NIcola Tranfaglia
1. La riforma degli ordinamenti didattici universitari è ormai in corso di realizzazione: già nell’anno accademico 2000-2001, in ventisette università su 65 sono stati varati corsi triennali ma, nel prossimo anno accademico 2001-2002, pressoché tutti gli atenei attueranno la riforma e avrà inizio la complessa transizione dalle lauree quadriennali e quinquennali ai corsi triennali e, subito dopo, a quelli biennali delle lauree specialistiche.
Ma il progetto di riforma, varato all’indomani della formazione del governo Prodi nella primavera del 1996, è tutt’altro che compiuto.
Quel progetto prevedeva,come qualcuno ricorderà,un mutamento radicale dell’organizzazione della ricerca,la realizzazione dell’ un’autonomia finanziaria e didattica delle università,la nascita di un sistema di valutazione a livello nazionale e locale,la riforma del sistema dei concorsi universitari,la creazione di una terza fascia di docenti e un nuovo stato giuridico per il personale docente delle università.
Di questi obbiettivi,collaterali e complementari alla riforma degli ordinamenti didattici,alcuni si sono realizzati solo in parte: ad esempio,per quanto riguarda il sistema della ricerca si sono introdotte alcune innovazioni parziali,si è incominciato a premiare i cosiddetti progetti di eccellenza ma gli stanziamenti complessivi restano troppo bassi rispetto al livello medio europeo e lo stesso si può dire per quel che riguarda il sistema di valutazione che, a livello nazionale, è partito, sia pure in modo dimesso, ma a livello locale stenta ancora ad affermarsi in forme soddisfacenti e attendibili,eccetto alcune eccezioni. Altri,invece,si sono insabbiati in parlamento o sono stati realizzati con misure che si sono rivelate inefficaci o addirittura dannose per gli interessi generali dell’università e del paese. E’ stato bloccato il disegno di legge del governo sullo stato giuridico dei professori grazie alle potenti lobbies accademiche presenti in parlamento e grazie anche alle contraddizioni che caratterizzavano il progetto:le commissioni parlamentari hanno lavorato a lungo per migliorare il testo ma quando si è arrivati in aula opposizioni di destra e di sinistra,resistenze delle corporazioni accademiche piu’ forti sono riuscite a bloccare il disegno di legge e a farlo decadere con la tredicesima legislatura. Così anche successive, e sempre piu’ smilze e minimali, leggine sulla creazione della terza fascia sono andate incontro allo stesso destino lasciando insoluto il problema dei tanti ricercatori che da molti anni tengono corsi ufficiali,seguono tesi di lauree,sono presenti nei collegi di dottorato senza ottenere nessun riconoscimento né sul piano giuridico nè su quello economico.
Personalmente sono sempre stato favorevole a verifiche nazionali serie per il passaggio dall’una all’altra categoria ma questo non significa esser favorevoli alla persistenza di una situazione assurda e contraddittoria come quella attuale.
La riforma dei concorsi universitari,al contrario,è diventata legge fin dall’autunno del 1998 ma si è rivelata ormai una delle innovazioni piu’ sciagurate dell’intera riforma giacchè si è trattato di una legge in grado di far svolgere migliaia di concorsi in tempo breve ma tale da dare alle sedi locali un potere eccessivo di cooptazione senza nessuna responsabilità.
Migliaia di persone che non avrebbero retto a nessun vaglio nazionale hanno superato questi concorsi sanando certo situazioni che si trascinavano da decenni ma in troppi casi promovendo ricercatori e docenti che non pubblicavano da decenni o che nulla di significativo o di innovativo avevano mai scritto all’interno del proprio settore disciplinare.
Qualcuno,forse esagerando,ha parlato, su una rivista autorevole come “Il Mulino” dell’”ascesa del cretino locale” ma in ogni caso è certo che il meccanismo della legge è tale da non dare garanzie sufficienti sul livello scientifico e didattico di chi concorre e raggiunge l’idoneità.
L’idea di una lista nazionale di idoneità formata da una commissione eletta a livello nazionale con successive chiamate a livello locale in tempo determinato avrebbe garantito un miglior livello medio e bloccato tante piccole “combine” organizzate per sistemare personaggi marginali dell’uno o dell’altro settore disciplinare.
C’è da augurarsi,perciò,che nella prossima legislatura si intervenga sulla legge 210 del ’98 in modo da garantire una sorta di calmierazione dei concorsi e di attenzione a un livello minimo necessario per superarli. Il che oggi avviene soltanto per merito di commissari che non hanno perduto il senso della ragione:a giudicar dai risultati,una minoranza nella nostra come in altre corporazioni.
2.
