Cerca

Introduzione

CLAUDIO PAVONE
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento

a cura di D.L. Caglioti e E. Francia

Pour rendre la révolution aimable
il fallait la faire aimer
Marc-Antoine Jullien a Robespierre

Revolution presents two contrasting
faces: the one glorious and appealing;
the other violent and terrifying.
Today utopia is completely eclipsed by dystopia
Arno J. Mayer, The Furies

Il convegno che la Società italiana per lo studio della storia contemporanea ha tenuto a Napoli nei giorni 20 e 21 novembre 1998 ha inteso proporre alla “discussione di fine Novecento” un tema che ha attraversato questo secolo lasciandovi profonde tracce. Si era pensato in un primo momento a un titolo più anodino e descrittivo, quale “le rivoluzioni del secolo XX”; ma ci si è resi conto che, anche solo per rispondere alla domanda se il secolo XX fosse o non fosse caratterizzato in modo sostanziale dalle rivoluzioni che in esso si sono succedute, era necessario un approfondimento della categoria stessa di rivoluzione, risalendo all’intreccio di eventi, processi e riflessioni che avevano preso l’avvio alla fine del secolo XVIII.
Il tema della rivoluzione interessa un ampio arco di discipline sociali. Anche se nei singoli contributi gli apporti di queste discipline sono variamente presenti, l’impostazione del convegno è stata essenzialmente storiografica. Non si è inteso cioè proporre una tipologia delle rivoluzioni e nemmeno procedere a una ricognizione delle motivazioni – idealità, convinzioni, sentimenti, passioni – dei protagonisti delle rivoluzioni. Tanto meno si è preteso di passare in rassegna tutte le rivoluzioni avvenute nel corso dei due ultimi secoli.
Com’è noto, la parola “rivoluzione”, applicata agli eventi umani, è una metafora di origine astronomica, ricca peraltro di implicazioni e di rinvii alle umane vicende. La rivoluzione astronomica significa ritorno ad un punto di partenza empiricamente rilevabile e prevedibile. Essa contraddice perciò alla visione del tempo lineare, che è la visione comunemente legata all’idea di progresso, a sua volta connessa a quella di rivoluzione, della quale costituisce la legittimazione di fondo. La controrivoluzione viene di conseguenza identificata con il regresso o, come suol dirsi, con la pretesa di far scorrere il tempo all’indietro, mentre invece agli astri non è concesso invertire la rotta. Tuttavia gli astri, finita una rivoluzione, ne cominciano immediatamente un’altra: ai fautori della rivoluzione, e in particolare a quelli della rivoluzione permanente, questo dato può essere di conforto ma anche di sommo sconforto, in quanto il punto di arrivo coinciderà sempre ineluttabilmente con quello di partenza.
La metafora astronomica, con la sua concezione ciclica del tempo, è peraltro profondamente inscritta nello svolgimento storico dell’idea di rivoluzione. “Nel XVIII secolo la rivoluzione è prima di tutto il ritorno di forme già apparse”, ha scritto Mona Ozouf; e, a un più alto livello di generalizzazione, “gli uomini della rivoluzione hanno cercato spesso nel passato la profezia del grande avvenimento che stavano vivendo” [1]: profezia, può dirsi, e insieme rassicurazione contro il troppo vuoto fatto intravedere dalla ambiziosa sfida che la rivoluzione lanciava al futuro. Il ritorno al passato assume, in un ciclo globale che includa tutta la storia, il recupero di una primitiva età dell’oro (in termini più laici, stato di natura), dalla quale l’umanità è stata allontanata dalla corruzione, dalla violenza, dai malefici del potere. Il ritorno può tuttavia presentarsi anche come un percorso storico da riconoscere positivamente ma al quale occorre assegnare un termine: secondo Marx, storicista e insieme utopista, è il percorso dal comunismo primitivo al comunismo come regno della libertà A queste ciclicità globali si accompagnano spesso ciclicità di più breve e di più pessimistico respiro, tratte molte volte dal valore esemplare attribuito alla rivoluzione francese: ad esempio, dopo la rivoluzione vengono Termidoro e Bonaparte, dopo febbraio (del 1848) viene giugno, e poi di nuovo Bonaparte. I critici da sinistra del regime staliniano si sono a lungo affannati a discutere se si trattasse di termidoro o di bonapartismo.
