trovava nel “particolarismo clientelare” lo strumento più facile e meglio disponibile per ottenere quel consenso. Ciò incoraggiò il perdurare, in una parte almeno di quei ceti, di un comportamento sociale parassitario, accompagnato da una buona dose di opportunismo politico.
Non mancarono certo strati anche significativi di ceto medio che, per situazione sociale ed esperienza politica, si allearono con le classi lavoratrici. Ma credo si possa consentire con Sylos Labini quando afferma che negli anni del centro-sinistra una parte non trascurabile della piccola borghesia mostrò diffidenza o aperta avversione di fronte a una politica di riforme [13].
Questi elementi, che continuavano a caratterizzare il blocco sociale ricostruitosi nel secondo dopoguerra, aiutano a comprendere la logica che informava il sistema di potere democristiano. Non era, in realtà, possibile alcun serio tentativo di correzione a monte degli squilibri derivanti dalle contraddizioni dello sviluppo capitalistico e della struttura sociale affermatisi in Italia. Correttivi di quel genere avrebbero dovuto poggiare su contrapposizioni di interessi e mutamenti di rapporti di forza tra gruppi sociali. Sarebbero andati a intaccare interessi costituiti; avrebbero comportato contrapposizioni tra gruppi e ceti diversi; presupponevano la volontà e la capacità di modificare i rapporti sociali esistenti.
Tutto ciò avrebbe richiesto conflitti e mutamenti interni a un blocco sociale che la DC conservava ed estendeva sì, ma senza volerne compromettere la tenuta e i caratteri costitutivi. L’alleanza con i socialisti aveva il proposito di un ulteriore allargamento di quel quadro di rapporti sociali, non certo di un suo mutamento radicale.
Il sistema di potere democristiano ammetteva, quindi, solo una serie di compensazioni a valle degli squilibri prodottisi. Di qui, la ragione sostanziale di una politica corporativa e clientelare, sia pure riprodotta in nuove forme e in un contesto sociale e politico diverso da quello del regime fascista.
Molte concessioni potevano essere fatte, la spesa pubblica poteva sobbarcarsi all’onere di politiche assistenziali anche molto costose, purché il quadro dei rapporti sociali e le ragioni e i modi della sua tenuta non fossero intaccati.
Il risultato, in realtà assai magro, dei governi di centro-sinistra rappresentava il limite massimo raggiungibile in base al blocco sociale e al sistema di potere costruiti e governati dalla DC. Né era praticabile un’alternativa politica che superasse l’esclusione dall’area governativa del partito comunista e delle forze sociali da esso rappresentate.
Una tale situazione, da un lato, acuiva esigenze di riforme reali e improcrastinabili, dall’altro, creava un vuoto politico. Quelle stesse forze che venivano escluse da una mediazione e da un equilibrio politico più avanzati dovevano trovare altre strade per perseguire i propri obiettivi. E trovarono spazio per farlo presentandoli in termini generali, rispondenti cioè a esigenze di modernizzazione e di riforme necessarie a tutto il paese.
Questa costituì una premessa o precondizione politica al ciclo di lotte del 1968-1972.
Valendomi della teoria dei sistemi complessi [14], posso dire che l’erompere di una conflittualità sociale così intensa, capace di notevole espansione e durata, è spiegabile solo col concorso di fattori diversi e anche prima indipendenti tra loro. Ne cito alcuni.
– Il “neocapitalismo dei consumi” stava producendo nuovi squilibri (territoriali, di settore e infrasettoriali) e disuguaglianze sociali.
– Si erano avviate ristrutturazioni tecnico-produttive e rioganizzazioni del lavoro che riguardavano contemporaneamente tipologie industriali diverse e su differenti livelli di “mo-dernizzazione”.
– A fronte di un’economia in ripresa, il governo protraeva oltre il necessario una politica deflazionistica e riduttiva del credito, con obiettivi di riequilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro, più che per ragioni strettamente economiche.
– L’occupazione complessiva era stagnante e raggiungeva a malapena i livelli del ‘63.
– Segmenti sempre più estesi o di nuova formazione del ceto medio nell’industria e nel terziario sperimentavano un peggioramento “relativo” della condizione sociale.
– Continuava, sia pure più lentamente, l’emigrazione dal Sud al Nord. La nuova ondata si sovrapponeva a quella della seconda metà degli anni ’50 e primi anni ’60. E questa volta non si trattava solo dei lavoratori più poveri, provenienti dalle campagne, ma anche di abitanti di città o persone che avevano già fatto esperienza di emigrazione all’e-stero.
– Per i primi, come per i secondi, era perfettamente chiara la coscienza dei propri diritti sociali di cittadinanza.
– Le condizioni di vita (ambientali, abitative, igieniche) nei centri storici e nelle periferie delle città industriali erano particolarmente disagiate. Come era arretrato il livello dei trasporti e dei servizi urbani in genere.
– Gli operai comuni, costituiti per la maggior parte dai giovani immigrati dal Sud nel primo periodo, avevano già stretto alleanza con la “vecchia guardia” degli operai sindacalizzati e politicizzati. Gli immigrati della seconda ondata trovavano, da questo punto di vista, il terreno già preparato.
– Il sindacato avvertiva l’esigenza di sviluppare in maniera adeguata la propria iniziativa nella contrattazione aziendale e ciò portò in breve a nuovi modi della rappre-sentanza operaia dentro la fabbrica.
– Persisteva una frattura difficile da sanare, dovuta alla divisione della rappresentanza sindacale e politica dei lavoratori e all’esclusione pregiudiziale di una sua parte importante dalla possibilità di governare il paese.
– Sia il movimento studentesco che quello operaio avevano già sperimentato da alcuni anni nuove forme di conflittualità e stavano maturando una nuova concezione e percezione delle rivendicazioni e dei diritti (sia sociali che civili e politici).
– Stavano nascendo nuove forme di auto-organizzazione sociale, politica e culturale che tendevano a proiettarsi fuori dai luoghi di studio e di lavoro.
Tutti questi elementi, prima in gran parte distinti tra loro, conversero, s’incrociarono in vario modo.
Il fenomeno era ben visibile nell’avvio rapido e tumultuoso e in alcuni caratteri inediti che la nuova fase della conflittualità sociale mostrò fin dall’inizio.
Da questo punto di vista, uno dei primi elementi da sottolineare consiste nel carattere tutt’altro che casuale dell’interazione o addirittura del collegamento tra lotte studentesche e operaie, già nei primi anni ’60 e poi nel ’68-69. In entrambi i movimenti v’era una tensione al mutamento radicale dei modelli sociali e culturali.
L’altra caratteristica di fondo, che riguarda molto da vicino le politiche sociali, era do-vuta al fatto che, nella nuova fase della conflittualità, alle lotte per il mutamento delle condizioni di lavoro si affiancavano gli obiettivi riguardanti le riforme di struttura.
Il fronte di quelle lotte si allargò rapidamente, coinvolgendo in maniera sempre più ampia gruppi e categorie non solo di operai e non solo dell’industria, estendendosi anche geograficamente e soprattutto esprimendo in breve tempo una forte carica politica.
E fu quello, come è noto, l’inizio di un vero e proprio ciclo di lotte con un fase culminante durata dal 1968 al 1972, ma non esauritasi in breve tempo e che lasciò tracce profonde nella storia del Paese. Su quel periodo esiste una letteratura abbastanza vasta [15].
Il movimento di lotte di quegli anni ebbe, in realtà, un carattere assai composito. Il che è del resto affatto comprensibile se si tiene conto proprio di quella complessità o intreccio di fattori cui facevo prima riferimento.
Il dato economico fu certamente importante e si può facilmente concordare con chi, in termini abbastanza generali, sottolineava come esso fosse dovuto agli effetti sociali di una forte ristrutturazione capitalistica, affermatasi almeno a partire dalla metà degli anni Sessanta [16]. In termini più precisi, è certamente utile ricordare che nel periodo 1963-1969 si assistette a una mancata sinergia tra investimenti ed espansione della produzione, sicché si avviò una ristrutturazione che fece leva essenzialmente sulla riorganizzazione del lavoro. Questa ridefiniva turni, straordinari e mobilità, sottoponendo i lavoratori a più pressanti forme di sfruttamento e facendo riacquistare agli imprenditori un più ampio controllo sulla dinamica salariale. La reazione, sostanzialmente di resistenza, da parte dei lavoratori era largamente scontata: si è parlato infatti di “sciopero del lavoro” [17].
Ma accanto alle ragioni più specifiche e dirette della lotta dei lavoratori esistevano altre spinte rivendicative e ragioni di conflitto che s’intrecciavano, avviando una dinamica ancor più dirompente.
