DALLO STATO DI POPOLAZIONE ALLA “NAZIONALIZZAZIONE DEL CONSUMO
Leonardo Paggi
Testo provvisorio dell’intervento al Convegno Sissco, Siena 9-10 Novembre 2000
La democrazia nel Novecento. Un campo di tensione
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. ………… La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede ne’ recede, si sposta di binario e la sua direzione non e’ nell’orario……………………
(E. Montale, La storia, da Satura I)
Il dibattito sulle origini dell’welfare state segna sicuramente un ritardo rispetto alle descrizioni accurate dei suoi modi di funzionamento, di cui disponiamo per i diversi paesi. E’ visibilmente assente da questa ricerca una considerazione storica più’ complessiva sulle grandi scansioni del XX secolo, nonostante che lo stato sociale rappresenti una peculiarita’ di eccezionale importanza della esperienza europea, rispetto a quella di altre grandi aree del mondo.
I
Schematizzando, sono sul tappeto tre interpretazioni. La prima, di tipo funzionalista, o machiavellico ( ma in senso deteriore), enfatizza la manipolazione che le elites tradizionali esercitano ai danni delle classi popolari, per riconfermare con modeste concessioni la sostanza del loro potere nel processo di industrializzazione. La seconda, di tipo operaista, o socialdemocratico, riconduce lo sviluppo delle politiche sociali alla capacita’ di contrattazione della classe operaia saldamente organizzata nei singoli contesti nazionali. Questa impostazione, volta a ricondurre la politica di solidarieta’ sociale alla struttura di classe e ai sistemi di interessi costituiti, non viene nella sostanza modificata quando si fa giustamente notare come in alcuni casi(ad es.l’Olanda) le classi medie svolgano un ruolo importante nella determinazione del sistema di compromessi da cui scaturisce sempre la legislazione sociali. E’ questa, mi sembra, la interpretazione dominante, che nel corso degli ultimi 20 anni ha suscitato una mole imponente di studi. C’e’ infine una terza interpretazione evoluzionista, o gradualista, che puo’ essere fatta risalire ad un testo del 1950 del sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall, in cui lo stato sociale e’ presentato come fase terminale di una lunga evoluzione storica della cittadinanza. La cittadinanza civile, anzitutto, configuratasi nel corso del xviii secolo e definitasi per l’esercizio di alcuni diritti fondamentali di liberta’: della persona, della proprieta’, dell’espressione, garantiti da uno stato di diritto. La cittadinanza politica,in secondo luogo, conseguita nel corso del secolo successivo, caratterizzatasi invece per i diritti di voto, di informazione, di partecipazione alla vita politica, garantiti dal suffragio universale e dal ruolo preponderante del parlamento. La cittadinanza sociale, infine, elaborata nel corso del xx secolo sulla base dei diritti alla salute, all’educazione, al lavoro,alla pensione, ad un livello di vita minimo, garantiti dalle istituzioni dello stato sociale.
C’era in questa ricostruzione d’insieme, divenuta poi in qualche modo classica, una impostazione fortemente storicistica, quasi provvidenzialistica, della storia della democrazia europea, difficilmente conciliabile con i suoi percorsi reali, assai piu’ drammatici, accidentati e frastagliati. Prime obiezioni a questa visione incrementale dello stato sociale sorgono immediatamente, gia’ a prima vista. Elementi di stato sociale si accumulano, come e’ noto , nella Germania bismarckiana aldifuori e anzi in contrasto con ogni reale parlamentarizzazione dello stato. Ma ancora: negli stessi anni in cui Marshall tracciava il suo quadro storico massici programmi di stato sociale cominciavano ad essere implementati nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, aldifuori e anzi in alternativa a qualsiasi ipotesi di riorganizzazione garantista e partecipativa della vita politica. Ancora prima, negli anni trenta, le dittature fasciste e naziste si erano caratterizzate per aver incluso il tema della protezione sociale nelle loro proposizioni programmatiche e in qualche modo- complesso e dibattuto – anche nelle loro realizzazioni politiche.
Insomma, il nesso tra stato sociale e democrazia appare per molti aspetti tutt’atro che lineare. La versione che l’welfare state assume nell’Europa occidentale dopo il 1945, sulla base della inclusione nella democrazia politica di quella che e’ stata la critica marxista all’idea di cittadinanza uscita dalla rivoluzione francese, e’ il prodotto di una grande svolta storica, impensabile senza la catastrofe della seconda guerra mondiale. Certo non si puo’ sottovalutare il ruolo che esercita prima l’attrazione, poi, con la guerra fredda, la competizione aperta con la esperienza comunista. Ma l’ipotesi che vogliamo affacciare in questa relazione, come eventuale alternativa alle tre interpretazioni sopra ricordate, e’ che lo stato sociale possa, e forse debba, essere visto come approdo tutt’altro che lineare di un drammatico rapporto tra stato e vita, che affonfa le sue radici nel xix secolo. Si delinea in questo modo uno spazio di riflessione dai contorni non facilmente definibili, ma di cui si puo’ dire anzitutto, in negativo, che non e’ riconducibile ne’ alle categorie e al lessico della politica, intesa, quest’ultima, come luogo di definizione della rappresentanza, ne’ alla stratificazione sociale e di classe in quanto tale.
Nella sua forma piu’ elementare un nesso tra stato e vita comincia gia’ a definirsi nelle politiche volte a contenere e controllare gli effetti devastanti delle epidemie e delle malattie contagiose. Colera, vaiolo, sifilide, sono in successione storica le grandi sfide che provocano il delinearsi, gia’ a partire dalla fine del xviii secolo, di una politica della salute pubblica. Le diverse strategie di prevenzione delle malattie contagiose delineano un rapporto tra profilassi e politica che trova una larga varieta’ di applicazione nei diversi stati europei. Dall’obbligo di quarantena e di vaccinazione, alla sollecitazione di diverse forme di collaborazione volontarie, si determina una molteplicita’ di risposte non riconducibili tuttavia, in quanto tali, a diversi modelli o inflessioni di democrazia politica.Sicuramente dentro questo ambito cominciano a prendere corpo anche le prime connessioni tra malattia e poverta’ con possibili effetti di prefigurazione dello stato sociale. E tuttavia proprio ricollocando le politiche sociali dentro lo spazio della biopolitica e’ facile scoprire cone esse rimangano fino al 1945 prigioniere di una oscillazione pendolare tra protezione e repressione che scoraggia l’adozione di qualsiasi forma di teleologismo democratico.