La riaffermazione di un tempo lineare appare la via maestra per sfuggire alla ineludibilità dello scacco finale di un corso rivoluzionario sul quale si proietta ancora l’ombra del ciclo astronomico. Il volontarismo rivoluzionario, che non sta solo nella ideologia dei capi, allo scopo di uscire dai condizionamenti accumulatisi nel tempo e dalla fatalità della reiterazione, forza i tempi di costruzione di una nuova storia. Secondo lo spirito del 1789, diceva Michelet, “le temps n’existait plus; le temps avait péri”[2]. Era una scomparsa carica di ottimismo, mentre poi per il nichilismo l’uscita dal tempo e dalla storia sarà tragicamente connotata. “On dirait que le passé change avec le présent”: il volontarismo rivoluzionario non può accontentarsi di questa opinione di Guizot, preziosa invece per gli storici [3]; e tanto meno può accettare la massima dello stesso autore, secondo cui le rivoluzioni “sont bien moins le symptôme de ce qui commence que la déclaration de ce qui s’est passé avant elles”[4]. Furet, attribuendo però soltanto alla Francia un atteggiamento di carattere più generale, sintetizza efficacemente il difficile rapporto fra la rivoluzione e il tempo: “la conscience révolutionnaire à la française mêle à la représentation du temps comme malédiction la réduction du temps à l’image d’une aurore”[5].
Se le cose stanno così, provvederanno poi gli storici a rintracciare anche sotto le rotture più drastiche e le aurore più smaglianti i fili delle lunghe durate; essi saranno tanto più impegnati a farlo quanto più considereranno le rivoluzioni come deviazioni tragiche e parentetiche del corso maestro della storia. Spesso in polemica con lo storicismo giustificazionista, questi storici si faranno così interpreti di uno storicismo ancora più ferreo.
I responsabili della condotta rivoluzionaria saranno invece impegnati a tenere insieme realismo (il presente condizionato dal passato) e utopia (il futuro). Trockji li mise in guardia avvertendoli che “è infinitamente più pericoloso confondere il presente e il futuro in politica che in grammatica”[6]. Quando il presente stenta a prendere la via desiderata e promessa, i gruppi dirigenti della rivoluzione lo dilatano nella formula della transizione oppure, specie se estromessi dal potere, cercano di raddrizzarlo proiettandolo verso la rivoluzione permanente. Sono significative le oscillazioni di Stalin al riguardo: dal socialismo in un paese solo, che doveva rimediare alla mancata rivoluzione mondiale, fino agli attacchi contro i “dogmatici”, caduti nel pericoloso equivoco di credere che il socialismo in URSS ci fosse già. Capolavoro in questa direzione fu la tesi dell’ultimo Stalin secondo cui quanto più il socialismo era vicino alla vittoria finale tanto più aumentava la violenza della lotta di classe: in tal modo i processi e le repressioni venivano a indicare non già un ulteriore allontanamento dagli ideali rivoluzionari ma una loro imminente piena realizzazione.
Il carattere polisemantico della parola rivoluzione implica a sua volta un problema di rapporto con il tempo e quindi di periodizzazione [7]. A chi ha partecipato al convegno napoletano che, come si è detto, ha privilegiato l’approccio latu sensu di storia politica, non erano certo ignote le molte aggettivazioni che possono qualificare, alterandone il senso originario, un sostantivo la cui forza espansiva come simbolo di positiva innovazione viene peraltro in tal modo ribadita. Possiamo elencare alla rinfusa: rivoluzione scientifica, rivoluzione industriale, rivoluzione tecnologica, rivoluzione manageriale, rivoluzione informatica, rivoluzione dei prezzi, rivoluzione nazionale, rivoluzione religiosa, rivoluzione parlamentare, fino alla rivoluzione culturale di Mao e a quei veri e propri ossimori che sono la rivoluzione passiva di Gramsci, la rivoluzione conservatrice, la rivoluzione reaganiana e quella thatcheriana. Per ciascuna di queste rivoluzioni esistono distinti criteri periodizzanti, che cercano di tenere conto anche della durata dei risultati.
