Pietro Costa
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea
a cura di C. Sorba
Devo subito avvertire che il titolo rischia di promettere troppo rispetto a quello che la relazione può effettivamente offrire. Non pretendo di condensare in poche pagine il senso di una vicenda culturale estremamente articolata e complicata. Mi propongo due obiettivi molto più modesti. In primo luogo, intendo chiedermi che cosa significhi lavorare come storici sulla cittadinanza: ho l’impressione che possano essere immaginate ricerche piuttosto diverse fra loro quanto a oggetto e a metodo, anche se tutte intitolate al lemma “cittadinanza”, e può essere forse di qualche utilità tentare di introdurre qualche considerazione di carattere metodologico. In secondo luogo, farò riferimento a qualche profilo tematico di carattere generale, suggeritomi dalla mia concreta esperienza di ricerca, nel tentativo di rendere più concrete le riflessioni di metodo menzionando, sia pure nella forma di rapsodiche e sintetiche esemplificazioni, alcuni dei passaggi che segnano non dico la storia della cittadinanza, ma almeno quella storia della cittadinanza di cui tento di occuparmi.
1. Vengo al primo punto. Che cosa significa fare storia della cittadinanza? Come ci si muove, da storici, in un campo ormai da tempo intensamente frequentato da sociologi, giuristi, filosofi, politologi? Quali operazioni storico-ermeneutiche si possono compiere con il termine-concetto “cittadinanza”? Occorre a mio avviso fissare alcune distinzioni, forse scontate ma, spero, non inutili.
Occorre decidere se assegnare “cittadinanza” al dominio del metalinguaggio o all’am-bito del linguaggio-oggetto. Nel primo caso “cittadinanza” è un filtro da noi prescelto, uno strumento concettuale definito convenzionalmente allo scopo di ritagliare nel magma delle esperienze un’area unitaria, un insieme coerente e “dotato di senso” di cui narrare la storia. Nel secondo caso, “cittadinanza” non è lo strumento che ci permette di porre domande al passato (o al presente), ma è l’oggetto diretto dell’analisi: non mi servo di “cittadinanza” per ordinare e dar senso a un insieme di testi e contesti, ma assumo “cittadinanza” come una espressione già come tale circolante nei testi che vengo considerando.
A voler essere puntigliosi, solo in quest’ultimo caso si potrebbe parlare di storia della cittadinanza: una storia che assume la parola “cittadinanza” a proprio oggetto. La storia della cittadinanza è in questo caso la storia di una parola; una storia che può essere condotta in modi molto diversi, può essere intesa come una vera e propria storia semantica, lessicale, oppure essere interpretata, in senso più ampio, come analisi di un geschichtlicher Grundbegriff [1], ma resta comunque una indagine che si vuole vincolata a una precisa concrezione linguistico-concettuale.
Nettamente diversa è la prospettiva quando si assuma “cittadinanza” come uno strumento metalinguistico: “cittadinanza” non è allora l’oggetto diretto dell’analisi, ma un suo strumento; usiamo “cittadinanza” – una qualche definizione o ridefinizione del termine – per porre una domanda al passato; la usiamo come uno strumento di riduzione della complessità, come un proiettore che getta un fascio di luce sulla realtà e mette in evidenza alcuni profili anziché altri. Parlerei in questo caso di storia attraverso la cittadinanza e, insieme, di storia intorno alla cittadinanza.
Certo, anche nel primo caso, anche quando “cittadinanza” figura come un’e-spressione del linguaggio-oggetto (del linguaggio assunto come oggetto dell’operazione interpretativa) e la ricerca mira a intenderne il significato o i significati, non si esce dal “circolo ermeneutico”: muoviamo comunque (implicitamente o esplicitamente) da un qualche “significato previo” di “cittadinanza” e su questa base compiamo le nostre operazioni di decifrazione del passato. Resta però caratteristico di questo tipo di ricerca il fatto che l’operazione storiografica, pur se influenzata (com’è inevitabile) dalla “definizione previa” di cittadinanza, si concentra comunque sul lemma assunto come oggetto diretto dell’indagine – appunto l’espressione “cittadinanza” come parte del linguaggio-oggetto, come centro di un campo semantico di cui si vuole ricostruire la genesi e il funzionamento. In questa prospettiva sarò indotto a studiare “cittadinanza” in Jellinek, in Fichte, in Bodin se e solo se Jellinek, Fichte o Bodin fanno uso del termine “cittadinanza” e il mio problema sarà appunto intendere il senso peculiare assunto da quel termine nel corpus di testi (nel “linguaggio-oggetto”) che lo ospita.
Non sfuggirà a nessuno il fatto che, per esigenze di didascalica chiarezza, sto esasperando, entro un’operazione storico-ermeneutica complessivamente unitaria, la distinzione fra due elementi, il “metalinguaggio” e il “linguaggio-oggetto” (il linguaggio che serve a ordinare i dati e a raccontarli e il linguaggio assunto come oggetto dell’ ordinamento e della narrazione), che di regola, nella concreta esperienza di ricerca, si presentano non già disgiuntivamente, ma simultaneamente. Varia semmai, per così dire, il dosaggio dei due elementi, il loro modo di combinarsi: è la concreta, individuale operazione storico-ermeneutica che decide la propria strategia e realizza uno degli innumerevoli modi (per l’appunto il suo proprio e originale) di combinare “metalinguaggio” e “linguaggio-oggetto”, dando luogo a un concreto atto di intellezione storica.
Se è vero dunque che il bilanciamento fra i due momenti è affidato alla concreta e individuale strategia del singolo ricercatore, è altrettanto vero che possono esistere dati “oggettivi” che rendono più complessa e delicata la messa a punto di un metalinguaggio adeguato. È questa la difficoltà che a mio avviso si trova di fronte chiunque si dedichi a una qualche “storia della cittadinanza”. Certo, anche quando si affronti la storia di uno qualsiasi dei “grandi concetti” della cultura politico-giuridica ( “libertà”, “eguaglianza”, “Stato”, “democrazia” e via enumerando) è necessario risolvere in qualche modo (implicito o esplicito) il problema del rapporto fra metalinguaggio e linguaggio-oggetto: si muoverà pure da una rosa di “significati previ” (ad esempio) di “libertà” per procedere poi, su questa base, a selezionare e interrogare i testi pertinenti allo scopo di ricostruire in essi il significato e le movenze caratteristiche del nostro tema.
C’è però un dato “oggettivo” che rende la situazione dello “storico della cittadinan-za” in qualche misura diversa dallo “storico della libertà” (o dell’eguaglianza, o della so-vranità ecc.) È una diversità che nasce dalla storia e dal peso specifico dei termini-concetti che sto mettendo a confronto. “Libertà”, “eguaglianza”, “sovranità” ecc. sono termini storicamente sovraccarichi di senso, diffusi ubiquitariamente nei più diversi meandri del discorso pubblico europeo in un lungo arco del suo sviluppo. “Cittadinanza” è invece un termine che ha una storia diversa: per molto tempo la sua collocazione nel cielo dei grandi concetti politico-giuridici è stata relativamente marginale e solo in tempi recentissimi “cittadinanza” è parsa capace di assumere un significato di grande respiro, di porsi al centro di un campo semantico ampio e articolato.
Si comprende allora che la scelta fra una storia semantica, lessicologica, del termine “cittadinanza” e una storia guidata da una ridefinizione metalinguistica di questo (secondo le coordinate suggerite dall’odierno dibattito teorico-politico) appare una scelta fra approcci che restano fra loro più distanti di quanto non avvenga per chi lavora su termini-concetti la cui portata generale e fondante non è recente ma coestensiva alla loro intera parabola storica.
È questo il motivo per cui, nelle mie ricerche “sul campo”, ho optato decisamente a favore non di una storia “lessicale”, ma di una storia la cui condizione di possibilità dipende prevalentemente dalla ridefinizione metalinguistica del termine “cittadinanza”: si tratta di introdurre una ridefinizione convenzionale di “cittadinanza” allo scopo di renderla uno strumento flessibile ed efficace, una “lente” capace di mettere a fuoco connessioni storico-concettuali di una qualche importanza.
Guardare a “cittadinanza” come a un concetto destinato ad assumere una posizione di rilievo nel cielo dei concetti politici non è ovviamente, per chi abbia affrontato questo problema nel corso degli anni Novanta del XX secolo, una scelta “privata” e gratuita. Le odierne fortune di questo termine, i molteplici stimoli a dilatarne il significato e a sottolinearne l’importanza affondano le radici nella sensibilità e nei problemi del nostro tempo, segnato (tanto per riferirmi ad alcuni fra i più ovvi e macroscopici fenomeni) dalla crisi delle “appartenenze” nazionali e dalla pressione di inediti fenomeni migratori che sembrano poter mettere in crisi il quadro consolidato dei meccanismi identitari e degli strumenti di tutela giuridica.
Se dunque la “fortuna” recente del termine “cittadinanza” è inseparabile dall’odierna stagione e dagli attuali problemi delle nostre democrazie, dal punto di vista della “genealogia concettuale” la messa a punto di una definizione di “cittadinanza”, tesa a dilatarne il significato e a reclamare per essa nuova e inedita rilevanza, rinvia al sociologo inglese T.H. Marshall e ad un suo scritto che, pur risalente nel tempo, ha goduto (non a caso) di una seconda giovinezza negli anni Ottanta-Novanta del Novecento [2]. È sulla definizione marshalliana che è quindi necessario riflettere brevemente per tentare di capire se e fino a che punto essa possa essere utilmente impiegata come strumento metalinguistico, come volano di operazioni storico-ermeneutiche.