Per rimanere al periodo tra le due guerre le significative innovazioni che si determinano con Weimar negli anni venti e con il fronte popolare francese negli anni trenta sono rapidamente riassorbite dentro i quadri di un discorso sulla razza. Significativo anche in Inghilterra il movimento di rinculo, nonostante l’assenza di una deriva fascista. Alle prime innovazioni del periodo edoardiano, succede dopo la guerra, il lungo gelo deflazionista delle politiche di rivalutazione della sterlina.Poi con il decennio successivo, dopo la drammatica sconfitta elettorale del Labor del 1931, una incontrastata egemonia conservatrice da cui il paese si svegliera’ solo con la rotta di Dunquerque. Unica vera eccezione che conferma la regola di una ininterrotta continuita’ di sviluppi il caso svedese di cui parleremo piu’ avanti.
La menzione che abbiamo fatto del termine biopolitica rende tuttavia necessaria un’ ultima considerazione di metodo nella forma di una precisazione importante rispetto all’uso che del termine si trova in corsi, ora in gran parte editi, tenuti da Foucault al College de France nella seconda meta’ degli anni settanta. Con grande nettezza Foucault coglie qui come quanto meno alla fine del xix secolo si sia costituito con lo stato di popolazione un nuovo tipo di potere non piu’ deducibile dalla categoria giuridico-politica di sovranita’, ed essenzialmente orientato, invece, ad una “statizzazione del biologico”. Dal diritto di morte si passa ad un potere sulla vita, un “potere sull’uomo in quanto essere vivente”, ossia “un potere di ‘fare vivere’ e ‘lasciare morire'”, o ancora di “stabilire la cesura tra cio’ che deve vivere e cio’ che deve morire”. E’la nascita di un razzismo nuovo,rispetto a quello che segna la storia di tutte le culture umane, un razzismo di stato, non confinabile nella sfera delle ideologie, che fa intravedere modificazioni strutturali nella forma stessa del politico. In Foucault la biopolitica si caratterizza cosi’ interamente sotto il profilo della dominazione e della repressione. Nazismo e comunismo sono solo prime incarnazioni di questo nuovo tipo di potere, intimamente segnato da una spinta colonizzatrice, nei confronti della quale, egli dice, la societa’ si deve difendere, anche con la rivolta.
Sprovvisto concettualmente della categoria di bisogno (quella che fonda la teoria economica di A. Smith e poi la teoria politica di Hegel) Foucault non vede l’ambivalenza continua che caratterizza la storia dello stato di popolazione europeo dal 1870 al 1945, ossia come la politica possa configurarsi, alternativamente o anche simultaneamente, come manipolazione o accoglimento della vita. E’solo a partire da una sua ininterrotta e ineliminabile permanenza che il sistema dei bisogni puo’ essere soddisfato o negato, accolto dentro una logica di riconoscimento o ignorato dentro una logica che vede nel momento comunitario(il rapporto con l’altro) il fondamento della inautenticita’. Con una visione sostanzialmente analoga del moderno come immodificabile gabbia d’acciaio, Heidegger- in un testo del 1949 che nelle controversie degli ultimi dieci anni circa i suoi rapporti con il nazismo non ha cessato di suscitare scalpore -equiparava la meccanizzazione dell’agricoltura, alle camere a gas, e alla bomba all’idrogeno. Meccanizzare per aumentare la disponibilita’ di cibo e meccanizzare per attuare il genoicidio sono ad egual titolo espressioni di un crescente dominio della tecnologia. Ricordo questa visione catastrofica del moderno perche’ essa e’ certo decisiva per il Foucault degli anni settanta, come lo e’ stata, in fondo, nei grandi testi, non meno influenti, del Marcuse degli anni sessanta, ossia in autori che hanno fortemente influenzato una lettura della storia del capitalismo europeoin cui e’ divenuta sostanzialmente irrilevante la cesura del 1945.
La riflessione sulle origini dello stato sociale, o meglio sulle modalita’ della sua definitiva costituzione, rappresenta un punto di osservazione utile per collocarsi in una prospettiva completamente diversa. Ossia per capire come la storia del xx secolo abbia invece dentro di se’ una radicale riformulazione del moderno borghese, o di quello che e’ stato chiamato anche il “moderno classico”, che ha le sue origini proprio nel grande mutamento che si determina nel destino riservato alla vita. La traiettoria con cui la riflessione storica deve confrontarsi e’ quella per cui la biopolitica dello stato europeo, passando attraverso la catastrofe di due guerre mondiali, si rovescia alla fine in consumo di massa. E’ in gran parte su questo passaggio che si gioca a mio parere la possibilita’ di afferrare alcuni importanti tempi di scansione del xx secolo.
II
Il movimento pendolare tra repressione e protezione dello stato di popolazione trova forse la sua piu’ impressionante esemplificazione in due eventi contemporanei della seconda guerra mondiale, che in qualche modo rappresentano la massima amplificazione di una ambivalenza da sempre esistente. Con il naufragio del Blietzkrieg dinanzi alle porte di Mosca la soluzione finale entra nell’inverno 1941-42 nella sua ultima fase di realizzazione.Dopo la conferenza di Wansee del gennaio 1942, entra in esecuzione nella primavera la politica di annientamento. In pochi mesi il campo di concentramento si e’ attrezzato per diventare campo di sterminio. Baumann, appoggiandosi alla interpretazione weberiana che della soluzione finale ha dato la grande ricerca di Raul Hilberg, ha parlato del campo come dimensione del moderno, come manifestazione estrema di una volonta’ di controllo della vita , che si attua attraverso la sospensione di qualsiasi forma di rispetto e di garanzia per la sussistenza del singolo prevista dal diritto nazionale e internazionale. Le vittime sono designate, dice Bauman, non per quello che fanno ma per quello che sono, in ragione di una classificazione che il potere ha fatto indipendentemente dai loro comportamenti.