Vi era la componente delle lotte studentesche che, proprio per i suoi caratteri di rivoluzione culturale e di contrapposizione generazionale, era portatrice di spinte radicali e nettamente alternative all’assetto sociale. Altrettanto nota è la spinta che veniva dal movimento femminista. Sia pur molto brevemente, occorre ribadire che non si trattò solo di “soggetti” e movimenti che si affiancarono gli uni agli altri, rafforzandosi reciprocamente e/o creando rapporti di alleanza. Basta un’analisi appena più approfondita per vedere come alcuni modi di rivendicazione di diritti e di affermazione di valori, propri di un movimento, si ritrovassero anche nell’altro.
Meno nota, o almeno non sufficientemente sottolineata, è un’altra componente, non sottovalutabile, di quell’intreccio di fattori diversi: la spinta, anch’essa presente da tempo, ma giunta a un punto di particolare maturazione e consapevolezza, dell’affermazione della dimensione locale e regionale. Anche tale spinta portava alla rivendicazione di spazi di democrazia e a forme di socialità sinergiche rispetto alle altre.
Furono queste le caratteristiche e le ragioni per cui quel complesso movimento collettivo si dispiegò in maniera nuova, più larga e profonda, coinvolgendo e trascinando effetti di mutamento della mentalità, del costume, dei modelli di cultura. È chiaro che le alleanze, i rapporti anche specifici, determinatisi nel concreto svolgimento delle lotte, le nuove forme di coinvolgimento e potenziamento reciproco testimoniarono e ampliarono questo effetto di alone del movimento. Ma ciò che occorre sottolineare è che da questa caratteristica di complessità e molteplicità deriva il fatto che ci si trovò di fronte a lotte assai radicali, in alcuni episodi tendenzialmente eversive, con un alto tasso di poli-ticizzazione, come non si vedevano in Italia dall’immediato dopoguerra. Si trattava, in-somma, di una conflittualità tendente ad allargarsi geograficamente e nelle forze coinvolte, a riproporsi con tenacia negli obiettivi e capace di notevole durata.
Molti sono, quindi, i caratteri da analizzare in quel movimento e il discorso si allar-gherebbe. Sottolineerò solo alcuni dati.
Il ruolo centrale nell’organizzazione di quelle lotte fu svolto dalla CGIL. Come è innegabile che nel raggiungimento di alcuni importanti obiettivi di welfare fu significativa l’azione politica del partito comunista e di quello socialista.
Anche negli anni precedenti, compresi quelli di maggiore debolezza, la strategia sindacale, della CGIL in particolare, non aveva mai tralasciato di mobilitare i lavoratori nel-le lotte per le riforme. Ma soprattuto tenendo conto delle condizioni di debolezza e anche di difficoltà in cui si era trovato il sindacato nell’ultimo periodo e in particolare alla metà degli anni ‘60, sorprende ancor di più lo scatto improvviso, la forza impetuosa che la nuo-va fase conflittuale ebbe fin dall’inizio e il forte rilancio che rappresentò per la stessa ini-ziativa sindacale.
Dei fattori, al cui intreccio ho attribuito il carattere inedito e dirompente delle lotte del ’68-’72, due meritano di essere sottolineati in modo particolare. Essi, infatti, costituirono importanti punti di forza per lavoratori e sindacati.
Il primo consisté nella relativa facilità con cui la maggioranza di operai comuni, costituita in gran parte da giovani immigrati dal Sud d’Italia, si erano alleati con le aristocrazie operaie, costituite dai lavorari più anziani e qualificati, che erano spesso anche i più sindacalizzati e politicizzati.
Quell’alleanza si verificò prima e più facilmente di quanto si è soliti affermare, specie nelle grandi fabbriche delle città industriali, ma interessando anche settori più tradizionali e altre aree della produzione industriale in Italia settentrionale. Il fenomeno riguardò sia la-voratori immigrati alla fine degli anni ’50 e primi anni ’60, sia quelli della seconda ondata del ’67-’68.
Ovviamente, l’alleanza non si cementò subito, all’arrivo dei primi immigrati dal Sud. Nello stesso sindacato, all’inizio, si registrarono scetticismo e diffidenze, ma una volta gomito a gomito, nella grande fabbrica come in altre realtà lavorative, la comunanza d’interessi fu presto percepita e prevalse. Del resto, vi erano fattori oggettivi che spingevano all’intesa e alla solidarietà quei due strati di lavoratori.
La loro alleanza fu, non dico, determinata, ma certamente favorita dal processo di ristrutturazione tecnico-produttiva in atto in quegli anni in quasi tutti i comparti del settore secondario. I nuovi modi di organizzazione del lavoro che ne derivavano, non solo con-sentivano un largo assorbimento di manodopera non qualificata come quella degli im-mi-grati, ma l’ulteriore meccanizzazione di varie fasi del processo produttivo permetteva un’intensificazione dei ritmi di lavoro, una più pesante organizzazione dei turni e favoriva la diffusione del cottimo. Tutto ciò caratterizzava i modi d’impiego dell’operaio comune, ma colpiva anche e contemporaneamente gli operai qualificati, con un effetto di schiac-ciamento verso il basso e un peggioramento delle condizioni lavorative di tutti.
Il fatto che si mobilitassero, insieme, gli operai degli stabilimenti FIAT di Torino e i tessili di Valdagno, che agli scioperi partecipassero interi reparti al completo, senza distinzioni di gerarchia interna, che addirittura agli operai si affiancassero tecnici e impiegati, che gli obiettivi fossero gli stessi e ricorrenti, dipendeva appunto da quei fattori [18].
Il secondo elemento consisté nella rilevanza che finalmente fu data alla contrattazione aziendale. Non c’è qui lo spazio per ricordare, anche sommariamente, i precedenti di un annoso dibattito interno ed esterno alla CGIL, le implicazioni di strategia sindacale dovute al primato che si assegnava alla contrattazione nazionale di categoria o all’importanza che si attribuiva alla contrattazione locale e aziendale. Vi erano implicate perfino questioni teoriche, a cominciare da quella riguardante la neutralità o meno della tecnica.
Non c’è dubbio che sotto la spinta delle più recenti trasformazioni tecnico-produttive l’esigenza, già avvertita da tempo, di un’iniziativa sindacale molto più incisiva e sistematica sul piano della contrattazione aziendale fu perseguita con decisione.
Le conseguenze furono importanti: l’elezione dei delegati di reparto, i consigli di fabbrica, la loro apertura anche ai non iscritti al sindacato. Si trattava di elementi che non determinarono solo uno sviluppo della democrazia nei luoghi di lavoro e all’interno del sindacato, favorendo tra l’altro la sua ripesa organizzativa. Essi avevano almeno due effetti strategici: 1) permettevano di individuare rivendicazioni e obiettivi finalmente adeguati e corrispondenti alle trasformazioni del processo produttivo, consentendo così al sindacato di recuperare un ritardo divenuto pesante; 2) facevano guadagnare nuovi terreni d’iniziativa come quello delle condizioni ambientali, igieniche e dei problemi di salute dentro la fabbrica, problemi ben presto proiettati anche al di fuori di essa.
La crescita d’importanza della dimensione orizzontale e locale delle lotte, com-plementare e non in antitesi a quella verticale-nazionale, permetteva di collegare riven-dicazioni e obiettivi riguardanti anche le condizioni dei lavoratori fuori della fabbrica.
Il problema delle condizioni igienico-sanitarie e della salute nei luoghi di lavoro – per esempio – si poneva evidentemente anche fuori e in termini più generali [19]. Come pure si connetteva ad altri problemi, primo fra tutti quello abitativo. Tutti e due assai pressanti in particolare per i lavoratori immigrati.
Sappiamo come gli immigrati, in qualsiasi paese e periodo, pur di lavorare si sono adattati a condizioni abitative e sanitarie di grande degrado e sofferenza. Lo stesso si verificò per gli immigrati meridionali nel triangolo industriale e in altri distretti del Nord. Senonché, essi erano cittadini italiani e come tali detentori di diritti riconosciuti dalla Co-stituzione: lavoro, casa, salute, istruzione. E ciò contribuiva a caricare ulteriormente di for-za le lotte per quel genere di riforme. Le rivendicazioni di servizi e prestazioni essenziali e qualificanti dello Stato sociale si intrecciavano quindi strettamente agli obiettivi di lotta più immediatamente connessi ai rapporti e condizioni di lavoro [20].