Thomas Humphrey Marshall, in una lezione commemorativa su Alfred Marshall, mette a fuoco quello che a suo avviso è uno dei lasciti più rilevanti dell’economista suo omonimo: la convinzione cioè che debba “esistere una forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza ad una comunità”. È questa “piena appartenenza ad una comunità” che il sociologo suggerisce di denominare “cittadinanza”. Alla diseguaglianza imposta dalla presente (e passata) stratificazione sociale occorre reagire invocando un concetto che valga in qualche modo come contrappeso o bilanciamento della differenziazione in classi della società; e “cittadinanza” per Marshall suggerisce appunto l’idea di un’eguaglianza che si traduce nella partecipazione di tutti i cittadini a un comune patrimonio, a una medesima “forma di vita” [3]. Gli strumenti principali, le nervature di questa partecipazione sono costituite, per il sociologo inglese, dai diritti: la cittadinanza, oggi, “si è arricchita di nuova sostanza ed è stata investita di un formidabile apparato di diritti” [4].
È guardando ai diritti di cui la cittadinanza si compone che il nostro sociologo suggerisce una tripartizione, la cui logica gli appare dettata dalla storia prima ancora che da esigenze analitiche.
“Chiamerò queste tre parti o elementi – scrive Marshall – il civile, il politico e il sociale. L’elemento civile è composto dai diritti necessari alla libertà individuale (…). Per elemento politico intendo il diritto a partecipare all’esercizio del potere politico (…). Per elemento sociale intendo tutta la gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al diritto di partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società”[5].
La cittadinanza, dunque, viene definita dalla combinazione di tre elementi: la cittadinanza come appartenenza a una comunità, la cittadinanza come uno status-contenitore dei diritti di cui il soggetto viene a essere titolare, la cittadinanza come il risultato di un processo storico che ne dilata progressivamente, senza sovvertirlo, il nucleo originario e costitutivo.
Marshall non sta svolgendo considerazioni di sconvolgente novità: l’interesse della sua operazione consiste semmai nel trovare un unico contenitore – la “cittadinanza” – per profili tematici (i diritti, l’appartenenza alla comunità politica) non sempre adeguatamente collegati fra loro. Da questo punto di vista il suo merito è indubbio, anche se occorre “storicizzarne” la portata, in più sensi.
In primo luogo, la proposta di intendere “cittadinanza” come un concetto capace, per un verso, di tematizzare il nesso fra individuo e comunità politica e, per altro verso, di riferirsi non a un profilo specifico della condizione dei soggetti, ma all’insieme delle loro prerogative e dei loro oneri, al loro status, ha illustri “precedenti” nella storia del pensiero politico-giuridico europeo. Valgano due esempi, tanto noti quanto rilevanti: a fine Ottocento Jellinek, che, fra gli status che connotano la posizione giuridica del soggetto (inseparabile, nella prospettiva statocentrica della giuspubblicistica tedesca, dal rapporto con lo Stato) enumera lo status civitatis e lo status activae civitatis; oppure, agli inizi del secolo, Romagnosi, che, mentre affermava che il cittadino è membro di “un’unione di persone” che godono, oltre che dei diritti originari, dei diritti “compresi nell’atto di unione”, dichiarava che “cittadinanza” dev’essere intesa come “uno di quei diritti chiamati dai legisti col nome di universali”, dev’essere usata come un termine riassuntivo della complessiva posizione giuridica del soggetto di fronte alla comunità politica [6].
In secondo luogo – ed è il profilo che più importa – la definizione marshalliana di cittadinanza deve essere storicizzata non soltanto evocando la serie (più o meno lunga) dei suoi “precedenti”, ma soprattutto riferendosi alla congiuntura storica entro la quale essa prende forma ed esplicitando le precise intenzioni ideologico-politiche che la sostengono [7]. Il testo marshalliano registra esigenze e aspettative caratteristiche di una cultura ampiamente diffusa, nel secondo dopoguerra, in Inghilterra non meno che in Italia: anche solo per parlare dell’Italia, la partizione marshalliana dei diritti (la triplice categoria dei diritti civili, politici e sociali), la convinzione che essi si affermino storicamente per ondate successive e giungano finalmente, tutti insieme, a offrire alla cittadinanza del XX secolo il suo contenuto peculiare collimano, nella sostanza, con la grande (e discussa) scommessa su cui la maggioranza dell’assemblea costituente, nel ’48, decide di convergere; la scommessa di affiancare ai diritti civili non solo i diritti politici ma anche i diritti sociali, considerandoli momenti fra loro complementari di una complessiva emancipazione umana – una scommessa peraltro già tentata, sulla base di diverse premesse, dalla costituzione weimariana del ’19.
L’operazione teorica intrapresa o avviata da Marshall ridefinendo il termine “cittadinanza” è in linea con l’aspettativa di una democrazia impegnata a mantenere le sue promesse, tesa a coniugare la diminuzione delle disuguaglianze con l’incremento della partecipazione, la moltiplicazione dei diritti con la tenuta dell’ordine. È possibile assumere “come tale” la definizione marshalliana per farla strumento di un’operazione storiografica? La risposta può essere, se si vuole, affermativa, ma devono anche esser messi in chiaro i limiti e i rischi dell’operazione.
Marshall ci offre una definizione ideologica e sostantiva di cittadinanza. Il sociologo inglese non si limita a ri-definire “cittadinanza” invitando a dilatare il suo spettro semantico, precisando che quel termine può svolgere un utile servizio funzionando come termine di collegamento fra aree tematiche distinte, il soggetto, i diritti, la comunità politica. Marshall, nel momento in cui invita a riflettere sull’opportunità di collegare soggetto, diritti e appartenenza, presuppone e fa propria una precisa visione del soggetto, dei diritti e dell’appartenenza: ci dice quali sono i diritti cui egli pensa, li riempie di precisi contenuti, li collega a un’appartenenza a sua volta inseparabile da quell’immagine di democrazia politica e sociale che si offre come l’immanente teleologia della sua ridefinizione del concetto di cittadinanza.
Non sono in questione la legittimità metodologica o lo spessore concettuale della definizione proposta da Marshall. Allo storico però la definizione (ogni definizione) interessa come uno strumento operativo, come un tramite di operazioni ermeneutiche. Occorre allora chiedersi quali operazioni storiografiche siano effettivamente rese possibili da quella definizione. Ora, la definizione marshalliana, proprio perché ideologicamente connotata e sostantivamente pregnante, predetermina in maniera precisa e vincolante il terreno e le caratteristiche della sua applicazione: se la cittadinanza è la sintesi di quei diritti civili, politici e sociali che innervano la partecipazione e danno corpo alla democrazia politica e sociale che Marshall privilegia, la storia che si può venire scrivendo a partire da una siffatta “definizione previa” di cittadinanza non può essere che la ricostruzione della genesi e della graduale affermazione di quel determinato modello politico-sociale assunto da Marshall come contenuto e sostanza della sua ridefinizione di cittadinanza.
Adottare come strumento metalinguistico la definizione marshalliana di cittadinanza è un’operazione perfettamente legittima, a patto però di essere consapevoli dei limiti imposti dal carattere stesso di quella definizione: che non si limita a stabilire un’inedita e interessante connessione formale fra diritti e appartenenza, ma, nel momento in cui imprime una precisa caratterizzazione contenutistica ai diritti, all’appartenenza e quindi alla cittadinanza, pre-costituisce in modo stringente l’orizzonte dell’operazione storiografica che su quella base ci si appresti a compiere. Assumere la definizione marshalliana come presupposizione storico-ermeneutica conduce in sostanza a ripercorre analiticamente il percorso che Marshall stesso delinea nel suo saggio: resta ovviamente aperta la possibilità di una diversa ricostruzione della vicenda, ma sono nettamente predeterminati i suoi confini e le sue principali scansioni.
In realtà, le caratteristiche e i limiti dell’impiego metalinguistico (in funzione storiografica) della definizione marshalliana di cittadinanza sono il risultato obbligato del tipo di definizione proposta da Marshall: una definizione, ripeto, ideologicamente pregnante e sostantivamente ricca. Con apparente paradosso, però, quanto più una definizione è contenutisticamente ricca, articolata e determinata, tanto più il suo impiego come supporto di un’operazione storico-ermeneutica diviene problematico perché fortemente vincolante. Quando si muove (implicitamente o esplicitamente) da una definizione “forte” e sostantiva di cittadinanza (o di democrazia, o di libertà ecc.), la storia che, a partire da essa, ci si appresta a narrare è una storia di quella definizione, più che una storia condotta attraverso essa. La definizione non è più soltanto il punto di partenza, ma è anche il punto di arrivo e la storia che si viene narrando è la ricostruzione di un processo circolare che si diparte da un modello (nel caso di Marshall il modello di democrazia politico-sociale del pieno secolo XX), va alla ricerca dei suoi stadi formativi ed evolutivi e torna al suo punto di origine.