In effetti il campo, ben lungi dal rappresentare una apparizione improvvisa, rappresenta una costellazione radicata nella storia dello stato europeo. Dopo la sua prima apparizione ad opera dell’esercito inglese nella guerra dei Boeri esso si riproduce ovunque, in Germania, Austria, Francia, Italia nel corso della prima guerra mondiale. Sono destinati al campo non solo i prigionieri di guerra, ma anche gli stranieri che si trovano sul terrirorio nazionale all’inizio del conflitto, e gli “indesiderabili”, ossia tutti coloro che, a diverso titolo, si pensa che possano intralciare la difesa nazionale. Il campo conosce tuttavia i suoi sviluppi decisivi nel periodo tra le due guerre. Esso ricompare prima che in ogni altro paese all’inizio degli anni venti in Unione sovietica, come strumento di repressione di massa dell’opposizione politica.Ma e’ solo nel quadro della insustrializzazione e della collettivizzazione che il sistema sovietico dei campi di lavoro forzato comincia a conoscere una prodigiosa espansione, fino a diventare dopo il 1941 un supporto di non secondaria importanza per tutto il sistema dell’economia di guerra. Lavoro forzato ed economia di comando entrano in una stretta simbiosi. Diversa la traiettoria del campo nazista, che nato anch’esso come luogo di detenzione degli avversari politici conosce a partire dal 1936 una metamorfosi sostanziale con l’adozione del linguaggio dell’igiene razziale e della sociobiologia. L’obbiettivo del campo e’ da ora in poi quello di preservare la purezza della Volksgemeinschaft. E’ solo a partire da questa nuova prospettiva che il numero degli internati comincia a crescere vorticosamente. La guerra non fara’ che portare alle conseguenze estreme la dimensione catastrofica implicita in questa visione del campo. In una logica di comparazione, che e’ importante tenere rigorosamente distinta dalla logica di omologazione, e’ forse possibile dire che in entrambi casi l’esercizio della violenza di massa si inscrive in una visione utopica di sviluppo e di miglioramento della vita.
Di quella che potremmo definire l’ontologia esistenziale del campo Primo Levi che ci ha lasciato la caratterizzazione teoricamente piu’ penetrante in un passaggio che chiarisce il fondamento di tutta la sua interpretazione umanistica di Auschwitz:”Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta, ecco perche’ e’ non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo e’ stato una cosa agli occhi dell’uomo”. La sporgenza fondamentale del campo non e’ dunque, per Levi, quella di togliere la vita, ma di negare sistematicamente l’essenza dell’umanita’ quale puo’ estrinsecarsi solo attraverso rapporti di riconoscimento. Il campo non finisce, ad Auschwitz, con la partenza delle SS, il 10 gennaio del 1945, ma solo quando tra gli internati superstiti, abbandonati a se stessi, si riattivano, nello sforzo per la sussistenza fisica, rapporti di gratuita’.
Nello stesso momento in cui la relazione tra stato e vita approda nell’esperienza dello stato razziale al “primato dello stato sul terreno della vita”(Primat des Staates in der Gebiet des Lebens), ossia alla totale inclusione della politca sociale nei quadri della politica razziale la storia europea esibisce nell’inverno 1941-42 un approdo radicalmente opposto. La biopolitica diventa riconoscimento e gratuita’, nel senso del testo di Primo Levi, ossia disinteressata risposta al pullulare dei bisogni radicati e rimasti storicamente insoddisfatti. Se si vuole, “economia morale”. Nel giugno del 1941 Arthur Greenwood, ministro senza portafoglio per i problemi della ricostruzione del gabinetto Churchill, nomina un comitato interdipartimentale sui problemi della sicurezza sociale e i servizi connessi. Un anno dopo nel giugno del 1942 il segretario del comitato William Beveridge ha terminato la stesura del rapporto che sara’ pubblicato con eccezionale rilievo il primo dicembre dello stesso anno. L’intreccio tra guerra e politiche sociali , che comincia a delinearsi alla fine del secolo scorso, subisce ora una svolta nettissima, uno spostamento di binario, per tornare al linguaggio della visione montaliana della storia, che abbiamo ricordato all’inizio.
Nella storia europea fino al 1945 l’interesse dello Stato per le caratteristiche biologiche del popolo e’ parte integrante del suo sforzo bellico. La preoccupazione e la cura per la quantita’ e la qualita’ della popolazione cresce con il crescere della dimensione di massa della guerra. La guerra dei Boeri ha fatto scoprire con preoccupazione il “deterioramento fisico” della classe operaia inglese da cui proviene la massa del reclutamento. Non risulta per questo minimamente intaccato l’assunto fondamentale che lo Stato possa e debba chiedere a suo piacimento la vita dei cittadini. Il primo luglio del 1916 il generale Haig, a partire da valutazioni del tutto soggettive sulla capacita’ di tenuta delle fortificazioni tedesche, da il via sulla Somme ad una gigantesca offensiva. Dei 100.000 uomini che si lanciano over the top , nella terra di nessuno, 20.000 non faranno ritorno, altri 40.000 rimaranno feriti. Un ulteriore massiccia perdita di vite umane si determinera’cosi’ nei giorni successivi per la impossibilita’ delle strutture di soccorso a fare fronte ad una emergenza di queste proporzioni. E’ l’episodio piu’ tragico della storia militare inglese nel xx secolo. E’ stato scritto che “la Somme segna la fine di un vitale ottimismo nella vita britannica, che non sara’ mai piu’riconquistato”.E forse una considerazione analoga potrebbe essere fatta per la Francia della quasi coeva battaglia di Verdun.
Ma nel vivo di questa matanza ancora una volta si determina un paradossale intreccio tra guerra e politiche sociali. Nello stesso momento in cui promuove attivamente il sacrificio della sua gioventu’ migliore , lo stato britannico avvia l’implementazione di politiche di protezione sanitaria e sociale destinate ad innalzare sensibilmente la qualita’ della vita materiale dei sudditi di sua Maesta’.. La subordinazione della biopolitica alle superiori ragioni della guerra non viene per questo messa in alcun modo in discussione.
