Patrizia Veroli
L’Italia non è rimasta immune agli insegnamenti di Emile Jaques-Dalcroze, il musicista austriaco di formazione svizzera che teorizzò e sperimentò una ginnastica ritmica come ausilio alla comprensione della musica. Formidabile palestra di creatività in anni in cui le avanguardie della danza moderna europea cercavano nuovi strumenti operativi con cui rivoluzionare anche il rapporto tra il movimento e la musica, la ginnastica ritmica fu introdotta in Italia con difficoltà, in quanto si scontrava con una concezione dell’educazione fisica finalizzata, per un verso all’igiene sociale e per l’altro alla formazione militare. All’interno della nuova cultura del corpo varata dal fascismo, la ginnastica ritmica venne recuperata e applicata su larga scala per l’educazione della gioventù. Così, da sonda per la riscoperta e l’affermazione della libera individualità, il ritmo diventò garanzia di docilità del corpo e ”sincronizzazione affettiva” (Miotto) nei riguardi del Duce.
Il mio intervento ripercorre le principali tappe della penetrazione dalcroziana in Italia, nonché i tempi ed i modi con cui il fascismo utilizzò la ginnastica ritmica giungendo a quegli spettacolari saggi ginnici di pulsante e matematica precisione in cui l’individuo era ingranaggio anonimo di una nuova estetica della guerra.
(relazione)