Del resto, anche le espressioni che si oppongono a rivoluzione sono varie e coprono un ampio arco di possibili comportamenti di varia estensione nel tempo: riforme, conservazione, restaurazione, reazione, controrivoluzione. Condorcet definì la controrivoluzione “une révolution au sens contraire”; De Maistre oppose che “la contrerévolution ne sera point une révolution contraire, mais le contraire de la révolution”; e Hanna Arendt giudicherà questa proposizione “an empty witticism”, incapace di comprendere il nesso che unisce ogni controrivoluzione alla rivoluzione che l’ha preceduta, così come ogni reazione è legata all’azione [8].
Il termine rivoluzione designa un evento più grandioso del termine rivolta: la prima si assume che abbia un progetto politico-sociale, la seconda una spontaneità che può sconfinare nel caos e portare così alla repressione e alla sconfitta, a meno che non inneschi una vera rivoluzione. Ma forse è proprio nel momento aurorale della rivolta che si verifica quella “sospensione del tempo storico” [9] che Michelet attribuivaalla rivoluzione come tale. Palesi sono anche le differenze con i termini insurrezione, colpo di Stato, complotto, e così via, fino a giungere al frastagliato rapporto fra rivoluzione e guerra civile.
Particolarmente problematico appare il confine fra rivoluzione e diritto di resistenza. Il diritto di resistenza, è stato giustamente osservato, è un “droit paradoxale tantôt inscrit dans les constitutions, tantôt nié dans son principe même, qui se situe en un lieu où se rencontrent, parfois de façon conflictuelle, l’agir politique, le droit et l’éthique” [10]. Un ordinamento giuridico può certo prevedere il diritto di non obbedire agli ordini che secondo lo stesso ordinamento siano illegittimi; ma il diritto alla rivoluzione non sembra possibile che venga formalizzato in un testo costituzionale, perché esso fa appello a principi che stanno al di sopra della costituzione, quali la legge morale, la legge divina, il diritto di natura. L’articolo 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 considerava diritto fondamentale la resistenza all’oppressione. Condorcet sostenne che quel diritto aveva bisogno di “bornes legales” e che occorreva trovare “moyens légaux de l’exprimer”, ma Robespierre nell’aprile del 1793 tagliò corto dichiarando che assoggettare a forme legali la resistenza all’oppressione era “le dernier raffinement de la tyrannie” [11]. Robespierre segnalava però una contraddizione reale, riscontrabile ancora nella proposta, che il 21 novembre 1946 Giuseppe Dossetti presentò alla Costituente, di un articolo che dichiarasse “diritto e dovere di ogni cittadino” “la resistenza, individuale e collettiva, agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione”: dove le libertà fondamentali vengono distinte e nominate prima dai diritti costituzionalmente garantiti [12].
Questo ultimo punto è indicativo della difficoltà che le rivoluzioni incontrano nei loro rapporti con il diritto: quello che vogliono rompere e quello che vogliono instaurare [13]. Si tratta della spia di un rapporto ancora più complesso, quello con lo Stato, con le istituzioni in generale e con la società. Portinaro nella sua relazione adotta la formula Bringing the State Back In [14] come indicativa della tendenza della più recente sociologia storica “a restituire, anche nella spiegazione del mutamento sociale, il dovuto peso ai soggetti statali e alla complessità delle loro articolazioni istituzionali”. A sua volta Chevrier ha ammonito a vedere “dans les révolutions la confrontation de dynamiques sociales en quête d’autonomie et de logique de restructuration du pouvoir avec, dans les cas maoïste, une tentative de synthèse entre ces deux logiques”. In verità, tutte le rivoluzioni ambiscono a realizzare questa sintesi, onde il giudizio storico che le riguarda deve tenere conto dei vari gradi di riuscita o, al contrario, di fallimento dei tentativi in quella direzione.