Il rapporto Beveridge credo possa essere assunto nella storia d’Europa del xx secolo come l’incunabulo di una rottura irreversibile con la logica dello stato di popolazione. Esso si presenta infatti, esplicitamente, come un progetto di nuova societa’ egualitaria da costruire al termine della guerra. Il suo universalismo, ossia il coinvolgimento dell’insieme della popolazione britannica- e non di sue singole sezioni piu’ direttamente connesse allo sforzo bellico- nasce dalla convinzione che la guerra puo’ essere vinta solo se si apre la strada ad una ridefinizione complessiva dei contenuti su cui si basa il nesso tra cittadinanza e identita’ nazionale. Del resto questa e’ la tesi che George Orwell ha sostenuto con grande incisivita’ letteraria in The Lion and the Unicorn, scritto e pubblicato nel 1941, quando e’ ancora presente lo spettro di una possibile invasione tedesca. Accanto a quelli che sono stati identificati come distinti modelli di cittadinanza, rispettivamente quello tedesco e quello francese, prende ora corpo un distinto modello inglese in cui la cittadinanza e’ intesa appunto, nelle parole del Marshall del 1950, come “full membership of a community”, ossia come accettabile e dignitoso standard of living da cui nessuno puo’ e deve rimanere escluso. E’ questo il modello di cittadinanza destinato a dominare la storia d’Europa dopo il 1945 e a sovrammettersi e a surdeterminare tutti gli altri.
La guerra- afferma testualmente il rapporto Beveridge- ha aperto una fase di rivoluzione nella storia del mondo che chiede provveddimenti rivoluzionari e non rattoppi. L’obbiettivo del piano e’ quello di mettere finalmente in essere la “liberta’ dal bisogno”, inteso quest’ultimo non tanto come need, ma, nella sua accezione piu’ assoluta, come want. Pubblicato all’indomani della battaglia di El-Alamein- il primo significativo segnale della controffensiva inglese- il piano si rivelera’ un grandioso strumento di costruzione del consenso, proprio in quanto impegno ad un mutamento dei contenuti della cittadinanza e, contestualmente, della legittimazione dello stato, con uno spostamento inequivocabile dell’asse della biopolitica dalla morte alla vita. Al popolo inglese si chiede ormai di combattere in nome della pace e del benessere. La democrazia inglese, inabissatasi con i calcoli non lungimiranti degli appeasers, rinasce ora come sforzo di un popolo che lega la lotta per la sopravvivenza ad un nuovo modello di societa’.
Mi sembra ci sia qui un dato generale da sottolineare. Quanto meno nella sua fase di statu nascenti lo stato sociale implica un mutamento di quello che in gergo hegeliano potremmo chiamare il sistema dell’eticita’(Sittlichkeit). La ricostruzione del sistema degli interessi, ovviamente indispensabile per descrivere le diverse dinamiche interne dello stato sociale, non puo’ rendere ragione, da sola, della sua origine. Solo allorche’ si consuma traumaticamente la morte generalizzata della patria- intesa come forma di legittimazione dello stato europeo fondata sulla guerra- la intima ambiguita’ della biopolitica , in perenne oscillazione tra protezione e repressione, puo’ finalmente sciogliersi nella direzione del primo termine.
III
E’ utile ricordare alla luce di queste considerazioni come le politiche pronataliste- asse portante di tutta la biopolitica europea- che si intensificano negli anni trenta con la prospettiva della guerra(nel 1936 anche la Russia di Stalin mette fuori legge l’aborto), vadano incontro ad un fallimento generalizzato. Non sfuggono a questo destino anche paesi come la Francia e il Belgio, in cui si punta soprattutto ad un miglioramento dello standard of living sulla scorta di una politica di assegni familiari. Quello che la cultura dello stato nazione europeo non capisce e’ la profondita’ e la complessita’ di quel fenomeno della caduta della fertilita’ che esso vuole combattere. Robert Kuczynski, figura di grande rilievo nella demografia europea di quegli anni, e’ a questo proposito assai esplicito. Si e’ determinato nell’opinione pubblica europea quello che egli chiama un “cambiamento radicale”. Una popolazione crescente cessa di essere considerata un vantaggio, per configurarsi come un peso economico. Secondo il nuovo senso comune che avanza gia’ alla fine del xix secolo, disoccupazione, poverta’, e guerre sono piu’ facilmente evitabili nel filo di politiche malthusiane.
Insomma, la caduta dei tassi di fertilita’ che tutti gli stati nazione europei combattono fino al 1945 (indipendentemente dal credo politico in ciascuno di essi dominante) si configura come il portato di un cambiamento strutturale della societa’ nel suo complesso che si orienta ora a mettere la propria riproduzione fisica sotto controllo consapevole e razionale. Il processo, che parte dalle classi piu’ elevate, per diffondersi rapidamente verso gli strati piu’ bassi della piramide sociale,implica l’adozione di un”voluntary small family system”. Di contro a credenze tradizionali di ordine morale e religioso si fa strada una considerazione del benessere materiale come criterio fondamentale della riproduzione. Del resto, il produzionismo demografico sa bene che esso potra’ affermarsi solo in un clima di contenimento dei consumi popolari. Il nostro Corrado Gini- ben prima di diventare la personalita’ piu’ influente nella politica demografica del fascismo- sostiene che la diffusione del benessere determina un rallentamento nella riproduzione degli strati popolari piu’ basssi e quindi anche una attenuazione nel ricambio dell’elite. Una forte polarizzazione sociale e’ insomma a suo avviso indispensabile per avere un vitalita’ demografica e conseguentemente una forte presenza politica della nazione.