È perfettamente plausibile assumere lo schema marshalliano come alveo nel quale contenere per intero la propria ricerca storiografica quando l’obiettivo perseguito sia appunto quello di ricostruire il nesso fra diritti e partecipazione nelle moderne democrazie europee. Credo però vi siano anche possibilità alternative (o comunque ulteriori), che emergono quando si rifletta più da vicino sulle condizioni dettate dall’uso metalinguistico di “cittadinanza”. Occorre insomma chiarire “che cosa si fa”, che cosa si intende fare, quando ci si accinge a impiegare questo termine come guida, come binario delle nostre operazioni storico-ermeneutiche. In questa prospettiva, Marshall costituisce certo un fecondo punto di partenza, ma non ci offre una definizione di cittadinanza immediatamente spendibile per qualsivoglia operazione storiografica. Perché questo sia possibile occorre a mio avviso non già prendere per buona la definizione marshalliana, ma lavorare ulteriormente su essa: occorre, per un verso, accettarne e svilupparne l’intuizione di fondo, ma, per altro verso, depurarla dalle sue implicazioni valutative, dalle sue determinazioni sostantive, dalle sue componenti assertive. Occorre insomma trasformarla da un modello ideologico-politico, impegnato a descrivere-valutare un preciso contesto storico-sociale, in una serie di concetti fra loro collegati, ma indeterminati nei loro contenuti.
Non sto difendendo l’immagine (difficilmente sostenibile al termine di un dibattito ermeneutico più che secolare) di un’operazione interpretativa preservata dagli interessi, dalle passioni, dal radicamento storico-culturale, dai pregiudizi dell’interprete. Dò per scontato che una qualsiasi storia della cittadinanza include una componente (implicitamente o esplicitamente) valutativa; ritengo altrettanto acquisito che l’intervento di “prosciugamento” cui voglio sottoporre la definizione metalinguistica di cittadinanza sia tendenziale e asintotico e che al fondo di qualsiasi “formale” definizione continui a resistere contro ogni operazione di de-sostanzializzazione un irriducibile nucleo “contenutistico” e “valutativo”; infine, valutativa e storicamente radicata nel mondo dell’interprete (nel “nostro” mondo) è la scelta stessa del tema “cittadinanza” e la “decisione” di proporlo come una nozione strategicamente rilevante nel concerto dei concetti politico-giuridici.
Se questo è (lapalissianamente) vero, è però a mio avviso altrettanto vero che resta all’interprete un consistente margine di manovra: non ogni definizione è eguale a qualsiasi altra e dal riconoscimento dell’esistenza di un irriducibile plafond sostantivo e valutativo non consegue la tesi dell’impossibilità di mettere a punto un apparato linguistico-concettuale relativamente indeterminato sul piano semantico, il più possibile aperto e disponibile ad assumere contenuti volta per volta diversi.
L’uso metalinguistico dei concetti (in funzione di operazioni storico-ermeneutiche) impone una trasformazione alchemica dei concetti stessi, che, con apparente paradosso, serve a renderli non già più ricchi ed esplicativi, bensì più deboli e problematici. Vorrei esprimere questo punto di vista con la seguente formula sintetica: i concetti metalinguistici svolgono al meglio la loro funzione (quella di rendere possibili successive operazioni storico-ermeneutiche) se si risolvono non già in asserzioni, bensì in domande. Il concetto metalinguistico cui voglio ricorrere non deve già dirmi “chi è l’assassino”, “chi è il marito” e “chi è l’amante”, lasciandomi semplicemente l’onere di ricostruire per filo e per segno come effettivamente siano andate le cose e quali siano i fatti e i misfatti occorsi nella drammatica vicenda. Il metalinguaggio deve darmi soltanto la possibilità di ipotizzare che fra diverse dramatis personae esistano relazioni magari insospettate: deve permettermi solo di formulare qualche domanda indiscreta, di chiedermi che tipo di relazione possa correre fra Tizio, Caio e Sempronia, senza che siano predeterminati l’abbigliamento, l’indole, il volto dei protagonisti e l’intreccio delle loro azioni.
Fuor di metafora: non ho bisogno (in funzione storico-ermeneutica) di una teoria “forte” della cittadinanza, di una filosofia aggiornata e attendibile che mi dica esattamente “che cosa siano” i diritti, i doveri, l’appartenenza, che attribuisca loro precisi e fondati contenuti; mi servono piuttosto definizioni meramente orientative e ipotesi di relazioni formali fra concetti che, dispensandomi da pregiudiziali asserzioni impegnative, mi permettano di porre domande al passato: sarà il passato, saranno gli innumerevoli e diversissimi testi e contesti del passato, a offrire le risposte alle domande per la cui formulazione il metalinguaggio svolge la sua funzione insostituibile.
È possibile esprimere il senso di questa operazione mutuando spunti dalla riflessione che da tempo la logica, la filosofia del linguaggio e l’etnometodologia [8] dedicano alle “espressioni indessicali“: a locuzioni cioè il cui senso, referente e/o valore di verità variano a seconda del contesto [9]. Non solo espressioni come “io”, “qui”, “ora” e simili, ma anche locuzioni di carattere tipologico ed espressioni (anche molto diverse fra loro) abitualmente usate nel linguaggio ordinario [10] presentano un margine più o meno ampio di indeterminazione semantica che viene risolta dalla concreta “messa in azione” della locuzione in un dato contesto.
Ora, se il logico ha spesso e volentieri considerato un preoccupante “disturbo” e un problema difficilmente dominabile le espressioni indessicali, l’etnometodologo propone wittgensteinianamente di “prenderle sul serio” assumendole come momenti di una comunicazione produttiva di significati volta per volta diversi a seconda dei contesti. Per quanto ci riguarda, ciò che per il “logico” è un inconveniente – il carattere semanticamente indefinito di un termine – diviene, per la definizione metalinguistica che andiamo cercando, la più raccomandabile qualità. Mettere a punto, “oltre Marshall”, una definizione metalinguistica di cittadinanza significa assumere “cittadinanza” (e il reticolato delle sue connessioni tematiche) come un’espressione (una serie di espressioni fra loro collegate) “indessicale”: significa preservare a “cittadinanza” quel margine di indeterminatezza semantica che la rende flessibile e quindi euristicamente efficace; assunta come locuzione indessicale, “cittadinanza” permette “a definite collection of ‘considerations’ without providing a boundary”, dal momento che il passaggio dalla indeterminazione alla “definiteness” “is assured by circustamstantial possibilities of indefinite elaboration” [11]. La definizione metalinguistica di “cittadinanza” si rende un utile strumento di operazioni storico-ermeneutiche in quanto si traduce non in asserzioni vincolanti, ma in domande aperte e impregiudicate: adattando al nostro caso un suggerimento di Richards [12], converrebbe racchiudere “cittadinanza” (e le sue interne articolazioni) fra un doppio punto interrogativo, converrebbe scrivere “?cittadinanza?” per sottolineare l’esigenza di intenderla come un “outset specifically undecided”[13].
Quali sono le domande nelle quali il lemma “cittadinanza” può risolversi? Fino alla recente fortuna della definizione marshalliana la risposta sarebbe stata piuttosto prevedibile: nel linguaggio quotidiano come nel linguaggio dei giuristi l’associazione più immediata e spontanea suscitata dall’espressione “cittadinanza” si sarebbe identificata con l’opposizione cittadino/straniero.
Si tratta di un’opposizione concettuale relativamente agevole da trattare in termini metalinguistici. Le domande che sulla base di essa si possono formulare riguardano il problema del rapporto fra comunità politiche indipendenti: si tratterà allora di capire il gioco del “dentro” e del “fuori”, le condizioni di immissione nella comunità dell’estraneo oppure, simmetricamente, dell’espulsione del “cittadino” (il capitolo che classicamente i giuristi intitolano all’acquisto e alla perdita della cittadinanza), lo statuto giuridico e sociale dello straniero, la molteplicità delle figure che esso assume nei confronti della comunità [14].
Il nesso fra la presupposizione metalinguistica e la ricerca storiografica è in questo caso limpido e semplice, perfettamente corrispondente all’esigenza metodica cui prima mi richiamavo, quella di disporre di un concetto metalinguistico semanticamente aperto e contenutisticamente “debole”. L’immagine del “dentro” e del “fuori” (per continuare a utilizzare una metafora peraltro difficilmente sostituibile), l’opposizione concettuale fra due o più classi di soggetti in ragione della loro appartenenza o non appartenenza a una comunità politica si prestano a tradursi in domande “aperte”, non predeterminate contenutisticamente e come tali riferibili ai più diversi contesti: posso con ragionevole plausibilità interrogarmi sul rapporto fra cittadino e straniero a proposito della polis greca, del comune medievale, della Francia rivoluzionaria o della Germania nazionalsocialista. So già in partenza (approssimativamente, indicativamente) quello che voglio sapere, ho una domanda da porre, un tema da declinare “al passato” – dispongo di una presupposizione ermeneutica senza la quale la ricerca storiografica non sarebbe pensabile – ma mi avventuro nel mio “viaggio nel tempo” con un bagaglio estremamente leggero: non avanzo nella giungla portando con me la mia casa e tutte le sue suppellettili, ma uso solo gli strumenti cartografici indispensabili per seguire una traccia, per indirizzarmi a una meta.
