Paolo Favilli, Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia (1945-1970), Milano, FrancoAngeli, 325 pp., € 25,00
Due lunghe introduzioni presentano il tentativo dell’autore di ricostruire una «mappa concettuale “marxista” secondo distinzioni “storicamente determinate”, trattando idee, strumenti analitici “come fatti”» (p. 7). Tale tentativo è situato, con ulteriore discussione di punti particolari, nel contesto storiografico generale attuale, che sarebbe dominato da studi sulle rappresentazioni culturali (gli storici parlano in continuazione di cultura, insomma – come scrive Jürgen Kocka – «mentre l’economia plasma la nostra vita»). Negli otto capitoli successivi – dedicati alle origini del materialismo storico in Italia, a Cantimori, all’impegno degli studiosi, al rapporto con crocianesimo, storicismo, scienze sociali, infine al capitalismo come problema storico e al destino degli studi economico-sociali negli anni ’70 – si troveranno dunque gli elementi per tracciare una «mappa concettuale» marxista del campo storico (ma non la mappa stessa, disegnata con nettezza). E cioè si troveranno discussioni a non finire intorno ai problemi della storia economica, del materialismo storico, della storia sociale; citazioni, digressioni, puntualizzazioni sulle ricerche ispirate all’esempio e al pensiero di Marx e dei suoi commentatori e critici, o che suggerivano o proclamavano di esserlo; e poi le ricostruzioni, rievocazioni, controversie agitate da coloro che si appassionarono a questi problemi e temi, tra il 1945 e il 1970. Con un’immagine, si potrebbe dire che il libro di Favilli è una ideale prosecuzione delle discussioni e delle polemiche che intorno al pirotecnico, effervescente, lucidissimo e appassionato Antonio Labriola si svolgevano al caffè Aragno a Roma. Ma non risponde (non si propone di rispondere) alla domanda, forse non irrilevante, se è vero che nel dopoguerra i giovani storici marxisti ebbero un approccio al marxismo «di tipo politico, non euristico, insomma si erano fatti marxisti in quanto quella era la scelta ideologica che discendeva dalla militanza comunista» – domanda che si può porre invece, mettendo il punto interrogativo all’affermazione, ora citata, di Roberto Pertici (attribuita ad altri da Favilli a p. 51n). Ne deriva che l’autore non mette al centro dell’esame le opere storiche degli storici materialisti e marxisti (non si propone di esaminarle in dettaglio). Due esempi: discute di Labriola, ma non prende in esame gli studi sulla Rivoluzione francese (che era l’unico argomento storico che Labriola si sentisse di conoscere a fondo), né l’incompiuto Da un secolo all’altro (un bel progetto di «storia immediata»); rievoca la polemica di Cantimori con Antoni su Marx, ma non ci dice se la severità del primo nei confronti del secondo era o meno fondata. È quindi un libro utile per chi si appassiona alle discussioni, polemiche, controversie e rievocazioni su marxismo e storia e certo non mancano le osservazioni acute (per esempio a p. 69, sulla compatibilità di storia «strutturale» e delle rappresentazioni). Lo stile di Favilli, però, non è scorrevole, ci sono molte ripetizioni degli stessi concetti e numerosissime citazioni, nelle note c’è qualche errore di troppo: è mancata una robusta revisione editoriale del testo.
Massimo Mastrogregori
Una breve puntualizzazione alla nota di Mastrogregori
A Mastrogregori il libro in questione non è proprio piaciuto, non ne ha condiviso né le tesi di fondo né il modo di argomentarle. Ciò è, ovviamente, del tutto legittimo, in particolare quando le tesi sostenute si distaccano notevolmente dalla temperie culturale oggi largamente condivisa. Su questo punto non c’è molto da dire se non affrontando una discussione ampia e complessa che dovrebbe andare ben al di là di questa brevissima noterella. Mastrogregori ha letto il libro come un capitolo di storia della storiografia e da questa chiave di lettura ha tratto le sue conclusioni. Il saggio, però, non si esaurisce affatto nella dimensione della storia della storiografia. Anzi nei suoi aspetti essenziali non è per niente un capitolo di storia della storiografia. Il suo oggetto è costruito mediante la combinazione di percorsi, storici certamente, ma caratterizzati dal discorso tanto economico che epistemologico. Vi è, dunque, bisogno di approcci disciplinari differenziati per una più precisa comprensione. Il testo, a partire dall’analisi di un periodo della cultura storica italiana, si pone problemi riguardanti il complesso del sapere storico nei suoi rapporti tanto con altri saperi che con la storia realmente operante. Di qui la decisione, necessaria, di non esaminare «in dettaglio» le opere dei marxisti italiani. Non di non tenerne conto (una attenta lettura del libro lo rivela con chiarezza), ma di non analizzarle nell’ottica della storia della storiografia. Sarebbe stato un libro del tutto diverso Questo non significa che le risposte alle domande cui Mastrogregori fa riferimento non siano state date. Sono da leggersi proprio attraverso quella rete di «citazioni, digressioni, puntualizzazioni», attraverso quello stile «non scorrevole» ( cioè non lineare) che a Mastrogregori non è piaciuto. La «mappa concettuale marxista» nel campo storico è rilevabile proprio all’interno di tale reticolo. Non è stata «disegnata con nettezza» perché non era possibile farlo. Quel tipo di marxismo (si ricordi che il «marxismo» è sempre uno storicamente determinato) si manifesta in maniera tanto multiforme che proteiforme. In maniera del tutto asistematica. Così alla domanda sul carattere «politico e non euristico» dell’approccio dei giovani marxisti del dopoguerra, la risposta mi sembra emergere con chiarezza. Pur con tutte le distinzioni possibili, e il panorama delle distinzioni analizzate è piuttosto ampio, le conclusioni, a partire dai testi, emergono in maniera chiara: la dimensione euristica fu nettamente prevalente. Quanto al fatto che il libro sembri «una ideale prosecuzione delle discussioni e delle polemiche che intorno al pirotecnico, effervescente lucidissimo e appassionato Antonio Labriola si svolgevano al caffè Aragno a Roma», ebbene Mastrogregori mi fa una straodinaria lode, purtroppo scarsamente meritata. Si licet parva…, infatti, proprio quello è il modello argomentativo, lo stile, che ritengo più congeniale all’oggetto analizzato. Croce nel ’98 conveniva con Gentile nel considerarlo «confuso e contraddittorio». Molti anni dopo invece, Kolakowski lo considererà del tutto congeniale alla «sfiducia verso le chiuse formule dottrinarie», alla convinzione che «il marxismo non [fosse] affatto una “definitiva” e autosufficiente razionalizzazione e schematizzazione della storia, bensì un insieme di indicazioni molto libere sul modo di pensare ai problemi umani» A questo tipo di «stile» il libro ha cercato di conformarsi. Con poco successo secondo Mastrogregori.
Paolo Favilli