Accanto alle difficolta’ strutturali su cui si scontra il fondamento pronatalista della biopolitica europea, non meno significative sono le tensioni cui viene sottoposta negli stessi anni l’eugenetica, – ossia il costrutto ideologico e culturale che dalla fine del xix secolo fornisce fino al 1945 la principale legittimazione scentifica alla idea stessa di una politica della vita. Nata in Inghilterra con Francis Dalton , cugino di Darwin, all’ombra del principio che l’eredita’ e non l’ambiente e’ responsabile delle qualita’ fisiche e intellettuali dei singoli, essa sosterra’ nei diversi paesi l’idea che una direzione scientifica del processo di riproduzione consente un miglioramento progressivo della specie. Negli Usa dove l’integrazione dei flussi migratori e’ affidata ad una scala di consumi sempre crescenti, il progetto eugenetico mette in primo piano il volto punitivo. I tests introdotti nella scuola e nell’esercito vogliono dimostrare “scientificamente” la superiorita’ razziale dei protestanti anglo-sassoni bianchi e il loro diritto al monopolio del potere. Il movimento per la sterilizzazione obbligatoria, intesa non solo come metodo idoneo al miglioramento della razza, ma anche come punizione per crimini sessuali efferati, raggiunge proporzioni di rilievo. Nel 1931 sono trenta gli Stati che hanno approvato leggi di questo tipo. Solo in California dal 1909 al 1921 vengono emesse 2558 sentenze di sterilizzazione. La lotta per bloccare il flusso migratorio e’ l’altro grande terreno di battaglia dell’eugenetica americana, che raggiunge un successo importante nel 1924 con l’approvazione dell’Immigration Restriction Act.
La’ dove i problemi della vita non trovano ancora soluzione sul terreno del consumo di massa, l’eugenetica si politicizza. Attorno all’idea di una Lebensreform si cristallizzano in Germania progetti tendenzialmente utopici di riforma sociale. Ad un progetto di riforma sociale guarda esplcitamente Wilhelm Schallmeyer, uno dei padri fondatori dell’eugenetica tedesca. Ma nella stessa prospettiva e’ coinvolta apertamente la Spd nelle sue diverse correnti politiche, da Kautsky a David. Il fenomeno e’ ancora piu’ pronunciato nella socialdemocrazia austriaca in ragione dello spiccato impegno riformista sui problemi della salute della classe operaia caratteristico di questo partito . Per Max Adler che sposa con entusiamo la prospettiva della creazione di “uomini nuovi”, di contro alle “degenerazioni” indotte dal capitalismo, la scienza delinea con sempre maggiore precisione “un ideale eugenetico di vita bella, sana, tendente al miglioramento della razza umana”. Attorno al concetto di Rassenhygiene l’eugenetica tedesca mostra, di contro, fin dall’inizio una esplicita contaminazione con il nazionalismo ed il razzismo. Eugenetica e igiene razziale, salute e razza, natura e ambiente, si configurano come due sistemi culturali e politici inizialmente contigui, che conoscono poi una progressiva separazione.
E’ ormai abbondante la letteratura sugli sviluppi che lo stato sociale conosce nella repubblica di Weimar. Ci interessa qui solo ricordare le forti conquiste che si determinano nell’area del riformismo sessuale, quale si sviluppa in particolar modo sul terreno del controllo delle nascite , dell’educazione sessuale, della prevenzione delle malattie infettive. Alla fine degli anni venti il Sexualreformbewegung si presenta come una coalizione vasta che si avvantaggia della collaborazione di numerose competenze e strutture tecniche e scientifiche e di una larga e attiva presenza della sinistra comunista e socialdemocratca. La crisi finanziaria segnera’ un duro colpo per il movimento, diminuendo drasticamente le risorse disponibili. Ma e’ soprattutto la Gleichschaltung nazionalista, che pone fine all’esperimento. Cio’ non toglie tuttavia che in nome della Volksgesundheit il nazionalismo si riappropri esplicitamente di molti obbiettivi del movimento, di un linguaggio e di una tradizione gia’ esistenti, per metterli al servizio di un programma di igiene razziali.
Il 14 luglio del 1933 il governo nazista dichiara illegali i partiti politici e insieme approva la legge sulla sterilizzazione. La politica del corpo comincia subito ad affermarsi come tratto fondante dello stato nazista, in un crescendo che porta alla soluzione finale. Sulla genesi di quest’ultima gli studi piu’ recenti della storiografia tedesca tendono a relativizzare il ruolo svolto dell’ideologia razzista in quanto tale, per enfatizzare invece il contesto di esigenze entro cui essa si determina, nella conduzione di una guerra che assume tratti crescentemente catastrofici.Il contesto della soluzione finale e’ il Generalplan Ost, ossia un grandioso progetto di modificazione della composizione demografica dell’Europa orientale, che prevede la soppresione di circa 30 milioni di vite. Auschwitz sta al centro di questo gigantesco, paradossale, processo di modernizzazione, teso a ridefinire i tratti di una “nuova Europa”, a partire da una politica della popolazione, che in una logica rigorosamente maltusiana diventa l’unica variabile a disposizione del potere nazista per attuare i propri progetti di trasformazione dell’Europa. Ed e’ particolare significativo che le carestie e le deportazioni di massa delle popolazioni agricole che hanno accompagnato in Unione sovietica la collettivizzazione forzata abbiano suscitato una attenzione tutta particolare nei vertici del nazismo . In effetti la politica dello sterminio di massa torna incessantemente sullo sfondo dei problemi di approvvigionamento , ossia di una scarsita’ sempre piu’ assoluta di cibo, che il potere nazista cerca di trasformare, in una logica di onnipotenza, da limite in risorsa utile per il compimento del proprio progetto di un “ordine nuovo”.
IV
L’alimentazione rappresenta un tema di estrema importanza per comprendere quella paradossale doppia dinamica dello stato di popolazione europeo verso il campo e lo stato sociale che ho cercato di mettere in luce. Bisognera’ arrivare alla fine degli anni cinquanta perche’ il cibo cessi di essere in Europa il punto di riferimento essenziale , se non esclusivo, nella determinazione dello standard of living su scala di massa. Esso svolge quindi fino al 1945 un ruolo assolutamente centrale nella determinazione degli equilibri mondiali. Ed e’ fin troppo noto, perche’ vi si debba insistere, il ruolo dirimente, e imperiale, che svolge nelle due guerre mondiali l’agricoltura americana per quanto riguarda la determinazione dell’esito finale del conflitto.