L’uso metalinguistico della nozione (per intendersi) “tradizionale” di cittadinanza (centrata sull’opposizione cittadino/straniero) è dunque (nella mia prospettiva) tranquillamente raccomandabile proprio perché quella nozione possiede la caratteristica di essere tipicamente indessicale e di prestarsi quindi a essere tradotta in una serie di “domande” riferibili ai più vari contesti. Credo anche però che questa nozione “tradizionale” non sia l’unica possibile e che il recente dibattito teorico-politico, che ha di nuovo “messo in circolazione” l’idea marshalliana di cittadinanza, possa offrire suggerimenti preziosi anche per le indagini storiografiche. Perché questo avvenga non possiamo comunque, a mio avviso, recepire e utilizzare come tale la definizione marshalliana: anche in ragione della sua relativa novità “cittadinanza” non è una nozione già pronta per un uso storiografico facile e immediato, ma è un concetto che merita di essere approfondito e articolato perché possa dispiegare pienamente la sua fecondità euristica.
In questa prospettiva conviene sviluppare fino in fondo l’idea prefigurata da Marshall e porre al centro del tema “cittadinanza” il problema dell’identità politico-giuridica del soggetto. Occorre lavorare intorno a questo nucleo tematico, coglierne tutte le implicazioni e le connessioni, utilizzare e sviluppare le intuizioni marshalliane, ma nel contempo svuotare la definizione di cittadinanza delle sue determinazioni sostantive, trasformarla in una rete di locuzioni indessicali, quindi in una serie di “domande” aperte e contenutisticamente impregiudicate.
I termini essenziali di una siffatta ridefinizione di “cittadinanza” sono a mio avviso i seguenti: il soggetto, l’insieme delle caratteristiche e delle prerogative che volta per volta gli vengono attribuite, il rapporto di appartenenza che lo lega a una comunità politica, l’ordine complessivo che da tutto ciò scaturisce.
Perché ricorrere all’espressione “cittadinanza”? Mi sembra che almeno due motivi militino a favore di questa scelta. In primo luogo, disporre di un’espressione unitaria permette di sottolineare plasticamente il necessario agencement dei suoi termini costitutivi. Lavorare intorno alla cittadinanza non è allora lavorare su temi che procedono per linee parallele – il soggetto, le sue prerogative e i suoi oneri, la comunità politica, l’ordine; ma è al contrario sottolineare l’esigenza di cogliere i punti di innesto fra queste diverse “grandezze”. In secondo luogo, e di conseguenza, parlare di cittadinanza in questa nuova accezione suggerisce di assumere come prioritario un punto di osservazione: il soggetto. Parlare di cittadinanza significa insomma guardare il costituirsi dell’ordine e lo strutturarsi della comunità politica dal basso verso l’alto, dal soggetto all’assetto oggettivo: il punto di vista della cittadinanza è il punto di vista del soggetto, è lo sguardo del soggetto sulla comunità politicamente ordinata.
In questa prospettiva, “cittadinanza” si propone come il punto di raccordo fra una serie di espressioni semanticamente aperte e in questo senso funziona come un programma di operazioni storico-ermeneutiche fra loro connesse. “Cittadinanza” è insomma un concetto che permette di formulare una serie di domande insistendo sull’ipotesi del loro essenziale collegamento: non sappiamo a priori “che cosa sia” cittadinanza; sappiamo solo che parlare di cittadinanza è parlare del nesso fra alcune grandezze (il soggetto, le sue prerogative e i suoi oneri, la comunità politica, l’ordine), ancora largamente indefinite e disponibili ad assumere i più vari significati una volta che siano “calate” nell’uno o nell’altro contesto.
La prima “grandezza” è la domanda sul soggetto individuale: una domanda che, nella logica della “cittadinanza”, occupa una posizione strategica, dal momento che è il soggetto, il suo “punto di vista”, l’angolo prospettico dal quale guardare il costituirsi dell’ordine. Chi sia l’individuo non è però né una domanda ingenua né un dato acquisito, ma una domanda aperta alle più diverse risposte. L’individuo non è ovviamente una realtà omogenea e sempre eguale a se stessa, bensì è la risultante di complesse strategie socio-culturali che lo “costituiscono”, lo plasmano, lo rappresentano diversamente nei diversi contesti, gli attribuiscono contrassegni di identità, gli riconoscono pretese, gli impongono oneri volta per volta diversi. Il costituirsi dell’identità politico-giuridica del soggetto è quindi la prima domanda, in qualche modo la domanda inaugurale e fondante, di una riflessione intorno alla “cittadinanza”.
Certo, il discorso sull’individuo che si apre a partire dal tema “cittadinanza” non coinvolge la soggettività nell’intero spettro (ovviamente amplissimo) delle sue manifestazioni: l’inchiesta sul soggetto è comunque “guidata” dal nesso che questo intrattiene con le “grandezze” collegate; se è vero che “cittadinanza” implica guardare all’ordine politico a partire dal soggetto, è anche vero che del soggetto la cittadinanza tematizza quei profili che nell’uno o nell’altro contesto vengono assunti come rilevanti per il costituirsi del rapporto con la comunità politica.
Non si presuppone dunque l’esistenza di un soggetto “come tale” né si assume una determinata figura di soggetto come protagonista della storia della cittadinanza: si ipotizza l’esistenza di una fenomenologia della soggettività estremamente ricca e storicamente diversificata e con essa si tenta di fare i conti nel momento in cui ci si interroga sul nesso che l’individuo (questo individuo, plasmato originalmente dalle regole interattive che ne determinano l’identità) intrattiene con la comunità politica e con l’ordine complessivo.
Ecco allora intervenire la seconda “grandezza” (la seconda domanda) implicata dal tema “cittadinanza”, appunto il regime dei rapporti che collegano un soggetto a una collettività politicamente organizzata. È a questo proposito che Marshall ha insistito sul nesso fra “diritti” e “appartenenza”. Occorre però procedere con cautela: occorre, per un verso, allargare le maglie della definizione marshalliana, e, per altro verso, intervenire ancora una volta per evitare ogni vincolo eccessivamente “contenutistico”.
Il nucleo importante che dev’essere salvato ed evidenziato è, in primo luogo, il fatto che parlare di “cittadinanza” significa interrogarsi sul nesso fra soggetto e ordine (a partire dal soggetto), nella convinzione che fra individuo e comunità politica si sviluppi una complessa “partita doppia” di prerogative e oneri da cui dipende in modo decisivo l’identità politico-giuridica del soggetto.
Devono restare invece impregiudicati i contenuti di cui la relazione fra individuo e collettività si riempie perché è proprio questa una delle domande centrali che la nozione metalinguistica di cittadinanza permette di formulare. Occorrerà impiegare quindi con prudenza la stessa espressione “diritti” e “doveri” soggettivi: come il soggetto individuale, così il “diritto del soggetto” non può essere assunto come una nozione evidente, sempre eguale a se stessa, in qualche modo scontata; non daremo per già noto ciò che al contrario costituisce una delle nostre più rilevanti domande: come cioè al soggetto vengano riconosciute una serie di prerogative e di oneri. Quali siano queste prerogative, come siano fondate, come vengano rafforzate o sfidate dal nesso con la civitas, come vengano tradotte in veri e propri “diritti” (e quale sia il senso che volta per volta venga attribuito a questa espressione): sono queste le domande “reali”, non retoriche, che l’impiego metalinguistico di “cittadinanza” ci induce a formulare e le risposte non possono essere pregiudizialmente racchiuse nelle nozioni metalinguistiche impiegate come “guida” della concreta indagine storico-ermeneutica; al contrario, la nozione metalinguistica di “cittadinanza” deve servire a formulare quelle domande nel modo più “aperto” possibile, adatto a valorizzare le più diverse risposte.
Non conviene dunque irrigidire (marshallianamente) il nesso partecipazione-diritti soggettivi, come se non fosse storicamente possibile immaginare una “partecipazione” (alla comunità politica) che non si traduca in un preciso sistema di “diritti soggettivi”, oppure, viceversa, come se non fosse possibile attribuire al soggetto un nutrito corredo di diritti senza passare attraverso la porta stretta dell’appartenenza. Valgano due esempi, eguali e contrari, a illustrazione di questo assunto.
Il primo esempio: la civitas medievale. In quel contesto il regime di rapporti che si instaura fra l’individuo e la comunità politica è costellato di oneri e prerogative che definiscono l’identità politico-giuridica dell’individuo in accordo con le strutture (culturali e materiali) della diseguale e gerarchica società medievale. Possiamo, se si vuole, parlare di “diritti del soggetto”, legati al rapporto di appartenenza fra il cittadino e la città: dovremo però stare molto attenti a non fare di ogni erba un fascio e scambiare l’univocità del nome con l’identità della cosa; e converrà allora giocare più sulle differenze specifiche che sulle assonanze generiche e mettere in evidenza la peculiarità di un sistema di prerogative e oneri che presuppone la disuguaglianza giuridica fra i soggetti, la dottrina degli status, un amalgama strettissimo fra le dimensioni giuridica, etica e religiosa.