In conclusione,l’unico pezzo della riforma ad andar avanti e a concludersi nella passata legislatura è stata quella sugli ordinamenti didattici e sulla creazione dei tre livelli(laurea,laurea specialistica,dottorato trasformato finalmente in una vera e propria scuola con corsi autonomi).
Ma anche in questo caso sono emersi alcuni problemi non risolti dai decreti ministeriali emanati dai governi sulla base della delega concessa dal parlamento sulla base dell’articolo I7 comma 95 della legge n.I27.
Infatti, dopo il regolamento sull’autonomia degli atenei(n.509 del ‘999,il decreto sui settori scientifico-disciplinari del 4 ottobre 2000 che ha portato all’ abolizione delle discipline e alla caduta della titolarità delle cattedre e all’inquadramento obbligatorio dei docenti all’interno dei settori scientifico-disciplinari,e i due decreti di area,sulle lauree del 4 agosto e delle lauree specialistiche del 28 novembre 2000,tutto è stato lasciato all’autonomia delle singole università senza indicare,come pure sarebbe stato opportuno,criteri generali per la regolamentazione dei crediti.
Di qui il rischio,tutt’altro che scongiurato,di una difficile commutazione dei crediti non solo nel trasferimento da un’università all’altra(ove non esistano apposite convenzioni) ma persino nel passaggio da una facoltà all’altra all’interno del medesimo ateneo.
Ad ogni modo la riforma degli ordinamenti didattici era una misura ormai necessaria da alcuni decenni.
L’Italia registra da almeno tre decenni,una situazione a dir poco singolare:ogni anno una percentuale assai alta(dal 41 al 43 per cento),compiuti gli studi secondari,si iscrive all’università ma la percentuale di studenti che si laureano non arriva al quaranta per cento e si registra un numero impressionante di abbandoni,per l’esattezza il sessantasei per cento.
Se a questo si aggiunge che tra i laureati soltanto una parte marginale,che supera di poco il dieci per cento,compie gli studi nel periodo previsto,dai quattro ai sei anni, e che la grande maggioranza dei laureati conclude la sua carriera scolastica in un tempo pressoché doppio a quello legale,si può capire perché i nostri laureati arrivano sul mercato del lavoro italiano ed europeo assai piu’ vecchi degli altri concorrenti e subiscono un danno sicuro e misurabile.
Di qui il grande spreco che ha caratterizzato il periodo che dal 1967 al 1994:in quegli anni sono entrati nell’università oltre sette milioni di giovani ma di essi poco piu’ di due milioni hanno conseguito la laurea,unico titolo del vecchio sistema. Gli altri cinque milioni si sono semplicemente perduti ai fini della formazione universitaria.
Né è un caso che siamo alla retroguardia in Europa per il numero dei laureati e, invece, all’avanguardia per la disoccupazione intellettuale,anche a causa del raccordo assai scarso tra i curricoli universitari e il mercato del lavoro,come ha dimostrato di recente,ancora una volta,la ricerca della fondazione Aristea dedicata al “Viaggio tra i perché della disoccupazione intellettuale in Italia”.
In altri termini noi siamo tra i primi paesi del vecchio continente per l’afflusso dei giovani all’istruzione superiore ma continuiamo ad essere tra gli ultimi per quanto riguarda il conseguimento di un titolo di studio e la collocazione professionale.
Di qui l’esigenza obbiettiva(anche al di là dell’armonizzazione europea perseguita a partire dell’accordo della Sorbona del 1997 e destinata a continuare in maniera indipendente dalle maggioranze politiche del parlamento europeo)di un intervento in grado di istituire due livelli di laurea seguiti dalle scuole di dottorato e favorire l’immissione sul mercato del lavoro di un numero maggiore di laureati,piu’ giovani di quel che avviene oggi.
Queste sono le premessa che una commissione di esperti,coordinata da Guido Martinetti, di cui ho fatto parte, chiarì quattro anni fa.
Quella commissione che ha lavorato intensimante per oltre due anni disegnò un’università che avrebbe dovuto essere caratterizzata da alcuni elementi essenziali.
Il primo era quello di rovesciare la logica attuale che vede al centro dell’università i professori e i loro interessi e fa degli studenti una presenza passiva e di solito marginale,salvo esplosioni improvvise di una protesta spesso espressiva.
Occorreva invece,a nostro avviso,porre al centro gli studenti stipulando da parte degli atenei una sorta di contratto che mette a disposizione servizi didattici efficienti(una didattica non solo di lezioni ma anche di seminari e stages,un servizio di tutorato e di orientamento che oggi manca in buona parte delle università) e chiede d’altra parte agli studenti una presenza assidua e costante.