La seconda guerra mondiale rappresenta per le strutture agricole dell’Europa uno stress da cui non si riprenderanno. Antichi equilibri entrano ora definitivamente in crisi, dando poi luogo ad un processo di rapidissima trsformazione che all’inizio degli anni sessanta porta, sul continente, al collasso generalizzato di una plurisecolare civilta’ contadina. Rappresenta in questo contesto una singolare eccezione l’esperienza dell’Inghilterra la quale per due guerre mondiali, smentendo ogni aspettativa contraria connessa alla posizione geografica e alla dipendenza dalle importazioni consolidatasi con una lunga pratica di liberoscambio, riuscira’ a risolvere in modo estremamente brillante i grandi problemi di approvvigionamento alimentare strutturalmenti connessi ad uno stato di belligeranza.E’ sicuramente qui che bisogna cogliere uno dei piu’ importanti fattori permissivi nel decollo precoce di uno stato sociale compiuto.
Nella prima guerra mondiale il governo Lloyd George intraprende nel 1917-1918 una duplice politica di intervento sul terreno della produzione e della distribuzione, andando ad una soluzione del problema del cibo che si rivelera’ essere componente essenziale della vittoria. Mentre la “politica dell’aratro”(plough policy) estende la superficie coltivata ai terreni meno produttivi, un rigido controllo della distribuzione punta risolutamente ad eliminare la formazione di grandi disparita’ nella dieta dei ricchi e dei poveri. Tutto il sistema dell’economia agricola conosce ora una ristrutturazione a partire dai bisogni del consumatore. Alla fine della guerra il Ministero del cibo verra’ immediatamente smantellato, nel quadro di una cultura che guarda ancora alla presenza dello stato solo in termini di emergenza. Ma cionostante, ancora nel 1928, William Beveridge, vestendo i pani dello storico, poteva descrivere e commentare quella esperienza come una grande occasione che era stata colta per migliorare l’alimentazione del popolo inglese.
Gli anni trenta sono segnati dal punto di vista della ricerca scientifica da un grande dibattito sulla nutrizione e sul “protective food” , ossia il cibo che in virtu’ del suo contenuto proteico e vitaminico consente, oltre la sopravvivenza garantita dai corboidrati, una crescita sana dell’organismo umano. Un grande rapporto della Lega delle Nazioni pone il problema all’attenzione della classe drigente mondiale. Il tema trova una eco particolamente viva in Inghilterra. Le ricerche di John Boyd Orr da un lato, e William Crawford e Herbert Broadley dall’altro, indagano il rapporto tra cibo, salute e reddito, portando alla luce una profonda segmentazione e polarizzazione di classe della dieta alimentare del popolo inglese, che provoca sensazione e accesi dibattitti nell’opinione pubblica del paese. La seconda guerra mondiale vede una nuova e ancor piu’ netta fase di modernizzazione dell’agricoltura inglese. La meccanizzazione passa dal 1939 al 1946 da due a cinque milioni di cavalli vapore, mentre raddopia e in certi casi triplica l’uso dei fertilzzanti. Tra il 1939 e il 1943 la produzione raddoppia in termini di calorie, mentre i sistemi di intervento razionale nella distribuzione sperimentati nella prima guerra mondiale vengono ripresi con non minore successo.
L’esperienza tedesca e’ in qualche modo simmetricamente opposta. Nella prima guerra mondiale la penuria di cibo esplode gia’ nel 1915 per aggravarsi poi ininterrottamente negli anni successivi . La crisi dell’approvvigionamento non solo introduce tensioni sociali sempre piu’ forti nel fronte interno, destinate poi ad esplodere nel novembre 1918 , ma svolge un ruolo decisivo anche nella determinazione del collasso militare. La memoria della fame di quegli anni rimarra’ viva nel popolo tedesco. Nel corso della seconda guerra mondiale si trasformera’ quasi in un incubo per il nazismo. Gia’ nello Zweites Buch del 1928, una continuazione del Mein Kampf pubblicata postuma, Hitler si misura a fondo con il problema , cercando di definire contestualmente la posizione della Germania nel quadro delle relazioni di potere mondiali. L’analisi parte dall’affermazione perentoria che sulla base del suo territorio nazionale la Germania non e’ in grado di garantirsi cibo a sufficienza. A maggior ragione nel momento in cui lo standard of living americano finisce per indurre la richiesta di sempre piu’ alti livelli di consmo anche negli altri paesi. Correttamente Hitler individuava nella ampiezza del mercato interno la ragione essenziale della ininterrotta crescita della influenza economica politica degli Usa. La corrispettiva tendenza al declino economico della Germania poteva essere arrestata e rovesciata solo con la forza delle armi, ossia attraverso la conquista di spazi piu’ ampi. La spada prima dell’aratro- come egli diceva- le armi prima dell’economia.
In questa perentoria affermazione del primato della politica, sono gia’ impliciti tutti i successivi sviluppi catastrofici del nazismo e le ragioni del suo fallimento. La politica di Darre’ volta a stabilizzare il consenso al nazismo del tradizionale blocco contadino sulla base di ideologie conservatrice e di assai tradizionali dispositivi protezionistici,con un impasto che si ritrova,ad es. anche nel fascismo rurale francese di quegli anni, blocca evidentemente qualsiasi trasformazione produttiva dell’agricoltura tedesca, ne’tanto meno puo’ offrire sostegno ai progetti espansivi di Hitler. Il passaggio anche terminologicamente significativo dalla Agrarpolitik alla Ernaerungspolitik che si compie alla vigilia della guerra, rappresenta l’assunzione di una prospettiva europea dei problemi dell’alimentazione che sara’ progressivamente basata sui metodi della espropriazione violenta delle risorse e soprattuto su di una politica di annientamento per fame dei “surplus” di popolazione.Nel linguaggio impeccabilmente economico e persino tecnocratico del libro di Herbert Backe sulla “liberta’ di alimentazione” dell’Europae’ possibile ancora leggere, in trasparenza, tutti gli orrori che si produranno, soprattuto in Europa orientale, nel quadro di una politica di Grossraum e di “Fortezza Europa”.