Se dunque in questo caso il nesso fra soggetto e comunità dà luogo a una serie di pretese e oneri difficilmente riconducibili allo schema (tipicamente moderno) del “diritto soggettivo”, non mancano esempi perfettamente eguali e contrari, dove l’attribuzione dei diritti prescinde completamente dai legami di appartenenza [15]. È fin troppo facile il riferimento al paradigma giusnaturalistico sei-settecentesco. In questo caso, è la stessa rappresentazione del soggetto (la “prima domanda” posta dal tema “cittadinanza”) a imporre l’attribuzione di “diritti” all’individuo come tale, programmaticamente escludendo il collegamento con la comunità politica come fondamento obbligato dei diritti stessi. Se chiudessimo la nostra nozione metalinguistica di cittadinanza nel (marshalliano) cerchio “partecipazione-diritti”, dovremmo cancellare come “non pertinenti” l’intera tradizione giusnaturalistica e buona parte dei dibattiti svoltisi negli anni della rivoluzione francese.
La soluzione è comprensibilmente diversa quando la nozione metalinguistica di “cittadinanza” viene usata per mettere in relazione fra loro una serie di domande che partono dal soggetto e sfociano nel rapporto con la comunità politica. Non muoviamo insomma dall’ipotesi marshallianamente vincolante che non si danno diritti se non radicati nel nesso di appartenenza dell’individuo alla civitas: ipotizziamo che nel mondo e nella storia vi siano più cose di quelle marshallianamente prevedibili e non ci precludiamo la possibilità di offrire risposte estremamente diversificate alla nostra domanda, la domanda sull’identità politico-giuridica del soggetto. Il paradigma giusnaturalistico è allora una risposta alla nostra “catena” di domande fra loro collegate (soggetto-comunità politica-ordine): una risposta che, in questo caso, sposta sull’individuo il fondamento dei diritti ma non per questo omette di prendere in considerazione il rapporto intrattenuto con la comunità politica dal soggetto (che è quel soggetto, il soggetto immaginato in una caratteristica temperie culturale, il soggetto determinato nella sua identità dai diritti e dai doveri naturali).
Il tema “cittadinanza” non si identifica con il nesso appartenenza-diritti: per un verso, perché i diritti sono solo una delle espressioni storicamente diversificate dei contenuti dell’appartenenza, per altro verso perché è il soggetto (in tutta la varietà dei modi in cui viene rappresentato e “identificato”) la prima domanda sollecitata dal tema “cittadinanza”. Diviene allora comprensibile e pertinente con il tema “cittadinanza” – tanto per fare un altro esempio – una dialettica fra immagini e tradizioni diverse che costituisce uno dei campi di tensione caratteristici della rivoluzione francese: la dialettica fra la “universalistica” attribuzione dei diritti (libertà, proprietà) ai soggetti come tali e la “particolaristica” celebrazione del legame fra soggetto e nazione (quindi la dinamica dei diritti politici, da un lato, e, dall’altro lato, il tema del “diritto al soccorso”). Ad applicare letteralmente lo schema marshalliano identificando “cittadinanza” con il nesso immediato fra appartenenza e diritti, ci troveremmo di fronte a una strana dissociazione priva di termini di mediazione: saremmo di fronte a una cittadinanza rivoluzionaria che difende con una mano ciò che sembra contrastare con l’altra. Se invece “cittadinanza” indica una serie di domande che partono dal soggetto e giungono all’ordine socio-politico, tanto la declinazione del soggetto (e dei suoi diritti naturali) quanto il suo rapporto di appartenenza alla comunità politica, pur attivando diversi schemi fondativi, appartengono a un campo enunciativo profondamente unitario.
Occorre quindi giocare su una definizione previa (metalinguistica) di cittadinanza che valorizzi ciascuno dei suoi termini costitutivi (il soggetto, il nesso con la comunità politica, l’ordine complessivo) e le loro relazioni, ma si sforzi di evitare un’impegnativa determinazione dei loro contenuti in modo da poter trasformare gli enunciati in domande disponibili a raccogliere dai vari contesti le risposte pertinenti. Come per il soggetto e per l’appartenenza così anche per la comunità politica (il terzo importante anello della catena tematica della cittadinanza) vale la medesima regola precedentemente enunciata: nemmeno l’idea di comunità politica deve essere rigidamente e sostantivamente caratterizzata; o almeno: quanto più la si determina rigidamente tanto più si restringe la possibilità di un suo impiego flessibile e vario. Certo, niente impedisce di dare alla comunità un contenuto modellato, tanto per fare un esempio, sulle caratteristiche di un moderno Stato nazionale, purché però non si pretenda di applicare un siffatto schema metalinguistico a una realtà con esso incompatibile. Quando invece si voglia cogliere la molteplicità delle risposte che diversi contesti storici offrono al medesimo problema conviene far uso di una nozione semanticamente aperta di “ente collettivo”: solo per questa via sarà possibile apprezzare e valorizzare la varietà dei percorsi che dal soggetto conducono alla comunità politica e alla costruzione dell’ordine.
Giunti a questo punto, credo di poter esplicitare la risposta alla domanda che mi sono posto all’inizio della relazione: mi chiedevo che cosa significa fare storia della cittadinanza, ma la mia sensazione è che in realtà non esiste una storia della cittadinanza; non soltanto perché (com’è ovvio) ogni interprete si crea il proprio tragitto e attinge risultati originali anche quando l’alveo generale della ricerca è ormai in qualche modo definito e consolidato, ma anche e soprattutto perché si narrano storie profondamente diverse a seconda del metalinguaggio adottato; e dato che la nozione metalinguistica di “cittadinanza” (nella sua più dilatata significazione) è ancora fluida e recente, alla diaspora dei punti di partenza non può non corrispondere una grande varietà dei concreti percorsi di ricerca.
Se poi si passa a considerare l’altro polo della ricerca storico-ermeneutica, non lo strumentario concettuale che la rende possibile permettendo di formulare la domanda da rivolgere al passato ma il “livello di realtà” sul quale la ricerca si concentra, la molteplicità degli approcci aumenta esponenzialmente.
La mia impressione è che anche per la storia della (o intorno alla) cittadinanza entri in gioco una distinzione che tendiamo a dare per superata nella teoria, ma che si ripropone sempre di nuovo nelle concrete strategie di ricerca: la distinzione fra pratiche sociali e discorsi. Certo, ripetiamo tutti con Foucault che i discorsi sono pratiche e che le pratiche passano attraverso i simboli, le strategie discorsive, i processi comunicativi. Non sono però sicuro che questa convinzione teorica si rifletta senza distorsioni nelle nostre ricerche sul campo. Mi sembra più frequente – e comunque è questo certamente il mio caso – una strategia euristica che si orienta prioritariamente all’uno o all’altro livello di realtà e si propone volta per volta come analisi di pratiche o di discorsi.
Certo, in entrambi i casi, la domanda di fondo, la domanda sulla cittadinanza, può restare la medesima: ci si interroga comunque sul soggetto, i diritti e l’appartenenza. Mutano però la strumentazione della ricerca e i profili della realtà volta per volta indagati, tanto da indurmi a chiedere – ma non è una domanda retorica – se al carattere unitario della domanda segua necessariamente un campo unitario della cittadinanza, un luogo ideale nel quale ricerche fra loro diversissime si incontrano sullo stesso piano. Mi spiego con un esempio banale: interrogarsi sugli oneri e i privilegi che definiscono la condizione dei soggetti nella Firenze del Trecento e ricostruire la rappresentazione tomistica della civitas sono itinerari di ricerca che dipendono, se si vuole, dalla medesima domanda, ma il loro punto di incontro non è così ovvio e scontato e dev’essere scoperto e costruito, piuttosto che semplicemente presupposto.
Complichiamo ulteriormente il quadro: mi sono riferito alla grande dicotomia fra pratica e discorso come se quest’ultimo fosse una totalità omogenea. In realtà, non esiste un discorso, ma un’enorme varietà di discorsi, caratterizzati da immagini, strategie argomentative, finalità retoriche profondamente diverse. Si ripropone dunque, anche quando ci si riferisca a un livello di realtà in qualche modo, intuitivamente, più omogeneo – i discorsi, o, se si preferisce, le pratiche discorsive – la domanda precedente: se esista in senso proprio una storia della cittadinanza come storia di un discorso unitario oppure esistano piuttosto storie fra loro diverse non solo perché, com’è ovvio, raccontano cose diverse del medesimo discorso, ma perché insistono su oggetti solo apparentemente simili.
Non soltanto dunque la pluralità delle possibili definizioni metalinguistiche di “cittadinanza”, ma anche la diversità delle esperienze (pratiche sociali, discorsi) sulle quali si appuntano le operazioni storico-ermeneutiche e infine la molteplicità e la varietà dei discorsi concretamente esistenti (pur riconducibili a un “livello di realtà” relativamente omogeneo) sono elementi che rendono frastagliato e “plurale” il campo della storia, anzi delle “storie”, della cittadinanza. Non esiste un unico e vincolante punto di partenza metalinguistico né esiste un unico e obbligato “linguaggio-oggetto” sul quale tutti convergono: è piuttosto determinante la “decisione” teorica grazie alla quale ogni ricercatore ritaglia dal magma delle esperienze il “suo” discorso della cittadinanza in base ad alcuni indicatori convenzionalmente determinati.