Un elemento connettivo derivò dalla stessa connotazione fortemente egualitaria che caratterizzava le rivendicazioni più avanzate: gli obiettivi dell’inquadramento unico, della piattaforma comune tra operai e impiegati, dell’abolizione delle gabbie salariali favorivano il definirsi di un soggetto unitario, protagonista di rivendicazioni e conflitti anche fuori della fabbrica [21]. Ciò rappresentò una condizione essenziale del carattere politico assunto da molti scioperi, come quelli riguardanti, appunto, le pensioni, la casa, le 150 ore.
Credo che poche volte nella storia dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra le riforme dello Stato sociale si siano trovate così direttamente al centro di un’acuta e pro-lungata fase di conflittualità sociale. Vorrei fare solo qualche esempio.
Nel marzo ’68 vi fu lo sciopero generale per l’aumento delle pensioni.
Nell’estate del ’69 fu organizzato uno sciopero alla Mirafiori per il miglioramento delle condizioni di lavoro, che sfociò in assemblee organizzate insieme agli studenti alla Facoltà di Medicina.
Nel luglio di quello stesso anno vi fu lo sciopero generale contro il caro-affitti, organizzato dai sindacati confederali, che si concluse con i violenti scontri di corso Traiano a Torino.
Durante quelle lotte si verificarono una ripresa e uno sviluppo della capacità orga-nizzativa della CGIL e anche della CISL. Il loro impegno nelle lotte dell’autunno caldo por-tò a un’azione sempre più convergente tra esse, cui a un certo punto si unì anche la UIL [22]. Un’altra importante conseguenza fu un’autonomia maggiore delle organizzazioni sindacali dai partiti.
Tra le lotte più importanti dell’autunno caldo e del periodo immediatamente suc-cessivo, va ricordato il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che coinvolse un milione e mezzo di operai e fu caratterizzato da numerose vertenze e agitazioni nelle fabbriche. Nel dicembre del ’69 la vertenza si chiuse con il raggiungimento di importanti obiettivi: aumenti salariali uguali per tutte le categorie, settimana lavorativa di quaranta ore, particolari concessioni ai lavoratori-studenti, diritto di organizzazione di assemblee in fabbrica [23].
Si poteva dire che la leadership del sindacato fosse stata nettamente riaffermata anche a livello aziendale.
Alle lotte per il rinnovo dei contratti nazionali dei metalmeccanici seguirono quelle per il contratto dei chimici, degli edili e dei ferrovieri. E la conflittualità non riguardava solo e prevalentemente le aziende maggiori; ben presto si estese anche a quelle più piccole.
Il fronte della conflittualità sociale abbracciò importanti categorie anche del settore terziario: tecnici e impiegati di vari servizi, ma anche categorie particolari come i postini, gli insegnanti, gli infermieri, i funzionari dell’amministrazione statale. Pure nelle agitazioni di questi ultimi gruppi era ricorrente la rivendicazione di una maggiore democrazia nei luoghi di lavoro e di una maggiore efficenza delle amministrazioni nelle quali si lavorava. L’ef-fetto di alone di quelle agitazioni fu tale da coinvolgere lavoratori di piccoli esercizi: al-berghi, negozi, bar.
Ancor più importante è sottolineare come la firma dei contratti nazionali non signi-ficasse la pacificazione e il ritorno rapido della normalità nelle fabbriche.
Nell’autunno del ’70 si assisté a un’altra serie importante di lotte. In non pochi casi l’iniziativa partì dal livello di fabbrica per assumere proporzioni più ampie. Tra gli obiettivi ricorrenti vi era l’abolizione della categoria più bassa degli operai, l’inquadramento unico e l’adozione di un’unica scala salariale per gli operai e gli impiegati. Diffusione sempre maggiore acquistavano le rivendicazioni di maggiore rappresentatività e democrazia nelle aziende [24].
Tra il ’70 e il ’71 prima la CGIL e poi gli altri sindacati spinsero in maniera decisa per l’organizzazione dei consigli di fabbrica. Questi consentivano un allargamento della rap-presentanza dei lavoratori, con un maggior numero di delegati, e un sensibile aumento della loro capacità contrattuale all’interno delle aziende. Il risultato fu anche quello di legami più stretti tra la massa dei lavoratori e i sindacati [25].
Nel giro di pochi anni questi videro aumentare notevolmente il numero dei propri iscritti. La CGIL passò da 2.420.430 iscritti nel 1967 a 3.435.405 nel 1973, la CISL, negli stessi anni, passò da 1.515.306 a 2.214.199 [26].
Non vi è dubbio che sull’andamento delle lotte influissero anche i rapporti di forza politici. Le elezioni del 1968 avevano visto una DC sostanzialmente stazionaria con il 39,1%; il PCI raggiunse il 26,9%; il PSIUP ottenne il 4,4%; mentre il PSU, con il 14,5% registrava un calo rispetto ai risultati complessivi ottenuti da PSI e PSDI nelle elezioni precedenti [27].
Nel periodo 1968-1972 si succedettero una serie di governi di centro-sinistra, in realtà con poche ambizioni e scarsa efficienza. La formula era ormai svuotata di un effettivo contenuto riformatore. Il fallimento del disegno di modernizzazione aveva dimostrato tutti i limiti di una cultura della programmazione.
A tutto ciò si aggiungevano i forti limiti di organizzazione e funzionalità dell’apparato dello Stato, la cui mancata riforma privava di strumenti essenziali. Anche da questo punto di vista, si riproponeva un difetto storico della politica italiana consistente nella “debolezza nell’organizzazione efficiente di grandi processi decisionali e amministrativi” [28].
Tuttavia, la grande mobilitazione che vi era stata per le riforme sociali, le ri-vendicazioni che in proposito erano state avanzate da organizzazioni e associazioni in varia misura collegate anche ai partiti di governo, incalzarono il PSI e la stessa DC a trovare un livello di mediazione politica minimamente accettabile.
Questa esigenza s’incontrò con quella, divenuta improrogabile, di attuazione dell’or-dinamento regionale e di rafforzamento delle autonomie locali. La legge del 1970 istituiva finalmente le regioni a statuto ordinario.
Il movimento collettivo aveva espresso una forte spinta anche verso il decentramento. Nelle stesse richieste di servizi e prestazioni sanitarie e assistenziali, nonché di riforma fiscale, erano emerse ripetutamente rivendicazioni di trasferimento alle comunità locali, e quindi ai cittadini e alle loro rappresentanze, dei compiti di indirizzo e gestione di politiche pubbliche in modo da poter effettivamente corrispondere alla domanda sociale.
Più in generale, si andava affermando una nuova concezione delle rivendicazioni e dei diritti che riguardava sia quelli sociali sia quelli civili e politici. Ciò spiega anche la mobilitazione che condusse alla legge sul divorzio nel 1970 e poi alla vittoria nel refe-rendum del 1974. Sullo stesso versante, com’è noto, seguirono altre importanti conquiste: la riforma del diritto di famiglia nel 1975, l’estensione del voto ai diciottenni e, nel 1979, la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. Questi fatti inducono a sottolineare l’ef-fetto importante e duraturo che il movimento iniziato nel 1968 continuò ad avere sul piano culturale, del costume, della laicizzazione di atteggiamenti politici. Nell’intreccio di spinte e fattori diversi, che abbiamo più volte sottolineato, le rivendicazioni proprie del movimento femminista finirono col corrispondere a istanze di modernizzazione improcrastinabili in una società a capitalismo maturo. Inoltre, è importante notare che per quelle vie si creavano spazi di consapevolezza e azione politica utili anche a collegare le istanze collettive all’e-spressione di bisogni privati [29].
Da considerare invece come più strettamente connesse alle lotte dei lavoratori furono le principali rivendicazioni attinenti ai diritti di cittadinanza sociale. Da questo punto di vista, la più importante conquista di quegli anni fu la riforma pensionistica del 1969. Il modo in cui si giunse a quel provvedimento fu tipico del rapporto di forte pressione dal basso che si era stabilito tra azione sindacale e politica governativa. Lo sciopero generale del 7 marzo 1968, cui accennavo poc’anzi, non era stato solo il culmine di una lunga e tenace azione rivendicativa; esso fu provocato anche dalla delusione per i limiti della legge del 18 marzo 1968 [30]. Nonostante alcuni elementi innovativi introdotti nel provvedimento, deludeva il suo carattere approssimativo e improvvisato. Si trattava, infatti, di una ennesima legge-ponte dai chiari intenti elettoralistici: basti pensare che nel primo articolo il governo chiedeva un’ulteriore proroga per l’attuazione di una serie di provvedimenti già previsti da una leg-ge delega del 1965. La delusione spinse alla continuazione e al rafforzamento della pres-sione sindacale, fino al nuovo sciopero generale del 5 febbraio 1969. Alla fine, fu questa pressione, congiunta alla determinazione del ministro socialista Giacomo Brodolini e al sostegno dello stesso partito comunista, che riuscì a operare la svolta [31].