E poiché è l’azione politica che dovrebbe realizzare la sintesi, Cafagna, nella sua relazione su Tocqueville, può concludere che la rivoluzione, pur mossa da una grande passione di libertà, non funziona come “procedura politica”. Le costituzioni europee del primo dopoguerra tentarono, potrebbe dirsi, una sorta di sintesi preventiva, anche come alternativa al pericolo comunista, e la affidarono ai giuristi. “The jurist was king”, scrive Mazower in un suo libro pubblicato un anno dopo la relazione al convegno napoletano: si andò così in cerca di “juridical perfection rather than political expediency”, e il risultato fu, secondo alcuni critici che Mazower giudica unilaterali, che “such grandiose and ultimately utopian schemes only produced political structures that were unworkable in the real world” [15].
All’interno del cruciale rapporto fra Stato e società civile, che le rivoluzioni non possono eludere, si collocano numerosi altri insiemi di problemi. Ad esempio, quello dell’autonomia della politica in rapporto all’autonomia delle forze sociali: la prima può arrivare ad un delirio di onnipotenza, preludio di soluzioni totalitarie; la seconda, che ha spesso dato l’avvio al moto rivoluzionario, deve lottare per non farsi inglobare senza residui nel nuovo ordine politico-istituzionale. La politicizzazione dei cittadini, voluta e indotta dalla rivoluzione, corre il rischio di ribaltarsi in una strisciante e rassegnata spoliticizzazione. Le vicende storiche mostrano come le vie di mezzo e i compromessi siano numerosi. Così, secondo la celebre sentenza di Tocqueville, la Francia del 1799 era ancora rivoluzionaria ma non era più repubblicana ed era pronta a sottomettersi ad un padrone [16].
Centro e periferia hanno nelle rivoluzioni bisogno di trovare nuovi equilibri, e il centro finisce il più delle volte con l’averla largamente vinta. Nella sua relazione Buttino ha illustrato come la questione, che implicava anche la ridefinizione del diritto di accesso alle risorse, si sia dipanata dopo il 1917 nel rapporto fra Mosca e le repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Su più ampia scala il problema è rapportabile a quello della esportazione della rivoluzione. A riprova della superiorità inglese, Churchill e Austen Chamberlain erano orgogliosamente incerti sulla esportabilità del sistema parlamentare, e si congratulavano con “the Italians on having liberated themselves from a form of government to which they had clearly been unsuited” [17]. Nell’espandersi, la rivoluzione, nata come progetto universale, prende sempre più spiccatamente i caratteri propri della rivoluzione primogenita avvenuta in un determinato contesto nazionale. Esempi significativi sono dati dalla Francia napoleonica e dall’Unione Sovietica che, dopo la seconda guerra mondiale, inventò nell’Europa orientale le democrazie popolari: sono entrambi casi in cui la rivoluzione era stata già ammaestrata all’interno dei paesi originari. Paolo Viola, nella sua relazione, ha puntato lo sguardo sull’importanza che ebbe poi per la Francia la riunificazione in chiave nazionalistica delle molte eredità della grande rivoluzione, tanto che nel 1914-18 “la rivoluzione-blocco passava nell’armamentario della difesa nazionale”.
La “discussione di fine secolo” sulle rivoluzioni che il convegno si era proposto postulava, anche se non sempre in modo esplicito, un’altra discussione che ponesse al centro non tanto le rivoluzioni viste dalla fine del secolo quanto la fine delle rivoluzioni stesse. E’ noto quanto profonda e complessa sia stata e sia tuttora in Francia la discussione su come finire la rivoluzione, la Grande Rivoluzione, nel doppio senso di completarla oppure di uscirne finalmente fuori. Il dibattito sul se, sul come e sul quando sia finita la rivoluzione russa, fiorente nella terza come nella quarta Internazionale e in tutte le eresie di sinistra, è stato annichilito dagli eventi del 1989. Cinnella nella sua relazione pone un primo termine ad quem nella sconfitta patita nell’estate del 1921 nella provincia di Tambov dalla insurrezione contadina antibolscevica; più in generale, nella sconfitta dei socialisti rivoluzionari, che lascerà il campo aperto alla “rivoluzione plebea”.
Quando Fidel Castro parlava dell’anno (l’uno valeva l’altro) dello “esfuerzo decisivo” denunciava l’ansia di arrivare comunque ad una conclusione. Le “contesse dell’Impero” gioivano per il ritorno del Borbone: “Dieu soit loué, nous serons donc de vraies comtesses!” [18].