2. Qual è il “mio” discorso della cittadinanza? I testi che interrogo intorno alla cittadinanza hanno in comune la caratteristica di offrire una rappresentazione generale e astratta del soggetto, dei diritti, dell’appartenenza alla comunità politica. Sono testi ascrivibili a diversi generi letterari – testi appartenenti alluno o all’altro sapere specialistico, oppure riconducibili a un più eterogeneo e composito “discorso pubblico” – ma sono comunque testi animati, per così dire, dal pathos della verità: testi cioè che, anche quando vengono a esistere e a funzionare nel vivo della lotta politica, intendono comunque offrire una visione complessiva della cittadinanza.
Come leggere questi discorsi? Per noi, eredi, nonostante tutte le crisi e i superamenti, del neopositivismo novecentesco, la distinzione fra descrizione e valutazione rischia di essere una sorta di riflesso condizionato. Credo però che questa distinzione sia sostanzialmente improponibile per un lungo arco del discorso della cittadinanza: dove descrizione e valutazione, costruzione di un modello e scelta di valori, strategie dimostrative e perorazioni persuasive formano un tutto inscindibile. Il discorso della cittadinanza funziona come discorso pubblico in quanto è un amalgama che, in modo sempre diverso ma quasi senza eccezione, miscela dimostrazioni e valutazioni pur entro un impianto argomentativo teso a cogliere i profili generali dell’ordine politico.
Il discorso della cittadinanza di cui mi occupo si traduce in un pulviscolo di strategie differenziate, in una varietà di testi e contesti difficilmente riconducibili a tipologie unitarie. Non è ovviamente possibile non dico analizzarli ma nemmeno presentarli sommariamente nella cornice di una semplice relazione. Posso solo menzionare tre o quattro temi che, senza coinvolgere il discorso della cittadinanza nella sua interezza, presentano tuttavia un carattere di maggiore generalità e possono valere come esempi di una prospettiva di ricerca ispirata alle considerazioni metodologiche prima illustrate.
Una mia impressione è che, nel lungo svolgersi del discorso della cittadinanza dall’ancien régime all’età contemporanea, la rivoluzione francese costituisca una svolta epocale, una scansione decisiva, non perché inventa carte da gioco mai viste, bensì perché dà inizio a nuovi giochi impiegando carte da tempo esistenti. Mi sembra insomma che per il discorso della cittadinanza la rivoluzione introduca una profonda innovazione in quanto viene a costituire un momento di saldatura fra due tradizioni che per lungo tempo si erano svolte su linee parallele.
Vorrei chiamare la prima tradizione la tradizione corporatista: una tradizione che affonda le sue radici nella cultura medievale ma continua a vivere, più o meno allo scoperto, nelle società europee di antico regime; una tradizione imperniata sul legame stretto e inscindibile fra l’individuo e la civitas, fra l’individuo e una comunità politica rappresentata impiegando l’antica metafora del corpo. In questo schema l’individuo non è pensabile se non come parte vitale della collettività: la posizione dei soggetti non è definita da un catalogo di astratti diritti eguali, ma dal loro differenziato e impegnativo rapporto con il corpo, che a sua volta si piega soccorrevole verso i suoi membri. È su questo sfondo corporatista e cittadino che si sviluppa una lunga tradizione repubblicana che continua a vivere nel Settecento e arriva alle soglie della rivoluzione: la tradizione della virtù, della virtù civica, dell’impegno partecipativo e attivo dei cittadini come fondamento e alimento dell’ordine politico.
Accanto, se non di contro, alla tradizione corporatista si sviluppa però, a partire dall’invenzione seicentesca del paradigma giusnaturalistico, un’altra tradizione, che, lungi dal celebrare il legame naturale fra l’individuo e il corpo, strappa il soggetto ai corpi, ne fa il titolare “immediato”, almeno in stato di natura, dei diritti e lo assume come cifra esplicativa dell’ordine e della sovranità.
È nel discorso rivoluzionario della cittadinanza che queste due tradizioni entrano in contatto. Certo, un geniale, anche se problematico, tentativo di comporle era stato compiuto da Rousseau: ma nella rivoluzione le due tradizioni si incontrano di prepotenza, senza troppo badare a sottili mediazioni teoriche, incalzate dall’urgenza e dalla novità del contesto. Come avviene l’incontro fra le due tradizioni, fra il linguaggio dei diritti e il linguaggio del corpo?
La Rivoluzione è una rivoluzione dei diritti: lo è nell’89 come nel ’93; è una rivoluzione che annuncia al mondo i diritti inalienabili del soggetto, la libertà, la proprietà, e reclama la necessità di costruire un ordine su misura del soggetto e dei suoi diritti. Annunciare i diritti è però per gli uomini della rivoluzione un gesto eversivo e costruttivo insieme: con i diritti si abbatte il regime antico e sui diritti si costruisce il regime nuovo. Per questa gigantesca opera di distruzione e di edificazione occorre un soggetto collettivo: lo capisce Sieyès nell’89, ma in realtà tutti gli uomini della rivoluzione si impegnano nello sforzo collettivo di inventare la nazione; dove con “inventare” non si intende ovviamente la creazione ex nihilo, ma la ridefinizione creativa di un termine da tempo esistente.
È la nazione – le ventimila parrocchie di Sieyès – che si fa avanti come il vero mythomoteur della rivoluzione; è la nazione che, come nuovo soggetto collettivo, si propone di raccogliere le energie partecipative, i valori, i meccanismi di identificazione di cui era stata per lungo tempo beneficiaria la città proiettandoli sullo scenario grandioso (e inevitabilmente “immaginario”) di un paese di “venti milioni di cittadini”.
Diritti del soggetto e impegno soccorrevole della nazione – non dimentichiamo che Sieyès, non solo i giacobini, parlano di “diritto al soccorso” – libertà e virtù, interessi individuali e proprietà, ma anche attivismo politico e impegno civico, uomo e cittadino, insomma, come momenti complementari del discorso rivoluzionario della cittadinanza: ecco la quadratura del circolo e l’originale composizione di due antiche e difformi tradizioni.
Sto ovviamente semplificando: in effetti il discorso rivoluzionario, se per un verso si propone come sintesi riuscita dei due diversi idiomi, il linguaggio dei diritti e quello del corpo, costituisce in realtà anche un campo di tensioni esplosive che mostreranno tutta la loro virulenza nei decenni successivi.
L’impressione che si prova guardando dall’alto ai discorsi della cittadinanza venuti ad esistenza fra l’89 e il ’48 è quella di un’impressionante moltiplicazione di immagini di cittadinanza fra loro incompatibili. È possibile individuare comunque qualche tema che, per così dire, tagli trasversalmente discorsi della cittadinanza fra loro molto diversi?
Un primo profilo, se si vuole formale e astratto ma non trascurabile, è l’esigenza di ridefinire, insieme, il soggetto e l’ente collettivo spostando l’accento dal primo al secondo.
È per questo che si prendono le distanze dalla rivoluzione e dall’illuminismo: li si accusa – a torto – di essere i campioni di un individualismo distruttivo, negativo, insofferente ai legami, insensibile nei confronti del momento unitivo e solidale del vivere politico, si va in cerca delle radici comunitarie dell’esistenza individuale, si indica nell’ente collettivo il tramite dell’identità politico-giuridica del soggetto.
Certo, la convergenza si arresta all’esigenza “strategica” e “formale” di porre l’accento sul ruolo centrale dell’ente collettivo e dell’appartenenza; mentre si moltiplicano schemi e immagini incompatibili quando ci si appresta a riempire di precisi contenuti la rappresentazione del soggetto e del suo rapporto con la comunità politica.
Si guardi alla lunga e complessa vicenda dello storicismo tedesco; si guardi a Savigny e alla giuspubblicistica; si guardi al romanticismo politico, si guardi a Hegel; e troveremo innumerevoli variazioni sul tema del Volk, del popolo storicamente individuato, un popolo che si realizza organicamente nello Stato e viene continuamente contrapposto alla contrattualistica e individualistica nazione del “modello francese”. Il discorso dei diritti, la celebrazione del soggetto e della sua libertà non sono elisi, ma passano obbligatoriamente attraverso l’entità collettiva del popolo-Stato.
Se in Germania si guarda al popolo-Stato, in Francia si procede a quella che è stata efficacemente chiamata, da Donzelot [16], “l’invenzione del sociale”, che ha in Comte la sua più sistematica espressione e produrrà consistenti effetti soprattutto nella seconda metà del secolo: sono la società, la solidarietà sociale, l’interazione fra le parti, la divisione del lavoro, la collaborazione, i parametri dai quali far dipendere la comprensione del soggetto e dei suoi diritti. Ancora una volta, ma in tutt’altro contesto, la rivoluzione, proprio perché presentata come il trionfo dell’individuo come tale, appare un momento, pur necessario, di distruttività e negatività che deve essere superato da un ordine dove il soggetto è una cellula dell’organismo sociale e i diritti un’ombra del dovere, il riflesso di una funzione sociale.
Si aggiunga allo Stato della cultura tedesca e alla società della tradizione comtiana la nazione risorgimentale mazziniana e avremo tre modelli di cittadinanza profondamente diversi, ma accomunati dall’esigenza di ridefinire il soggetto e i suoi diritti a partire dall’ente collettivo.