La nuova legge prevedeva che dopo quarant’anni di lavoro si potesse ricevere il 74% del salario medio degli ultimi cinque anni. Era prevista anche l’indicizzazione delle pensioni in base al costo della vita. E si stabiliva una pensione sociale per tutti i cittadini al di sopra dei 65 anni, privi di altre forme di reddito. Il criterio era quello di devolvere ai soggetti titolari del diritto alla pensione tutto il capitale contributivo raccolto tra la popolazione attiva. Poco dopo veniva stabilita la pensione di anzianità per lavoratori con 35 anni di contributi e, in casi particolari, anche molto meno [32]. Nel giro di pochi anni, però, quel meccanismo si dimostrò fragile e insidiato dalla restrizione della base contributiva [33].
Un’altra importante conquista di quel periodo fu lo Statuto dei lavoratori (1970). Esso fu il frutto sia delle importanti e insistite rivendicazioni in fatto di democrazia, diritti sindacali e mutamento dei rapporti tra capitale e lavoro, sia dell’azione parlamentare dei partiti di sinistra [34].
Tra i più rilevanti diritti riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori vi era quello di assemblea all’interno dei luoghi di lavoro, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali, la tutela da lavori pericolosi, il divieto di licenziamenti non giustificati.
Uno strumento destinato a un largo impiego negli anni successivi riguardò la Cassa integrazione guadagni. Riprendendo un provvedimento fascista, la legge del 1968 auto-rizzava la cassa integrazione per interventi in casi di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro dovute a crisi economiche o a ristrutturazioni aziendali. L’integrazione, pari all’80% del salario, poteva essere rinnovata più volte. Dal 1972 fu possibile estendere la copertura a tempo indeterminato. Invece, nel caso di disoccupazione di lungo periodo, tanto da non poter essere collegata a un precedente lavoro, l’assegno di disoccupazione era irrisorio. La lacuna era tanto vistosa da contribuire, per la sua parte, al patologico e clientelare dilagare delle pensioni di invalidità [35].
Anche la riforma della casa (legge dell’ottobre 1971) era il frutto di lotte sindacali. Nel novembre del 1969 era stato indetto uno sciopero generale sul problema delle abi-tazioni e le Confederazioni del lavoro avevano svolto trattative col governo protrattesi per tutto il 1970 e 1971 e inframezzate da altri scioperi [36].
La legge prevedeva la competenza di regioni ed enti locali nell’edilizia pubblica, l’espropriazione di aree di pubblica utilità e un nuovo piano di costruzioni. Ma si dimostrò molto farraginosa e di difficile applicazione [37].
Le altre iniziative dei sindacati per provvedimenti significativi in ambito sanitario, scolastico e dei trasporti ebbero minor successo e non raggiunsero alcuno sbocco.
La riforma fiscale conobbe qualche progresso con l’introduzione nel 1971-1973 della tassazione progressiva riguardante l’intera popolazione lavoratrice, ma i termini erano tali da consentire, come si vide presto, fenomeni di evasione o elusione da parte dei lavoratori autonomi.
L’obiettivo in gran parte mancato di un riforma fiscale adeguata pesò in modo determinante sull’evoluzione del welfare italiano. È stato giustamente sottolineato che il carattere più o meno avanzato di un sistema di welfare e la sua efficienza sono stret-tamente connessi al sistema fiscale e che questo “è lo specchio principale del funzio-namento in ciascun paese del rapporto cittadino-istituzioni” [38].
Possiamo aggiungere che la mancata riforma fiscale si collegava a un’altra difficile ri-forma: quella dello Stato e della pubblica amministrazione. E questa era certamente la prima ragione del deficit pubblico, cui concorrevano, però, anche l’esposizione della spesa nel settore troppo ampio delle partecipazioni statali. Ma una parte crescente l’avevano le spese sociali che, impostate e gestite nei modi cui accennavo, erano soggette a facili sprechi.
Traendo le somme dei diversi approdi legislativi, si può dire che il riformismo go-vernativo negli anni ’68-’72 fu il più attivo nella storia della Repubblica, proprio perché in gran parte sostenuto da una forte spinta dal basso e da una sistematica azione sindacale.
L’impostazione sindacale delle lotte e delle trattative con il governo non sempre né facilmente s’intrecciarono e conversero in modo sinergico con le iniziative politico-parlamentari anche dei partiti di sinistra. Quei risultati tuttavia si possono considerare il massimo frutto possibile della mediazione politica in quelle circostanze. Possiamo dire che, da un lato, essi erano più avanzati rispetto agli equilibri del sistema di alleanze sociali e politiche sviluppatosi fino al ’68, mentre, dall’altro, erano certamente sottodimensionati rispetto alle spinte espresse dal movimento collettivo e al clima sociale e politico maturato tra il ’68 e il ’72 [39].
La CGIL, con l’apporto delle altre confederazioni, svolse un ruolo rilevante riuscendo abbastanza presto a valersi delle rivendicazioni dei movimenti spontanei e auto-organizzati e a convogliarne in qualche modo la spinta. La sua azione fu certamente sostenuta dal PCI e dal PSI, specie dai socialisti maggiormente delusi dall’esperienza del centro-sinistra e più legati al sindacato. Essi, infatti, svolsero un ruolo tutt’altro che secondario nel-l’approdo legislativo della riforma pensionistica e nel varo dello Statuto dei lavoratori.
Le organizzazioni sindacali uscivano da quella straordinaria prova con un allargamento significativo della propria base, la creazione di istituti e spazi reali di democrazia nei luoghi di lavoro e con la consapevolezza di aver svolto un ruolo determinante in riforme che consentivano una maggiore giustizia sociale. Tutto sommato non era poco per un bilancio di cinque anni.
Ho sottolineato il carattere straordinario della conflittualità sociale negli anni 1968-1972 e il peso che ebbe nella storia della società e della vita politica del Paese. Sono convinto che quella è da considerare come la fase culminante e critica di un processo di crisi e trasformazione della società italiana iniziato già alla fine degli anni Cinquanta e contrassegnato da elementi profondamente innovativi. Ma mi è difficile concordare con la rappresentazione di un processo di grandi mutamenti dispiegatosi in modo progressivo e lineare per più di un quindicennio e poi interrotto dalla crisi dei primi anni Settanta. Quasi che senza tale crisi sia postulabile un processo di modernizzazione della società italiana affatto coerente e compiuto.
Non sottovaluto certo la dinamica e la forza dirompente di quel processo, ma esso fu contenuto e fortemente condizionato dai limiti propriamente storici di un blocco sociale e di un sistema politico dalla cui morfogenesi non si poteva prescindere.
Ma a quelle considerazioni ne va aggiunta un’altra. Il fatto che non si riuscì, dalla fine della guerra a quasi tutti gli anni Sessanta, nemmeno con l’esperienza del centro-sinistra, ad avviare una politica di riforme promossa dal governo, e che conquiste di un qualche rilievo nelle politiche sociali furono strappate solo grazie a una conflittualità sociale alta, è molto eloquente. Quei risultati furono il frutto di un movimento antagonista e di una lunga battaglia sindacale che trovò sostegno nell’azione politica dei maggiori partiti di sinistra e in una parte del movimento cattolico.
Tutto ciò rendeva ancor più evidente un’altra particolarità del caso italiano. Essa consisteva nell’assenza di un patto sociale stipulato all’indomani della seconda guerra mondiale. In altri paesi le basi più profonde del “compromesso keynesiano” tra sviluppo economico e allargamento della democrazia (accompagnato dalla creazione di una solida rete di protezione sociale) poggiavano sulla rinegoziazione di un patto sociale che aveva consentito di rinnovare e rinsaldare il rapporto tra Stato e cittadini [40].
Nel nostro paese ciò non era stato possibile per quattro gravi cesure. La prima era stata provocata dalla spaccatura istituzionale e politica tra Nord e Sud nella crisi del ’43-’45. La seconda era dovuta all’imbrigliamento dei risultati politici del movimento di li-berazione. La terza riguardava la dura reazione, opposta con ogni mezzo, al movimento contadino e operaio nel Mezzogiorno e nella Valle Padana. La quarta derivava dalle di-visioni di Yalta e dall’esclusione del partito comunista e di buona parte delle classi la-voratrici dalla possibilità di concorrere al governo del paese.