L’idea di quella commissione era quella di dividere gli studenti in due categorie:a tempo pieno per i quali la frequenza è obbligatoria e a tempo parziale per i quali attivare un insegnamento a distanza interattivo,divenuto ormai possibile e in grande espansione in alcuni paesi europei.
Il secondo elemento essenziale era quello di istituire un sistema nazionale e locale di valutazione delle università e di controllo della didattica che consentisse,con l’attiva partecipazione degli studenti,una verifica costante tale da ridurre in maniera decisiva gli abbandoni e l’attuale distanza tra durata legale e durata reale degli studi.
Ma questo richiedeva un nuovo stato giuridico dei docenti e per ora questo aspetto è,come ho già detto,ancora da definire adeguatamente sul piano normativo.
Il terzo elemento della riforma riguardava la valutazione dei Dipartimenti come delle Facoltà da parte del Comitato Nazionale di Valutazione legandola alla distribuzione di una parte notevole delle risorse finanziarie ma in questo campo siamo ancora all’inizio del processo e tutto o quasi dipenderà dal modo in cui sarà gestito nei prossimi anni il Ministero dell’Università.
Infine si trattava di sostituire alle vecchie tabelle ministeriali schemi didattici flessibili e tali da consentire ad ogni struttura universitaria una forte capacità di innovazione differenziandole secondo le competenze esistenti in ogni sede universitarie e rendendole flessibili e adeguate alle necessità di mutamento in ogni settore scientifico.
Ma nell’ultima fase di progettazione della riforma le cose sono cambiate giacchè il MURST(in particolare,durante il ministero Zecchino) ha ritenuto necessario rivolgersi al mondo accademico attraverso le conferenze dei presidi di Facoltà che hanno di fatto preso parte alla delineazione dei criteri minimi vincolanti da includere nei decreti di area per le lauree e le lauree specialistiche.
I criteri minimi,attraverso una simile mediazione,sono diventati assai piu’ rigidi e cogenti tanto da configurare di fatto tabelle nazionali che non si distaccano da quelle precedenti se non per l’importante innovazione rappresentata dal decreto del 4 ottobre 2000 che ha sostituito i settori scientifico-disciplinari alle singole discipline.
Di fatto le corporazioni accademiche,diventate protagoniste della compilazione dei due decreti d’area,hanno introdotti vincoli assai forti a livello nazionale nelle lauree triennali come in quelle specialistiche riproducendo il carattere tendenzialmente specialistico delle prime(mentre lo spirito della riforma avrebbe dovuto condurre a puntare,almeno nel primo biennio,a una preparazione piu’ generale) e in questo modo non differenziandole in maniera sensibile dalle seconde.
Per di piu’ il secondo decreto d’area,quello del 28 novembre 2000,sulle lauree specialistiche ha tenuto ancora maggior conto delle richieste delle corporazioni accademiche giungendo all’assurdo di configurare quattro lauree specialistiche per la storia e tre per la filosofia:il che,con tutta evidenza,non risponde alle esigenze di un mercato professionale che ha bisogno di specialisti di un ambito piuttosto che di un livello di specializzazione proprio dei dottori di ricerca.
In questo senso la responsabilità della configurazione degli ordinamenti didattici è stata lasciata quasi del tutto all’autonomia universitaria con esiti differenti a seconda del grado di consapevolezza e di realismo dei singoli atenei e rinunciando a un’opera di orientamento e di indirizzo nazionale quanto mai necessario di fronte a una transizione dal vecchio al nuovo tutt’altro che agevole.
3.
Il necessario rendiconto delle varie fasi della riforma e del comportamento tenuto, anzitutto dal Ministero e dal parlamento ma anche dalle corporazioni accademiche, è stato,come si è visto,lungo e tortuoso ma, senza di esso, era pressoché impossibile comprendere le contraddizioni e i problemi con cui abbiamo a che fare concretamente durante l’attuazione della riforma e piu’ specificamente nel campo delle scienze umane e della storia contemporanea.
Possiamo dire subito che il ruolo delle scienze umane e in particolare della storia contemporanea ha avuto tutto da guadagnare dall’indubbia innovazione costituita,pur con tutte le ombre già segnalate,dalla riforma degli ordinamenti didattici.
Sia perché almeno è stato abbattuto il totem costituito dall’ordinamento didattico del 1938(non ho sbagliato,cari colleghi,si tratta proprio di quella data!)che confinava la storia contemporanea ma anche l’antropologia,la sociologia e ad altre scienze umane sorelle della storiografia al novero delle materie “complementari” riservando il ruolo di materie “fondamentali” alle filologie,alle letterature,alla storia antica,medioevale e moderna e alla filosofia.