Mi sembra si ponga qui un grosso tema di riflessione relativo al ruolo fondamentale che svolgono le stratificazioni sociali e i rapporti economici nelle campagne nell’incoraggiare o nell’ostacolare politiche di riforma e di stato sociale . Se infatti e’ e vero che l’industrializzazione avanza comunque attraverso l’introduzione di sempre nuovi prerequisiti, secondo il noto modello interpretativo di Gerschenkron, e’ altrettanto vero che la persistenza di blocchi agrari nel continente( Germania, Francia e Italia) determinera’ strozzature produttive, destinate soprattutto negli anni trenta a inasprire tutta la politica della vita dello stato di popolazione, accentuando, nello stesso tempo, quella continua ambivalenza dei processi di modernizzazione che contrassegna tutta la storia d’Europa fino al 1945.
V
La nuova cultura dei diritti umani, quale si annuncia gia’ nel preambolo della Carta delle Nazioni unite, per poi esplcitarsi pienamente nella Dichiarazione universale del 1948, registra ed enfatizza anche la costituzione dello stato sociale. E’ forse questo l’ultimo momento in cui la storia del vecchio continente produce significati e valori di portata mondiale.
L’ortodossia liberale, a partire da Hajek, interpretera’ la riproposizione dell’universalismo che viene fatta in questi testi come pura e semplice riaffermazione della tradizione illuminista dei diritti naturali(Hobbes, Locke, Paine, Jefferson), contestando simultaneamente la possibilita’di includere tra i diritti dell’uomo- come avviene nella seconda parte della Dichiarazione- il complesso di nuovi diritti che definiscono il contenuto dello stato sociale(diritto al lavoro, all’educazione, alla sicurezza sociale, ad un salario decente, alla liberta’ di associazione sindacale).In realta’ la contestualizzazione storica di questo documento, quale e’ oggi resa possibile anche da prime esegesi storiche del dibattito che porto’ alla formulazione dei singoli articoli, sta a testimoniare il ruolo centrale che nella riproposizione dei diritti di garanzia svolge la consapevolezza della assoluta peculiarita’ storica della violenza nazista-peraltro nel 1948 ormai conosciuta e documentata in tutti i suoi aspetti, attraverso la lunga serie dei processi di Norimberga. Tutta la riaffermazione del ruolo del governo della legge e del valore vincolante della norma presente nel primo gruppo di articoli della Dichiarazione si spiega proprio alla luce dell’esperimento nazista di uno stato della prerogativa approdato ad un incontrollato potere sulla vita.
La Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle liberta’ fondamentali , approvata dal consiglio d’Europa a Roma il 4 novembre del 1950, si aprira’ non certo casualmente con l’affermazione, contenuta nel suo primo articolo, secondo cui “il diritto di ciascuno alla vita e’ protetto per legge”. In effetti tutta la nuova cultura dei diritti umani ruota attorno a questa assoluta centralita’del diritto alla vita, nel quale la condanna storica e la stigmatizzazione del nazismo si salda strettamente con la proposizione solenne di nuovi contenuti di civilta’, secondo un andamento che in qualche misura riflette fedelmente quell’ intreccio paradossale di morte e vita che ha segnato negli anni della guerra la fine dello stato di popolazione europeo. E’proprio in questo rinnovato concetto di vita che si determina la saldatura storica e concettuale tra diritti civili e diritti sociali. Del resto lo stesso progetto rooseveltiano di Nazioni unite si lega strettamente fin dal 1943- ed e’ questo il tratto che lo distingue dalla precedente Lega delle Nazioni- all’idea di un grande sviluppo economico generalizzato visto come premessa indispensabile di una convivenza pacifica tra i paesi ed i popoli. Intervenendo nel dibattito che si apre sulla Dichiarazione universale C.C.Macpherson-lo studioso della filosofia politica inglese del ‘600- ha sostenuto che l’individualismo possessivo dei diritti naturali sia da ricollegarsi storicamente ad una situazione in cui l’ordine si configura come superamento di un conflitto causato da una molteplicita’ di desideri, in situazione di scarsita’. Dietro la nozione di diritti umani occorre vedere, a suo avviso, la possibilita’ di una abbondanza capace di disinnescare il conflitto .Insomma e’ possibile dire nel linguaggio della teoria politica che lo Stato sociale rovescia in qualche modo i termini costitutivi del problema dell’ordine cosi’ come questo si configura nel classico modello hobbesiano di stato. Contestualmente alla morte della patria, l’ordine, invece che sulla repressione dei desideri, tende ad instaurarsi su di una loro progressiva soddisfazione. Pace e sviluppo si presentano non a caso nella esperienza storica dello stato sociale europeo dopo la seconda guerra mondiale, come nozioni tra di loro strettamente interrelate. ” Non piu’ guerra tra noi” e’ la parola d’ordine che, contestualmente, apre alla conferenza dell’Aja del 1948, il processo di unificazione europea. La saldatura tra cittadinanza e standard of living , quale viene mediata in Europa da un rigetto quasi fisiologico della esperienza di guerra, indica dunque una peculiarita’ importante del vecchio continente, rispetto al modo in cui tema del consumo e’ riproposto, a partire dalla guerra fredda, sull’altra sponda dell’Atlantico.Non e’ un caso ,in questo senso, che la piu’ precoce e in fondo piu’ nitida presentazione dei contorni dello stato sociale si determini in un paese come la Svezia storicamente defilato, in tutto il xx secolo, rispetto alle logiche della politica di potenza.