Quale sia lo sfondo che presiede a questa complessa ridefinizione del soggetto e dell’appartenenza è scontato: è lo sfondo dove campeggiano le due grandi questioni destinate a dominare l’Ottocento e il Novecento, la questione nazionale e la questione sociale. Sulla questione sociale, come la si chiamava all’epoca, conviene però soffermarsi: credo infatti che proprio di fronte a essa molti nodi del discorso della cittadinanza vengano al pettine e sia possibile individuare un altro momento di convergenza fra numerosi, e fra loro eterogenei, orientamenti ideologico-politici.
Nell’occhio del ciclone si trova un diritto che ha svolto un ruolo fondamentale nel discorso della cittadinanza, il diritto di proprietà.
La proprietà è, almeno a partire da Locke, un tratto essenziale del soggetto ed è difficilmente separabile dalla libertà: “libertà” e “proprietà” compongono quello che Grozio chiamava il proprium, la sfera di un soggetto “immune”, protetto dalle interferenze esterne; ma “proprietà” è anche garanzia di indipendenza e autosufficienza, segno visibile della razionalità di un soggetto dimostratosi capace di dominare se stesso e le cose esterne, di appropriarsene, di moltiplicarle, di tesaurizzarle.
Nello stesso tempo però la proprietà, soprattutto a partire dagli anni della rivoluzione, diviene anche l’epicentro di tensioni difficilmente componibili. Il grande principio con il quale essa entra in conflitto a partire dagli anni della rivoluzione è l’eguaglianza. Per un verso, il nuovo ordine annunciato dall’89 e realizzato dai codici ottocenteschi (a partire dal Code Napoléon), l’ordine fondato sulla proprietà e sulla libertà, non può prescindere dall’eguaglianza: è l’ordine dei soggetti giuridicamente eguali, egualmente capaci di accedere alla proprietà. Per un altro verso, però, l’eguaglianza mostra un’incoercibile tendenza espansiva e si presta a essere usata per colpire due obiettivi distinti: il nesso proprietà-diritti politici, la differenza radicale che separa i proprietari dai non proprietari.
La corrente percezione della cosiddetta questione sociale – penso, per fare un esempio fra mille, a Lorenz von Stein – passa attraverso la tematizzazione di questa antinomia: da un lato la proprietà, dall’altro lato i suoi effetti perversi, l’esasperazione della diseguaglianza, quindi il conflitto, il pericolo, la minaccia per la tenuta dell’ordine. È intorno a questo tema elementare, svolto in mille variazioni nell’arco del secolo, che viene formandosi una strategia reattiva, un’ipotesi di soluzione, che mi sembra presentare alcuni tratti ricorrenti in discorsi della cittadinanza che pure restano diversi.
I profili principali mi sembrano i seguenti. Si muove da un duplice assunto: la proprietà e la libertà sono il perno di un ordine che coincide con la civiltà e costituisce un punto di non ritorno, un’acquisizione che dev’essere difesa contro le utopie regressive del comunismo e dello statalismo “assoluto”; la proprietà e la libertà però, se sono la condizione necessaria dell’ordine, non appaiono più, contro le tesi ottimistiche degli economisti “classici”, una sua condizione sufficiente. Contro la tesi dell’efficacia ordinante della proprietà e del contratto dilaga la sensazione di una profonda frattura fra le parti sociali, di una conflittualità crescente, che non si riduce a sporadici disturbi dell’ordine pubblico, ma lacera il tessuto sociale, ne compromette l’unità.
Occorre quindi agire: non solo l’agire spontaneo, occasionale, discontinuo della beneficenza privata o delle iniziative locali, provvide ma insufficienti, bensì l’intervento sistematico e lungimirante di un potere che incarni l’entità collettiva e ne realizzi l’unità altrimenti compromessa. Il corpo lacerato della società, la frattura radicale prodotta dalla distinzione fra proprietari e non proprietari, può essere ricomposto soltanto da un’energica azione di sutura di cui il corpo stesso si fa protagonista.
L’azione unificante dell’entità collettiva (lo Stato, il potere sociale, la nazione) ha però limiti precisi e invalicabili: presuppone la proprietà e considera provvide le differenze e la competizione; il suo intervento è secondario e suppletivo; lenisce le ferite prodotte dalla pur necessaria competizione; diminuisce le differenze ma non le abolisce; le tempera per poter proporsi come simbolo di identità collettiva e di infrangibile unità.
L’ordine non nasce spontaneamente dall’interazione dei soggetti liberi e proprietari; l’ordine presuppone la valorizzazione dell’appartenenza e la messa a punto di simboli e di pratiche d’inclusione: l’ordine nasce e tiene, ha la meglio sul conflitto e sulle sempre ricorrenti tendenze centrifughe, solo in quanto esiste un ente collettivo che stringe efficacemente a sé i soggetti controllando il conflitto, attenuando le differenze, soddisfacendo i bisogni fondamentali, insomma “governando” i suoi membri. L’istanza governante, la governamentalità diviene, come ha intuito lucidamente Foucault [17], il principale elemento da cui dipende l’innesto dei soggetti nell’ordine: la ridefinizione dei soggetti e dell’ente collettivo passa attraverso il controllo del conflitto, l’impegno dell’amministrazione nella soddisfazione dei bisogni vitali, nel governo della vita quotidiana.
Proprietà, ma anche impegno riformatore; mercato, ma anche dilatazione dell’impegno governante; concorrenza, ma anche intervento pubblico sussidiario a difesa dei bisogni fondamentali; superare l’individualismo sfrenato degli economisti, ma rifuggire da ogni tentazione antiproprietaria, dalle ipotesi, più o meno utopistiche, di collettivizzazione della produzione: la “terza via”, insomma, come via media fra i cattivi estremi dell’anarchia concorrenziale e dello statalismo liberticida.
È questo lo schema retorico soggiacente a numerosissimi e fra loro diversi discorsi della cittadinanza che pure continuano a contrapporsi in mille modi: già prima del ’48, da Bentham agli economisti sociali alla Gérando, alla tradizione tedesca dei giuristi come dei filosofi, questo schema è all’opera, e si diffonde ancora più capillarmente nella seconda metà del secolo, dal solidarismo dei Bourgeois e dei Fouillée, al “nuovo liberalismo” inglese, alla dottrina sociale cattolica da Taparelli a La Tour du Pin, a Toniolo, per non parlare dei tedeschi, da Gierke a Schäffle, al socialismo della cattedra. Certo, resistono ancora gli spenceriani duri e puri: ma verrebbe voglia di dire che, se non fossero esistiti, i teorici della “terza via” avrebbero dovuto inventarli per dar più forza alla loro ricetta.
Mi rendo conto della sommarietà della mia sintesi: spero però che appaia plausibile l’ipotesi di un’ampia diffusione, nel discorso ottocentesco, di una strategia che vorrei dire ispirata al foucaultiano criterio della governamentalità; una strategia che non solo ridefinisce i soggetti e l’entità collettiva, ma sottolinea la necessità di concepire quest’ultima come una forza soccorrevole, come un potere che, nel momento in cui si piega sui bisogni vitali dei soggetti, riesce a controllare il conflitto, salva le gerarchie e le differenze sociali, stringe con egual forza a se stessa i differenti soggetti che la compongono.
Resta però da porre un’ulteriore domanda: che ne è dei diritti in questa accentuazione “governamentale” del discorso tardo-ottocentesco della cittadinanza?
Dal fatto che di frequente si tende a far centro sull’ente collettivo e a ricondurre ad esso il soggetto e i diritti si potrebbe dedurre che questi ultimi tendono a essere svalutati a favore dell’impegno “governante” del potere sociale o statuale. Ciò si verifica sicuramente in alcuni discorsi della cittadinanza, ma non in tutti. Occorre infatti complicare il quadro tenendo conto di una grande dicotomia che attraversa l’intero discorso della cittadinanza ma si accentua drammaticamente a partire dalla rivoluzione francese: la distinzione fra l’ordine effettivo, l’ordine realmente esistente, e l’ordine possibile, un ordine diverso e alternativo al precedente; che però non è l’isola di Utopia, un ordine assolutamente “altro”, ma un ordine possibile, un’alternativa in qualche modo iscritta nelle cose, nella realtà storica, nel presente, un ordine progettabile, un ordine destinato a essere prima o poi realizzato. Diviene allora decisivo per il discorso dei diritti essere attratto dall’uno o dall’altro tipo di ordine, essere cioè coinvolto in un giudizio sulla legittimità dell’esistente, sulla sua storica insuperabilità, oppure essere riferito a un ordine che, nel momento in cui è prefigurato, denuncia le carenze e l’illegittimità dell’assetto reale. Se in un caso i diritti appaiono lo snodo di un ordine esistente, nell’altro caso essi si prestano a essere usati come potenti armi retoriche per la contestazione degli attuali equilibri e la progettazione di un’alternativa.
Questa alternativa strategica e retorica è decisiva in generale, e non solo per il discorso dei diritti, anche se in esso si rivela in modo particolarmente limpido. Si pensi al variopinto carrozzone dei teorici di quella che ho chiamato (per intendersi) la “terza via”: la decisione fondamentale che sostiene quella strategia coincide (non sempre ma spesso) con una scommessa sull’ordine esistente, sulla sua legittimità e insieme sulle sue capacità evolutive e progressive.