Date quelle premesse, non si vede in quali termini si potessero concepire un allargamento effettivo della democrazia e un’espressione compiuta dei diritti di cit-tadinanza sociale.
Ciò nulla sottrae al peso e alle gravi conseguenze della crisi economica e sociale apertasi nei primi anni Settanta.
Essa investì pure l’Italia in modo severo. Anche nel nostro paese si verificò un periodo di recessione protratta, intervallata sì da brevi riprese, ma con una parabola discendente inequivoca. Recessione accompagnata da un tasso d’inflazione par-ticolarmente alto e difficile da rimettere sotto controllo. In quelle condizioni, a crescere fu quasi esclusivamente il settore sommerso dell’economia; mentre si assisteva a un forte aumento del disavanzo pubblico (con una spesa che dal 38% del PIL nel 1970 passò al 43,5% nel 1973, per giungere poi al 55% nel 1982) [41].
Indubbiamente, il fatto che a crescere fu soprattutto il settore sommerso del-l’economia non favorì certo un progresso ulteriore delle conquiste raggiunte nella re-golazione dei rapporti di lavoro. Inoltre, l’aumento del disavanzo pubblico oppose ulteriori ostacoli e difficoltà all’attuazione di politiche sociali.
La crisi mostrò anche come conquiste ottenute sulla base di una forte azione ri-vendicativa dal basso potevano consolidarsi e svilupparsi ulteriormente solo col man-tenimento di rapporti di forza favorevoli. Quando questi mutarono a favore degli im-prenditori, a seguito della crisi economica e delle risposte che a essa diedero sia gli imprenditori che il governo, la spinta a una politica di riforme rallentò notevolmente.
È utile, quindi, vedere i limiti propri delle trasformazioni che interessarono l’economia e la società italiana nel periodo ’58-’72 e i loro risvolti politici.
Il sindacato svolse una funzione surrogatoria, premendo per una politica di riforme che mancava, ma quella funzione aveva dei prezzi, perché diventava sostitutiva anche rispetto ad azioni e compiti più propri del sindacato. Inoltre, una lotta sindacale può essere tanto radicale e carica di valenze politiche da spingere verso la messa in discussione dei rapporti sociali, ma perché questi si modifichino occorrono una lotta e un esito propriamente politici. Quindi l’azione del sindacato fu incisiva, ma con dei limiti: i risultati non potevano che essere parziali.
Questo va detto anche rispetto a interpretazioni che hanno assegnato alle lotte sin-dacali un peso determinante nelle realizzazioni del welfare state.
Per il caso italiano e il periodo preso in esame, attribuisco anch’io al sindacato un peso notevole e un ruolo primario nel raggiungere risultati di politica sociale. Tuttavia, come non vedere in quegli stessi risultati anche i limiti del modo in cui si erano raggiunti? Limiti di un concorso insufficiente da parte delle forze politiche e quindi con uno sbocco meno compiuto e solido di quello che poteva scaturire da una sintesi che, alla fine, si fosse realizzata anche sul piano politico.
Tra il ’73 e il ’76 i sindacati furono costretti alla difensiva. I problemi principali derivavano dall’inflazione, che erodeva le conquiste salariali ottenute, e da una disoc-cupazione sempre più preoccupante. Infatti, alla chiusura delle fabbriche dovuta alla recessione e alla crisi dei profitti si aggiungevano gli effetti di una sempre più frequente delocalizzazione all’estero delle attività produttive.
L’accordo sulla contingenza, raggiunto dalle organizzazioni sindacali nel ’75, poteva sì essere presentato come una conquista significativa, ma già rispondeva a una logica eminentemente difensiva. La protezione di salari e stipendi dei lavoratori dipendeva anche da altri fattori, a cominciare dall’evoluzione dei rapporti di forza tra organizzazioni dei lavoratori e imprenditori. E non c’è dubbio che questi riguadagnarono rapidamente terreno, a partire dal ristabilimento della loro piena autorità all’interno delle fabbriche [42].
La crisi economica erodeva ulteriormente i margini d’intervento per la legislazione sociale. In quelle condizioni, riuscivano quindi ancor più facili l’azione di freno e il condizionamento dovuti alle componenti più conservatrici della DC e dei partiti go-vernativi.
Tuttavia, l’esigenza di proseguire sulla strada delle riforme, rispondente ai bisogni effettivi di larga parte della popolazione, le insoddisfazioni per una politica economica governativa che riproponeva le abituali ricette restrittive e che, unita alle risposte degli imprenditori alla crisi dei profitti, aggravava la disoccupazione, non mancarono di farsi sentire. Esse contribuirono a un netto spostamento elettorale a sinistra: nelle regionali del ’75 il PCI raggiunse il 33% dei voti, il PSI il 12%, la DC scese al 35%. Lo spostamento fu confermato nel 1976: il PCI raggiunse il 34,4%, il PSI il 10%, la DC risalì fino al 38,7%, che sembrava però un limite non più valicabile [43].
Il partito di maggioranza non poteva non tener conto di questi fatti e rispondere in termini antagonistici alla politica di compromesso storico che il PCI aveva teorizzato già a partire dal ’73 e che riproponeva nel ’76 a fronte delle nuove condizioni politiche. Si inaugurò quindi la stagione dei governi di unità nazionale, durata dal ’76 al ’79.
Sul piano della riforma dello Stato il risultato fu di un più consistente trasferimento di poteri alle Regioni, in base alla legge 382 del ’75, in realtà attuata nel ’77 dopo una lunga battaglia parlamentare. Battaglia che, non c’è da meravigliarsi, vide in prima fila i partiti di sinistra, ma cui concorsero quei gruppi cattolici e liberaldemocratici che da tempo so-stenevano l’esigenza, più che matura, di por mano all’ordinamento regionale.
È tuttavia significativo che anche questa battaglia giungesse a coronamento di un lungo processo di mobilitazione e rivendicazioni del movimento collettivo a favore del decentramento alle comunità locali dell’indirizzo e della gestione di politiche pubbliche che potessero rispondere meglio ai bisogni sociali.
Questa esigenza era stata espressa ripetutamente dopo la legge istitutiva delle Regioni del 1970 anche con specifico riferimento alle deleghe in materia sanitaria e dell’assistenza sociale. Solo la miopia dei partiti moderati e della Confindustria aveva impedito di vedere come su questo terreno sarebbe stato possibile scaricare una parte delle tensioni sociali accumulatesi in quegli anni.
In fatto di politica economica, era interesse avvertito anche da parte della grande industria cercare il sostegno del PCI e dei sindacati per far fronte ai problemi posti dalla crisi. Al congresso dell’EUR nel febbraio del ’78, fu approvata la linea proposta da Luciano Lama, favorevole a una limitazione dei salari, a un aumento della produttività e a una maggiore mobilità operaia in cambio della riduzione della disoccupazione e di una maggiore attenzione ai problemi del Mezzogiorno.
Fu concordata una parziale sterilizzazione della scala mobile e furono raggiunti accordi aziendali su mobilità e produttività. Ciò contribuì a un calo dell’inflazione e a un aumento delle esportazioni, con una parziale ripresa [44]. Ma il sindacato ottenne ben poco in fatto di disoccupazione e politiche per il Mezzogiorno.
Si ripropose il problema della casa. Infatti, dopo una parziale risposta rappresentata dalla legge del ’71 (su edilizia pubblica, poteri agli enti locali, equo canone negli enti pubblici) che aveva avuto un’applicazione difficile e limitata, furono varate tre leggi: nel gennaio ’77 sull’edificabilità dei suoli; nel luglio ’78 sull’equo canone anche nell’edilizia privata; nell’agosto dello stesso anno sul piano per l’edilizia residenziale.
Nel 1975 fu rafforzata la tutela pensionistica con una duplice indicizzazione: in ri-ferimento al costo della vita e alla dinamica salariale del secondo settore. Il provvedimento, che in prima istanza riguardava i dipendenti privati, successivamente fu esteso al settore pubblico [45].
Nel dicembre ’78 venne finalmente approvata la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale [46].
Come sappiamo, prima di essa l’assistenza sanitaria era affidata a una congerie di enti assistenziali che provvedevano a diversi strati di lavoratori dipendenti, pubblici e privati, e di casse mutue di agricoltori, commercianti e artigiani, nonché ad altri enti minori per gruppi particolari.