VI
I rapporti della Lega delle nazioni sulla ricostruzione postbellica sottolineano a piu’ riprese l’ “assenza della voce del cosumatore” nella organizzione delle economie europee precedenti alla II guerra mondiale.”Poiche’ il consumatore era cosi’ largamente inespresso- si affermava testualmente- esso fu in larga misura ignorato politicamente”. In effetti la figura del consumatore non compare ancora nemmeno nel rapporto Beveridge. Merita quindi attenzione il fatto che Bert Ohlin gia’ nel 1938 usi la formula icastica di “nazionalizzazione del consumo” per caratterizzare il programma della socialdemocrazia svedese, in contrasto con il tradizionale orientamento del socialismo marxista volto alla nazionalizzazione della produzione. In effetti proprio nel contesto svedese e’ possibile cogliere con particolare chiarezza la compiuta metamorfosi della vecchia politica di popolazione dello stato neomercantilista in politica sociale. Rompendo con la tradizione di un riformismo liberale di tipo neo-malthusiano(che ha annoverato anche Keynes tra le sue file), secondo cui una fertilita’ decrescente puo’ rappresentare un modo idoneo per realizzare miglioramenti nello standard of living, la socialdemocrazia svedese adotta una politica pronatalista. Il capovolgimento del modo in cui negli stessi anni le dittature fasciste perseguono un obbiettivo analogo scaturisce dal fatto che non gli interessi della nazione e dello stato, ma quelli della famiglia e dell’individuo devono essere assunti come punto di partenza.”Le famiglie devono avere figli-scrive Myrdal- non in obbedienza allo stato, ma per loro propria felicita’…almeno in Svezia nessuno alleva figli per gli interessi dello stato”. La politica di popolazione viene cosi’ riletta in termini di consumi, decomponendosi in una serie di obbiettivi di tipo essenzialmente qualitativo: casa, alimentazione,salute, educazione, istruzione. La rilettura del problema della vita in termini di consumo approda anche ad una grande valorizzazione del ruolo sociale della donna. L’intervento dello stato e’ sentito anche come forma di controllo della cultura antifemminista e patriarcale ereditata dal passato.
Nella spiegazione della precocita’ del compiuto riformismo svedese si e’ fatto riferimento ad una struttura delle campagne caratterizzata da una piccola proprieta’ contadina, che non contrasta, come avviene nei piu’ grandi paesi del continente, una graduale evoluzione del liberalismo in socialdemocrazia. Ma oltre che di una spontanea cooperazione tra riformismo agrario e riformismo operaio il superamento dello stato di popolazion si avvantaggia in Svezia di una tradizione neutralista che ha teso a prospettare lo sviluppo del paese in uno spazio estraneo alla logica di schieramento. Si anticipa insomma in Svezia quella sorta di smilitarizzzione dello stato che accompagna dopo il 1945 le politiche di welfare nei maggiori paesi europei. In questo senso lo stato sociale si distingue nettamente dalla consumer democracy che prende corpo negli Stati uniti nel fuoco della guerra fredda.
Nel marzo del 1951 la prestigiosa rivista “Harvard Businness Review” pubblica una sorta di pubblicita’/vignetta costruita sulla contrapposizione di due Joes: Joe Stalin e Joe Doekes, prototipo dell’uomo d’affari americano. Il messaggio forte contenuto nel testo e nelle immagini(vedi fotocopia acclusa in appendice) si precisa in questa affermazione centrale:” A Joe Stalin fa piu’ paura la nostra economia competitiva che i nostri cannoni. Egli finira’ per vincere se noi perdiamo quello standard of living che ha reso Joe Doakes, non Joe Stalin, l’uomo piu’ forte del mondo”. La vera scommessa della guerra fredda, insomma, sta nella capacita’ di mantenere l’economia in espansione anche in sitazione di riarmo. Si tratta di una volgarizzazione dei concetti propri del documento n.68 del National Security Council del marzo zo 1950 in cui Paul Nitze, il grande architetto americano della politica di guerra fredda, argomenta per la prima volta i principi del keynesismo militare, secondo cui la produzione di armi e’ destinata ad avere positivi effetti di ricaduta sui livelli dei consumi privati. Nello stesso periodo il sociologo David Riesmann, futuro autore del noto libro The Lonley Crowd, pubblica un breve racconto in cui si fantastica di una “operazione abbondanza” in virtu’ della quale Mosca e le maggiori citta’ dell’Unione sovietica sono sottoposte quotidianamente ad intensi bombardamenti di beni di consumo(calze di naylon, sigarette,orologi) che sconvolgono e disarticolano, molto meglio che le bombe, tutta la vita sociale del paese .
Paradossalmente si ritrova in questi testi che riflettono il senso comune dell’epoca una percezione dei grandi mutamenti allora in corso piu’ forte e sicura di quella rintracciabile nel pensiero neoliberale della guerra fredda. Per Hanna Arendt di The Human Condition ,del 1957, il fatto che il discorso sul sistema dei bisogni , o, come ella dice, su “il processo vitale inteso nel suo senso biologico piu’ elementare”, emerga prepotentemente nello spazio pubblico, uscendo dalla sfera del privato in cui era stato precedentemente sempre confinato, rappresenta un elemento di crisi della politica come luogo di affermazione della liberta’.Nel suo primo e forse piu’ importante libro del 1958 Habermas parla della democrazia come dialogo di un opinione pubblica critica. Mentre tutta la vasta letteratura americana sul pluralismo(Hart, Almond,Verba Kornhauser), quale si articola a partire sulla riscoperta di Tocqueville, inteso come guida alla lettura del cosidetto “eccezionalismo americano”, sostiene la tesi, ormai dimostrata del tutto infondata dallo stato degli studi, che fascismo e nazismo si affermano in Europa per la mancanza o la poverta’ del tessuto associativo.
Abbiamo cercato di suggerire in questi appunti che la considerazione del nesso tra guerra, consumo e democrazia rappresenti un approccio piu’ realistico per comprendere come i sistemi politici dell’Occidente si riarticolano dopo il 1945. Ma quale occidente? Questa categoria che ha dominato per tutta la guerra fredda ha forse perso molto della sua antica pregnanza. Non a caso i tentativi di riaccreditarla vanno di pari passo con sempre nuove riproposizioni di quella logica amico/nemico che ha informato per cinquant’anni tutti i modi di pensare il mondo. La riflessione storica sulla democrazia puo’ forse oggi procedere piu’ speditamente mettendo invece l’accento proprio sulle differenze con cui essa si sviluppa, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sulle due sponde dell’Atlantico.