In rapporto a questa dicotomia, da un lato si afferma il momento “governamentale” e i diritti restano alla sua ombra, mentre, dall’altro lato i diritti continuano a giocare il vecchio ruolo da essi esercitato negli anni della “grande rivoluzione”: sono proteste contro l’ordine esistente e insieme pedine di un ordine nuovo. La “lotta per i diritti”, tanto per mutuare da Jhering il suo celebre titolo, si presenta allora come un tratto importante del discorso della cittadinanza.
Si pensi ad esempio al ruolo del “diritto al lavoro” nella Francia degli anni Trenta e Quaranta e poi nell’assemblea costituente del ’48: un diritto brandito come strumento di denuncia contro le inadempienze dell’ordine esistente e come vessillo di quel nuovo ordine repubblicano che solo avrebbe potuto e dovuto soddisfare questa nuova e decisiva pretesa dei soggetti. Si pensi ancora alla “lotta per i diritti” portata avanti dalla socialdemocrazia tedesca e dai partiti socialisti europei che la seguono più o meno fedelmente; e che, con un singolare sdoppiamento, dichiarano di seguire Marx nella critica radicale dei diritti, ma nello stesso tempo adottano una strategia che fa dei diritti uno strumento di delegittimazione del potere esistente e di prefigurazione di alternative. È istruttivo da questo punto di vista il confronto con la strategia retorica e politica dei “socialisti della cattedra” e dei solidaristi, interessati a controllare il conflitto valorizzando l’attività governante e amministrativa piuttosto che introducendo un discorso dei diritti troppo esposto al rischio di delegittimare l’esistente in nome di futuribili alternative.
Momento “governamentale” e diritti appaiono ancora, fra la fine dell’Ottocento e il nuovo secolo, veicolo di strategie incompatibili, ma il problema è destinato a porsi in modo ancora diverso quando, nelle costituzioni del Novecento, da Weimar al secondo dopoguerra, i diritti appaiono, insieme, il perno dell’ordine esistente, la promessa di una trasformazione destinata a compiersi nel futuro e lo strumento di realizzazione di una “terza via” capace di controllare il conflitto e realizzare l’integrazione.
Discorso dei diritti e governamentalità si intrecciano dunque variamente nel discorso della cittadinanza ora confondendosi ora opponendosi secondo una logica fortemente influenzata da una decisione previa, dalla scelta di scommettere sull’ordine esistente (sulla sua intrinseca giustizia o comunque sulle sue potenzialità progressive) oppure dalla scelta di dichiararne la radicale illegittimità e di impegnarsi nella prefigurazione di alternative.
La distinzione fra ordine esistente e ordine possibile è ricorrente nel discorso della cittadinanza almeno a partire dal Settecento riformatore, ma a sua volta rinvia a un orizzonte che ne costituisce la condizione di possibilità: l’orizzonte della temporalità. Il discorso della cittadinanza, nel momento in cui rappresenta il soggetto, i diritti, l’appartenenza, colloca anche le sue dramatis personae in un ordine segnato da una precisa scansione temporale. È la rivoluzione francese che inventa se stessa introducendo un “prima” e un “dopo”, contrapponendo un regime antico a un ordine che, da essa introdotto, troverà il suo pieno compimento nel futuro. Il conflitto fra le cittadinanze è anche un conflitto fra diverse concezioni del mutamento e della temporalità. A partire da questo momento, il tempo fermo, il tempo immobile del paradigma giusnaturalistico è sostituito da una dialettica fra passato, presente e futuro nell’interpretazione della quale, di nuovo, i vari discorsi della cittadinanza si dividono ed entrano fra loro in conflitto, ma nella quale tutti si iscrivono come in un loro necessario orizzonte di senso.
Certo, la prefigurazione di una civitas “altra” e migliore è un gioco antico, che percorre ora scopertamente ora sotterraneamente l’intero sviluppo del discorso della cittadinanza almeno a partire dai grandi testi agostiniani. Con la rivoluzione francese, però, e almeno fino alle costituzioni del secondo dopoguerra la promessa di una città futura appare in qualche modo iscritta nella realtà stessa del mutamento storico. Potrebbe forse essere interessante chiedersi se qualcosa di questa tensione arriva fino ai nostri giorni oppure se al contrario l’invenzione del futuro appartiene ormai, se mi si passa il bisticcio, al passato del discorso della cittadinanza. Se così fosse, questa nuova percezione della temporalità costituirebbe una forte cesura fra il nostro presente e quella lunga stagione inaugurata dalla rivoluzione dell’89.
NOTE
1- Mi riferisco al senso assunto da questa espressione nella grande impresa di O. BRUNNER – W. CONZE – R. KOSELLEK, a cura di, Geschichtliche Grundbegriffe, Stuttgart, Klett, 1972-1997.
2-Cfr., come esempi di una letteratura ormai amplissima, M. RIEDEL, Bürger, Staatsbürger, Bürgertum, in O. BRUNNER – W. CONZE – R. KOSELLEK, a cura di, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart, Klett, 1974, vol. I, pp. 672-725; A. GIDDENS, Profiles and Critiques in Social Theory, London, Macmillan, 1982; D. HELD, Political Theory and the Modern State, Stanford, Stanford University Press, 1989; D. HEATER, Citizenship, London and New York, Longman, 1990; S. VECA, Cittadinanza, Milano, Feltrinelli, 1990; J. SHKLAR, American Citizenship, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1991; G. ZINCONE, Da sudditi a cittadini, Bologna, il Mulino, 1992; P. RIESENBERG, Citizenship in the western tradition: Plato to Rousseau, Chapel Hill-London, The University of North Carolina Press, 1992; R.P. BELLAMY, Citizenship and Rights, in R.P. BELLAMY, a cura di, Theories and Concepts of Politics, Manchester, Manchester University Press, 1993; R. BLACKBURN, a cura di, Rights of Citizenship, London, Mansell, 1993; G. BONACCHI – A. GROPPI, a cura di, Il dilemma della cittadinanza, Roma-Bari, Laterza, 1993; D. ZOLO, a cura di, La cittadinanza, Roma-Bari, Laterza, 1994; M. BULMER – A.M. REES, a cura di, Citizenship today. The contemporary relevance of T.H. Marshall, London, UCL Press, 1996; F. BELVISI, Cittadinanza, in A. BARBERA, a cura di, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 117-144; E. GROSSO, Le vie della cittadinanza: le grandi radici, i modelli storici di riferimento, Padova, CEDAM, 1997.
3- T.H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Torino, Utet, 1976, p. 7.
4- Ibidem.
5- Ibid., p. 9.
6- G.D. ROMAGNOSI, Istituzioni di civile filosofia ossia di giurisprudenza teorica, Parte Prima, in G.D. ROMAGNOSI, Opere, Firenze, Piatti, 1833, Tomo XIX, pp. 245-246.
7- Cfr. E. LOW, Rediscovering T. H. Marshall: A Contextual Study of “Citizenship and Social Class”. American Political Science Association, Meeting 1999: http://pro.harvard.edu/papers/001/001011LowEugenia.pdf.
8- Devo preziose indicazioni al riguardo ad Emilio SANTORO.
9- J. COULTER, Logic: Ethnometodology and the Logic of Language, in G. BUTTON, a cura di, Ethnomethodology and the Human Sciences, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, p. 34.
10- Cfr. H. RICHTER, Indexikalität: ihre Behandlung in Philosophie und Sprachwissenschaft, Tübingen, Niemeyer, 1988.
11- H. GARFINKEL – H. SACKS, On Formal Structures of Practical Actions, in J. COULTER, a cura di, Ethnomethodological Sociology, Aldershot, Elgar, 1990, p. 56.
12- I. A. RICHARDS, Speculative Instruments, Chicago, University of Chicago Press, 1955, pp. 17 e seguenti.
13- H. GARFINKEL – H. SACKS, On Formal Structures… , cit., p. 61. Cfr. anche H. GARFINKEL, Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs, N.J, Prentice-Hall, 1967, pp. 4 e seguenti. Cfr. P.P. GIGLIOLI – A. DAL LAGO, Introduzione, a P.P. GIGLIOLI – A. DAL LAGO, a cura di, Etnometodologia, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 9-51.
14- Valgano, come esempi di ricerche riferite a questo profilo, gli importanti lavori dedicati da J. KIRSHNER al problema dell’acquisto e della perdita della cittadinanza nella cultura giuridica medievale. Altri esempi in questa direzione, per epoche diverse: M. ASCHERI, Lo straniero nella legislazione e nella letteratura giuridica del Tre-Quattrocento: un primo approccio, in “Rivista di Storia del diritto italiano”, LX (1987), pp. 179-194; C. STORTI STORCHI, Ricerche sulla condizione giuridica dello straniero in Italia dal tardo diritto comune all’età preunitaria. Aspetti civilistici, Milano, Giuffrè, 1989; W.R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Bologna, il Mulino, 1997.
15- Cfr. le rigorose considerazioni di L. FERRAJOLI, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. ZOLO, a cura di, La cittadinanza, cit., pp. 263 e seguenti.
16- J. DONZELOT, L’invention du social. Essai sur le déclin des passions politiques, Paris, Fayard, 1984.
17- Cfr. M. FOUCAULT, La “governamentalità”, in “Aut Aut”, 1978, 167-168, pp. 12-29.