La riforma del 1978 era frutto di tre dinamiche: 1) la politica di decentramento basata sui trasferimenti di poteri alle Regioni; 2) le proteste del movimento collettivo contro gli interessi di un sistema assicurativo-sanitario caratterizzato da una grande commistione di pubblico e privato; 3) il progressivo e rapido degrado degli enti mutualistici fino al loro collasso finanziario (solo temporaneamente tamponato dalla legge Mariotti del 1968) [47].
Le caratteristiche principali del nuovo sistema riguardavano: il criterio universalista delle prestazioni; il sistema di finanziamento misto, basato sui contributi previdenziali dei lavoratori dipendenti, integrati da quelli versati (in misura ridotta) dai lavoratori autonomi e integrati da finanziamenti perequativi dello Stato; l’uguaglianza del trattamento; il principio di prevenzione; la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Allo Stato erano affidati compiti di programmazione nazionale. Alle Regioni erano riconosciuti i maggiori poteri: legislazione e programmazione degli interventi, gestione e controllo della spesa, investimenti, programmazione e gestione del personale. Alle USL, enti territoriali comunali o di quartiere nelle grandi città, erano affidati i compiti operativi.
Il SSN divenne operativo solo nel 1980. Esso provvedeva ai diversi aspetti dell’assistenza sanitaria per tutti i cittadini, con prestazioni di carattere universalistico. Tuttavia, anche quella legge non riuscì a raddrizzare gli squilibri tra Nord e Sud e incontrò vari insuccessi e problemi, dovuti a sprechi e lottizzazioni [48].
La quasi-partecipazione dei comunisti ai governi di solidarietà nazionale non portò a riforme di struttura e profondi correttivi. Ci si scontrò ancora con limiti dovuti alla struttura di fondo dei rapporti sociali e alle costanti del sistema politico.
Il sindacato era sulla difensiva per la crisi economica e per aver puntato, in maniera illusoria, su accordi “protettivi” delle condizioni e dei rapporti di lavoro.
Ma, proprio per questi motivi, non si può parlare di un movimento di protesta e mobilitazione sociale che, partito dal ’68-’69, sarebbe stato fermato solo da due fattori esterni: il terrorismo e una inadeguata mediazione politica delle organizzazioni sindacali e dei partiti di sinistra.
Per ciò che riguarda il terrorismo, è indubbio il pesante condizionamento che esercitò sulla vita politica del paese, ma occorre anche ricordare la grande e ripetuta mobilitazione di massa che si ebbe in difesa delle istituzioni democratiche. Quanto alla mediazione politica del sindacato e della sinistra, essa incontrò indubbie difficoltà nel rispondere a spinte e contraddizioni che, nella situazione data, specie negli anni ’70, non era facile risolvere sul piano dei rapporti sociali.
Bisogna in ogni caso ammettere che nel periodo ’75-’78 si ebbe un insieme di iniziative e anche di risultati confrontabili solo con quelli del ’69-’73.
Alcune di quelle leggi volevano essere effettivamente correttive, ma furono disattese. I motivi erano, ancora una volta, da ricercare nei caratteri della struttura sociale e del sottosistema economico, nei condizionamenti e nelle opposizioni di forze politiche moderate e di importanti gruppi imprenditoriali, nonché negli inveterati difetti e insufficienze nel funzionamento dello Stato e dell’amministrazione pubblica.
Tuttavia, alla fine degli anni Settanta e grazie alle riforme maggiori, attuate nel 1969-1972 e nel 1976-1979, l’Italia si era dotata di un più adeguato sistema di sicurezza sociale, anche se con limiti e risultati parziali.
Molte realizzazioni si ottennero sul piano locale. Le amministrazione locali nelle regioni rosse e/o in importanti Comuni, già prima ma ancor meglio dopo la legge del ’75 che introduceva una nuova articolazione dei compiti tra Stato, Regioni e Comuni, realizzarono aspetti importanti di una politica di welfare. Strutture educative per l’infanzia e parascolastiche, trasporti, edilizia economica e popolare, salvaguardia e risanamento dei centri storici, conservazione del verde e servizi urbani furono risultati decisamente migliorativi della qualità della vita dei cittadini. La buona amministrazione locale aveva anche un effetto non secondario nel favorire migliori prestazioni e qualità dei servizi previsti dalle leggi nazionali: ad esempio nel determinare il livello della sanità pubblica.
Tuttavia, di fronte al riproporsi di resistenze e condizionamenti della politica nazionale, i comunisti trassero le conseguenze dal bilancio limitato del loro appoggio al governo e, all’inizio del ’79, passarono alla politica di alternativa democratica.
Il ventennio si chiudeva, emblematicamente, con una politica di ristrutturazioni più dura nei luoghi di lavoro, accompagnata da licenziamenti in massa. Ancora una volta, il segnale partì dalla FIAT che nel settembre 1980 annunciò la cassa integrazione per 24.000 operai. Era previsto che solo la metà di questi tornasse a lavorare dopo 15 mesi. Altri 14.000 operai furono licenziati subito. Iniziò così un aspro scontro che, un mese dopo, vide per la prima volta una grossa manifestazione di dirigenti, capisquadra, impiegati e operai che si schierarono contro lo sciopero. Quella “marcia” chiudeva tutto un periodo di lotte e di riforme fortemente volute, rivendicate da un movimento collettivo che aveva espresso anche una nuova concezione della cittadinanza sociale.

NOTE
1- Tra i molti studi sull’esperienza del centro-sinistra, cito sinteticamente C. Di Toro – A. Illuminati, Prima e dopo il centro-sinistra, Roma, Ideologie, 1970; G. TAMBURRANO, Storia e cronaca del centro-sinistra, Milano, Rizzoli, 1971; F. TADDEI, I partiti all’appuntamento del centro-sinistra, in Storia della società italiana, XXIV, Milano, Teti, 1990.
2- Per il dibattito interno al mondo cattolico, che precedette e preparò quell’alleanza, si veda il Pri-mo Congresso nazionale di studio sulla Democrazia Cristiana, San Pellegrino Terme, 13-16 settembre 1961, Roma, 1961. Si vedano, quindi, gli Atti dell’VIII Congresso nazionale della DC, Roma, 1963 e quelli del XXXV Congresso Nazionale del PSI, Roma, 25-29 ottobre 1963, Milano, 1964. Si confrontino, inoltre, le considerazioni di R. LOMBARDI, Riforme e rivoluzione dopo la seconda guerra mondiale, in Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea, a cura di G. QUAZZA, Torino, Einaudi, 1977. Per quanto riguarda il PCI, è molto interessante l’ampia raccolta di documenti P. TOGLIATTI, Scritti sul centrosinistra, Firenze, Istituto Gramsci – Cooperativa Editrice Universitaria, 1975.
3- Cfr. R.MORANDI, Democrazia diretta e riforme di struttura, Torino, Einaudi, 1975; P. GINSBORG, Le riforme di struttura nel dibattito degli anni Cinquanta e Sessanta, in “Studi storici”, 1992, 2-3 , pp. 653-668; F. DE FELICE, Nazione e sviluppo. Un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, II, 1, Torino, Einaudi, 1995.
4- Sul tema specifico si vedano, tra l’altro, COMITATO DI STUDIO PER LA SICUREZZA SO-CIALE, Per un sistema di sicurezza sociale in Italia, Bologna, il Mulino, 1965; S. DELOGU, Sanità pubblica, sicurezza sociale e programmazione economica, Torino, Einaudi, 1967; F. REVIGLIO, Saggio sulla sicurezza sociale in relazione allo sviluppo economico, Milano, Giuffrè, 1967; I servizi sociali tra programmazione e partecipazione, Angeli, Milano, 1976.
5- Per alcuni passaggi chiave del discorso programmatico di Amintore Fanfani, si vedano gli Atti Parlamentari [d’ora in poi AP], Camera dei Deputati, legislatura III, Discussioni, XXVIII, pp. 27612 e seguenti.
6- Sul programma del primo governo Moro si vedano gli AP, Camera dei Deputati, Legislatura IV, Discussioni, IV, tornata del 12 dicembre 1963, pp. 3952-3964.
7- 7 Nota presentata al Parlamento dal ministro al Bilancio, On. Ugo La Malfa, 22 gennaio 1962, in MINISTERO DEL BILANCIO, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano, Roma, 1962, ristampata come Nota aggiuntiva su problemi e prospettive dello sviluppo economico e della programmazione in Italia, Roma, 1973.