L’unica scienza sociale che in quel vecchio ordinamento faceva parte delle materie “fondamentali” era la geografia ma tutte le altre scienze umane erano state cancellate e relegate nel novero delle complementari,cioè di quelle discipline marginali che lo studente avrebbe potuto frequentare solo se lo avesse chiesto e avesse ottenuto l’autorizzazione del corso di laurea o del docente relatore della tesi di laurea.
E’ bene ricordare queste caratteristiche del regolamento del 1938 nel momento in cui viviamo affannosamente un mutamento radicale come quello legato alla riforma degli ordinamenti didattici.
Per quanto riguarda le lauree,ho già detto che il decreto d’area del 4 agosto 2000 configura corsi triennali che dovrebbero avere la duplice caratteristica di fornire una preparazione culturale di base allo studente e nello stesso dargli una professionalità sia pure di medio livello. Il che si rivela possibile nel caso di corsi triennali che nascono dalla trasformazioni di precedenti diplomi professionalizzanti ma in questo caso c’è a volte una carenza indubbia di corsi e attività in grado di dare allo studente la preparazione culturale di base e in compenso gli si forniscono strumenti necessari per la professionalità da acquisire.
Negli altri casi i corsi triennali di laurea stanno nascendo dalla trasformazione di precedenti corsi quadriennali e sacrificano di solito 30 o al massimo 60 crediti alla preparazione culturale generale riservando la maggior parte dei corsi,cioè di solito centoventi crediti,alla cultura specialistica del corso di laurea che solo in certi casi corrisponde a un inizio di professionalizzazione.
In altri termini la riforma degli ordinamenti,grazie all’intensa attività delle corporazioni accademiche richiesta e sollecitata dal ministro in carica,non ha modificato l’impostazione eminentemente specialistica dei corsi di laurea preesistenti riducendoli soltanto da quattro a tre anni.
Questo è almeno è quello che sta accadendo nella prima attuazione dei decreti nelle facoltà umanistiche.
La professionalizzazione di cui tanto si è parlato avrebbe dovuto essere rinviata di fatto al secondo livello,cioè alle lauree specialistiche:ma qui il ruolo delle corporazioni disciplinari è stato ancora piu’ forte con i risultati cui ho già accennato.
Si è giunti,in generale,a una specializzazione che poco ha a che fare con la professionalizzazione e che semmai tende a preparare i laureati specialisti per le scuole di dottorato piuttosto che per l’ingresso nella professione. Dimenticando forse che il numero di giovani che potrà essere destinato alla ricerca è assai piu’ basso di quello che,attraverso una laurea specialistica,potrà aspirare a concorsi pubblici per dirigenti o competizioni nel privato per ruoli dirigenziali.
Nella sostanza,quindi,almeno allo stato attuale delle cose non si è creata ancora al primo livello una preparazione di base adeguata al fatto che gli studenti provenienti alla secondaria giungno agli studi universitari con una preparazione assai approssimativa e al secondo livello si è organizzata una didattica propedeutica ai dottorati piuttosto che a un’alta professionalizzazione.
Le responsabilità per un esito come questo,tutt’altro che soddisfacente,sono da dividere equamente tra l’assenza di un indirizzo chiaro e preciso da parte del ministero e la presenza forte delle corporazioni accademiche piu’ preoccupate della salvaguardia e dello sviluppo dei vari settori scientifico-disciplinari che delle esigenze professionali dei laureati da immettere sul mercato del lavoro italiano e internazionale.
A voler tentare una conclusione provvisoria potremmo dire che la riforma degli ordinamenti didattici apre una fase di non facile transizione tra vecchia e nuova università nella quale molto,forse troppo è lasciato all’inventiva e alla capacità di autogoverno degli accademici e delle strutture didattiche ma che difficilmente potrà realizzare un autentico rinnovamento dell’istruzione superiore se gli altri pezzi della riforma non saranno realizzati a livello legislativo e di governo e se non ci sarà una svolta decisa a livello di potenziamento della ricerca e dei criteri di valutazione e di riequilibrio del sistema(con la necessaria eliminazione dei mega-atenei nei quali il decongestionamento dettato dalla legge è appena iniziato con esiti a volte contraddittori).
Per ora è necessario almeno proporre un’attuazione dell’innovazione didattica che valorizzi adeguatamente la differenziazione tra il primo e il secondo livello dell’istruzione universitaria che introduca curricoli flessibili all’aggiornamento disciplinare e favorisca lo studio dell’età contemporanea secondo una metdologia il piu’ possibile legata,oltre che al metodo storico,alle scienze umane piu’ vicine come l’antropologia,la sociologia,la demografia e la psicologia.