8- A. GIOLITTI, Esposizione economica e finanziaria pronunziata al Senato della Repubblica il 28 aprile 1964, Roma, Istituto Poligrafico dello stato, 1964. Per i documenti riguardanti la programmazione economica si vedano i volumi pubblicati dal MINISTERO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, La programmazione economica in Italia, Roma, 1967. Sulle diverse posizioni in tema di programmazione, si vedano C. Napoleoni, Squilibri economici e programmazione in Italia, in “La Rivista trimestrale”, 1962, 3, pp. 199-212; G. FUÀ – P. SYLOS LABINI, Idee per la programmazione economica, Bari, Laterza, 1963; G. AMENDOLA, Classe operaia e programma-zione democratica, Roma, Editori Riuniti, 1966; S. LOMBARDINI, La programmazione. Idee, espe-rienze, problemi, Torino, Einaudi, 1967; G. RUFFOLO, Rapporto sulla programmazione, Bari, La-terza, 1973. Sulle posizioni sostenute al riguardo dal sindacato si vedano i documenti prodotti dalle due maggiori organizzazioni: CGIL e programmazione economica, Roma, Editrice Sindacale Italia-na, 1964; La CISL e la programmazione dello sviluppo, Roma, 1964. Si veda anche lo studio di V. VALLI, Programmmazione e sindacato in Italia, Milano, Angeli, 1970.
9- Le linee-guida di quella politica sono esposte da G. CARLI, L’azione monetaria per la ripresa degli investimenti e i suoi limiti, in “Bancaria”, 1964. Per una posizione nettamente critica, cfr. C. NAPOLEONI, Salari e politica sindacale nella relazione di Carli, in “La Rivista Trimestrale”, 1963; F. INDOVINA, La linea di politica economica del Governatore Carli, in “Problemi del Socialismo”, 1963.
10- La definizione, com’è noto, è di M. PACI, che ne spiega le ragioni in vari lavori: si veda, tra gli altri, Il sistema italiano di welfare fra tradizione clientelare e prospettive di riforma, in Welfare State all’italiana, a cura di U. ASCOLI, Bari, Laterza, 1984.
11- Si vedano, tra gli altri: G. RUFFOLO, Riforme e controriforme, Bari, Laterza, 1975; A. ARDIGÒ, Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980; D. PRETI, Uno Stato sociale senza riforme, in “Italia contemporanea”, 1992, 176.
12- Si confrontino, in proposito, i dati e le considerazioni di P. SYLOS LABINI, Saggio sulle classi sociali, Bari, Laterza, 1975.
13- Ibid., pp. 83-90 e passim.
14- Sull’utilità del riferimento ai sistemi complessi nelle scienze sociali e in particolare sui vantaggi metodologici che possono derivarne nell’analisi storica, si veda I. MASULLI, La storia e le forme, Roma, Editori Riuniti, 1991, capp. V e VI.
15- Tra i tanti lavori, mi limito a ricordare la sistematica analisi fatta in Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972), a cura di A. PIZZORNO, Bologna, il Mulino, 1974-1978, l’interpretazione di A. GIGLIOBIANCO – M. SALVATI, Il maggio francese e l’autunno caldo italiano: la risposta di due borghesie, Bologna, il Mulino, 1980, il saggio di S. TARROW, I movimenti degli anni ’60 in Italia e Francia e la transizione al capitalismo maturo, in “Stato e mercato”, 1984, 12. Si vedano, inoltre, i recenti contributi pubblicati con il titolo Millenovecentosessantanove, in “Parolechiave”, 1998, 18.
16- S. TARROW, Democrazia e disordine, Roma-Bari, Laterza, 1987.
17- M. SALVATI, Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Milano, Garzanti, 1984, pp. 96 e seguenti.
18- Sui caratteri e le vicende di quell’intensa conflittualità si vedano, innanzitutto, le considerazioni e i riferimenti bibliografico-documentari di V. FOA, Sindacati e lotte operaie (1943-1973), Torino, Loescher, 1976, pp. 160- 234. Sulle lotte nelle maggiori fabbriche si vedano i documenti e i saggi pubblicati in “Classe”, 1970, 2, in particolare: E. PIETROPAOLO sulla Pirelli (pp. 67-134), G. PUPILLO sulla Marzotto (pp. 37-56) e la raccolta documentaria Le lotte alla Fiat (pp. 153 e seguenti). Sempre sulla Fiat, sono da menzionare E. GUI – E. GUIDI, La contrattazione aziendale alla Fiat, in “Rassegna sindacale”, 1-5 maggio 1968; V. RIESER, Cronaca della lotta alla Fiat, in “Quaderni piacentini”, 1969, 38. Sulle lotte di Valdagno vanno ricordati anche L. MENEGHELLI, La collera che abbatte le statue, in “Rassegna sindacale”, 1-5 maggio 1968; T. MERLIN, Avanguardia di classe e politica delle alleanze, Roma, Editori Riuniti, 1969. Ancora sulla Pirelli, cfr. M. SCLAVI, Lotta di classe e organizzazione operaia, Milano, Mazzotta, 1974.
19- Cfr. L’ambiente di lavoro, a cura di G. MARRI – I. ODDONE, Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1967; G. GUIDI – A. BRONZINO – L. GERMANETTO, Fiat, struttura aziendale e organizzazione dello sfruttamento, Milano, Mazzotta, 1974; A. DINA, Un’esperienza di movimento politico di massa: le lotte interne alla Fiat (fine giugno ’68 – giugno ’69), in “Classe”, 1970, 2, pp. 133-150.
20- La particolare percezione che i lavoratori immigrati avevano delle contraddizioni riguardanti le condizioni di vita, oltre che di lavoro, favoriva la consapevolezza sindacale e politica di molti di loro. Su questi particolari aspetti cfr. M. PACI, Migrazioni interne e mercato capitalistico del lavoro, in “Problemi del socialismo”, 1970, 47; R. AGLIETA – G. BIANCHI e P. BRANDINI-MERLI, I delegati operai, Roma, Coines, 1970; G. BAGLIONI, Sindacalismo e protesta operaia, Milano, Angeli, 1973.
21- Cfr. G. GOZZINI, Le interpretazioni, in Millenovecentosessantanove, …, cit., p. 43.
22- Si veda, in proposito, la ricostruzione delle principali tappe di quel processo fatta dalla CGIL, L’unità sindacale, in “Quaderni di rassegna sindacale”, 1971, 29; e l’intervista a L. LAMA, Dieci anni di processo unitario, ibid.
23- Sulle richieste e i risultati della vertenza contrattuale dei metalmeccanici del 1969, cfr. Movimento sindacale e contrattazione collettiva,1945-1971, Milano, Angeli, 1973, pp. 149-162.
24- Sulle lotte complessive del periodo, si vedano G. GIUGNI, L’autunno caldo, in “il Mulino”, 1970, 207; ID., Gli anni della conflittualità permanente, Milano, Angeli, 1976; I. REGALIA – M. REGINI – E. REYNERI, Conflitti di lavoro e relazioni industriali in Italia. 1968-1975, in Conflitti in Eu-ropa. Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ’68, a cura di C. CROUCH – A. PIZZORNO, Milano, ETAS Libri, 1977, pp. 1-74; R. ANTINOLFI, La crisi economica italiana,1969-1973, Bari, De Donato, 1974.
25- Sulle nuove organizzazioni di base, si vedano A. AGOSTI, Documenti per una discussione sui delegati operai, in “Classe”, 1970, 2, pp. 243-276; S. GARAVINI, Le nuove strutture democratiche in fabbrica e la politica rivendicativa, in “Problemi del socialismo”, 1970, 43; T. TREU, Sindacato e rappresentanze aziendali, Bologna, il Mulino, 1971; G. SALVARANI – A. BONIFAZI, Le nuove strutture del sindacato, Milano, Angeli, 1973; Delegati e consigli di fabbrica in Italia, Milano, Angeli, 1974. Si veda anche il documento stilato nella Seconda conferenza unitaria dei metalmeccanici Fim-Fiom-Uilm, in “Il lavoratore metallurgico”, 10 marzo 1971.
26- S. TURONE, Storia del sindacato in Italia, Bari, Laterza, 1975; I. REGALIA – M. REGINI – E. REYNERI, Conflitti di lavoro e relazioni industriali in Italia, cit. …, p. 71.
27- P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 441.
28- M. SALVATI, Economia e politica in Italia, …, cit., p. 74.
29- Cfr. in proposito alcune osservazioni di S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 361 e seguenti. Tra i diversi studi che trattano dell’apporto del movimento femminista al rinnovamento delle politiche sociali e, per questa via, all’allargamento della cittadinanza, si vedano T. TREU, Lavoro femminile e uguaglianza, Bari, De Donato, 1977; M.V. BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità, Bologna, il Mulino, 1979; Y. ERGAS, Politica sociale e movimento femminista, in “il Mulino”, anno?, 277, pp. 671-684; ID., Allargamento della cittadinanza e governo del conflitto: le politiche sociali negli anni Settanta in Italia, in “Stato e mercato”, 1982, 6.
30- Tali limiti erano del resto denunciati anche da posizioni filogovernative: si vedano, ad esempio, le critiche contenute in alcuni articoli apparsi sulla rivista “Previdenza sociale”, 1968, III, V; nonché i rilievi emersi nel corso del dibattito parlamentare: AP, Camera dei Deputati, Legislatura IV, Discussioni, XLIII, tornata dal 22 febbraio al 9 marzo 1968.
31- Per una breve rassegna delle posizioni di sostenitori e attori della riforma Brodolini, cfr. Confindustria contro i pensionati, in “L’Unità”, 9 febbraio 1969; Il Governo approva la riforma delle pensioni, in “Avanti!”, 16 febbraio 1969; Questa la legge per le pensioni, in “Avanti!”, 20 febbraio 1969; G. MEDUSA, La riforma delle pensioni, in “Mondoperaio”, febbraio 1969, XXIII, 2; CGIL e UIL: migliorare la legge sulle pensioni, in “L’Unità”, 21 febbraio 1969. Cfr., inoltre, il dibattito parlamentare: AP, Camera dei Deputati, Legislatura V, Discussioni, VI, in particolare la tornata del 21 marzo e l’approvazione conclusiva del 29 marzo 1969, pp. 5963-5994, 5998-6059. Per una valutazione e ricostruzione storica, si vedano G. REGONINI, Stato e sindacati nella formazione della politica della sicurezza sociale. Il caso delle pensioni, in “Quaderni della Fondazione G.G. Feltrinelli”, 1980, 10; M. REGINI – G. REGONINI, La politica delle pensioni in Italia: il ruolo del sindacato, in “Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali”, 1981, 10, pp. 217-242; La società neocorporativa, a cura di M. MARAFFI, Bologna, il Mulino, 1983.
32- Non mancò la sottolineatura delle novità di “principio” introdotte dalla riforma. Cfr., in proposito, G. DI MARINO, La sicurezza sociale nella lotta per le riforme di struttura, in “Critica marxista”, maggio-giugno 1969, VII, 3, pp. 64 e seguenti. Sul superamento che la legge n. 153 del 1969 segnava rispetto alla vecchia logica assicurativa, hanno insistito M. PACI, Onde lunghe nello sviluppo dei dei moderni sistemi di welfare, in “Stato e mercato”, 1982, 6; ID., La politica sociale in Italia, in “Quaderni di rassegna sindacale”, 1985, pp.114-115; A. CIOCCA, Il sistema della previdenza e le sue riforme, in Lo stato sociale in Italia, a cura di E. BARTOCCI, Roma, Donzelli, 1995. Anche se non sono mancate considerazioni critiche, come quelle di M. FERRERA, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Bologna, il Mulino, 1993, p. 267.
33- D. FAUSTO, Il sistema italiano di sicurezza sociale, Bologna, il Mulino, 1978; Il deficit pubblico: origini e problemi, a cura di E. GERELLI – E. MAJOCCHI, Milano, Angeli, 1984.
34- Per la ricostruzione in dettaglio della vicenda e la valutazione del risultato particolarmente avanzato, si vedano la testimonianza basilare di G. GIUGNI, Il sindacato tra contratti e riforme, 1969 -1973, Bari, De Donato, 1973 e il libro di E. STOLFI, Da una parte sola, Milano, Longanesi, 1976. Cfr., inoltre, T. TREU, L’uso politico dello Statuto dei lavoratori, Bologna, Il Mulino, 1975.
35- N. NEGRI – C. SARACENO, Le politiche contro la povertà in Italia, Bologna, il Mulino, 1996; F. GIROTTI, Welfare State. Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 1998, pp. 292-293.
36- M. ACHILLI, Casa: vertenza di massa, Padova, Marsilio, 1972; Città e conflitto sociale, Milano, Angeli, 1972; Le lotte per la casa in Italia, a cura di A. DAOLIO, Milano, 1974.
37- S. POTENZA, Riforma della casa, in Lo spreco edilizio, a cura di F. INDOVINA, Venezia, Marsilio, 1978; F. FERRARESI – A. TOSI, Crisi della città e politica urbana, in La crisi italiana, a cura di L. GRAZIANO – S. TARROW, Torino, Einaudi, 1979, pp. 567 e seguenti.
38- M. SALVATI, Intervento su ‘Lo Stato sociale in Italia’: caratteri originali e motivi di una crisi, in “Passato e presente”, 1994, 32, p. 22.
39- Sul ruolo avuto dai partiti e dai sindacati, si vedano M. BARBAGLI – P.C. CORBETTA, Base sociale del PCI e movimenti collettivi, in La politica nell’Italia che cambia, a cura di A. MARTINELLI – G. PASQUINO, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 144-170; M. FEDELE, Classi e partiti negli anni settanta, Roma, Editori Riuniti, 1979; M. BARBAGLI – P.C. CORBETTA, L’elettorato, l’organizzazione del PCI e i movimenti, in “il Mulino”, 1980, 269, pp. 467-490; I ceti medi in Italia, a cura di C. CARBONI, Bari, Laterza, 1981; M. PACI, Il partito di massa di fronte alla de-strutturazione dell’ordine di classe e alla crisi di motivazione, in Governare la democrazia, a cura di S. BELLIGNI, Milano, Angeli, 1981, pp. 99-108; S. TARROW, I movimenti sindacali: che cosa sono, quando hanno successo, in “Laboratorio politico”, 1982, II, 1, pp. 121-153.
40- Per alcuni elementi di analisi comparata, si vedano The Comparative History of Public Policies, edited by F.G. CASTLES, Oxford, Oxford University Press, 1989; C. BALDWIN, The Politics of Social Solidarity. Class Bases of the European Welfare States, 1875-1975, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; G. ESPING-ANDERSEN, The Three Worlds of Welfare Capitalism, New York, Polity Press, 1990.
41- M. SALVATI, Economia e politica in Italia, cit., p. 124.
42- I. REGALIA, Le politiche del lavoro, in Welfare State all’italiana, cit. …; Stato e regolazione sociale. Nuove prospettive del caso italiano, a cura di P. LANGE – M. REGINI, Bologna, il Mulino, 1987; M. REGINI, Confini mobili. La costruzione dell’economia fra politica e società, Bologna, il Mulino, 1991; E. PUGLIESE, Sociologia della disoccupazione, Bologna, il Mulino, 1993.
43- P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., pp. 501, 505.
44- M. SALVATI, Economia e politica in Italia, cit., pp. 146 e seguenti.
45- O. CASTELLINO, Il labirinto delle pensioni, Bologna, Il Mulino, 1976; R. STEFANELLI, Il sistema previdenza. Storia e problemi di riforma, Bari, De Donato, 1977; A. FORNI, Il pianeta previdenza, Bari De Donato, 1979; F. GIROTTI, Welfare State, cit., pp. 289-292.
46- Dopo un lungo travaglio, anche parlamentare, la legge fu approvata, con 381 voti favorevoli e 77 contrari, da tutti i partiti di centro e di sinistra; cfr. AP, Camera dei Deputati, legislatura VII, Discussioni, XXVI, tornata dal 16 al 23 dicembre 1978, p. 26165.
47- Sulla riforma del sistema sanitario, i suoi antecedenti e il punto d’approdo, si vedano Rapporto Perkoff: salute ed organizzazione nel servizio sanitario nazionale, a cura di G. FREDDI, Bologna, il Mulino, 1984; A. PIPERNO, La politica sanitaria in Italia. Tra continuità e cambiamento, Bologna, il Mulino, 1987; G. BERLINGUER, Storia e politica della salute, Milano, Angeli, 1991; A. CORCIONE, Risorse e diritti sociali nel sistema sanitario, in Lo Stato sociale in Italia…, citata.
48- Sui diversi problemi che si presentarono nell’attuazione della riforma e dopo, si vedano M. CAMMELLI, Strategia e congiuntura: il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, in “il Mulino”, 1981, 278; F. CAVAZZUTI, Il nocciolo duro della riforma, ibid.; G. PASTORI, L’attuazione del Servizio Sanitario Nazionale nei primi anni della riforma, ibid.; S. GIANNINI, La spesa sanitaria, in “Quaderni di Rassegna sindacale”, 1982, 45; G. DE CESARE, Riforma della riforma?, in “Quaderni di Rassegna sindacale”, 1984, 56.