La tipologia della “fine della rivoluzione” è vasta e varia, e va da fatti empiricamente constatabili alle sottili e coinvolgenti distinzioni fra progetto e realtà. Una rivoluzione può, in prima approssimazione, finire per il raggiungimento del proprio obiettivo, per la delusione provocata dal non averlo raggiunto o dall’averlo raggiunto troppo parzialmente, per sostituzione dei dirigenti rivoluzionari con dirigenti amministratori, per stanchezza generale, perché tradita, perché schiacciata dai propri errori e dalle proprie colpe, per intrinseca fallacia dei propri obiettivi, per invasione straniera, per la vittoria della controrivoluzione. La conquista del potere politico, decisiva nei colpi di Stato, può nelle rivoluzioni essere vista sia come punto di arrivo, sia come inizio dell’attuazione del programma rivoluzionario, sia come fine della violenza illegale sostituita da quella legale o dalla commistione fra le due. La cooptazione da parte dei vincitori di frazioni più o meno ampie dei gruppi dirigenti sconfitti può a sua volta essere considerata un segnale di fine della rivoluzione. Si parva, il trasformismo pose in Italia fine alla “rivoluzione parlamentare”.
Anche il riconoscimento internazionale del nuovo governo può essere considerato un segnale di uscita dalla fase rivoluzionaria. Trockji considerò l’entrata nella Società delle nazioni la riprova che la reazione termidoriana dominava ormai nell’Unione Sovietica [19]. La rassegnazione dei delusi, pur se è difficile datarla con precisione, è a sua volta un indice di fine della rivoluzione; in senso opposto, la rivoluzione si esaurisce quando non si sente più legittimata a fare soffrire le generazioni presenti per il bene di quelle future. Uno sconfortato illuminista triestino denunciò coloro che si fanno “ciechi strumenti di rivoluzioni delle quali ignorano lo sviluppo” e del cui risultato “sole si accorgono le generazioni venture” [20].
Per il punto di vista anarchico e palingenetico, di rivoluzioni degne di questo nome, intese cioè come “mutamento sostanziale della società”, ancora non ce ne sono mai state. Cosicché “si tratta di farne una, che può durare secoli di dolori e di fatiche, ma è l’unica possibile. E sarà la prima e anche l’ultima, perché renderà superflua ogni altra rivoluzione, ponendo fine alla lotta per il potere e al potere stesso” [21]: insomma, “la lutte finale”.
Come accennavo sopra, nel convegno di “fine secolo” è emerso anche un problema di più vasta portata: sono ancora possibili le rivoluzioni? rientrano ancora nella immaginazione del futuro? Forse la risposta più sommessa e sconsolata è venuta da Simonetta Soldani, quando ha osservato che il 1848 è scomparso “dal comune senso della storia”, tanto che la espressione “è successo un quarantotto” è divenuta pressoché inintelligibile.
Di contro, da un punto di vista sociologico e partendo dalla definizione di rivoluzione come “presa di potere illegale, di solito con l’uso della violenza, la quale produce un mutamento fondamentale nella istituzioni dello stato”, si poteva ancora nel 1993 giungere alla conclusione “che nel tardo XX secolo le rivoluzioni (e i tentativi rivoluzionari) sono stati frequenti – in Iran, in Nicaragua, in Afghanistan, in Polonia, nella Filippine – e resteranno probabilmente un tratto ricorrente nella politica mondiale”[22].
Il nucleo di fondo della discussione non sta peraltro nella possibile scomparsa delle rivoluzioni, ma nella pensabilità stessa di sostanziali mutamenti dei modi della umana convivenza che debbono in qualche modo passare attraverso la politica.
Max Weber, nella sua famosa sentenza a proposito della azione politica in quanto tale, affermò che “è assolutamente corretto, e ogni esperienza storica lo conferma, che non si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non si avesse sempre continuamente puntato all’impossibile” [23]. Oggi sembra invece che si rinunci anche a un uso strumentale delle grandi e appassionate aspettative, spesso considerate anzi di per se stesse un flagello. “Solo chi è sicuro”, prosegue Weber, “di non cedere anche se il mondo, guardato dal suo punto di vista, è troppo stupido o cattivo per ciò che egli gli vuole offrire, e solo chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto ciò ‘Nonostante tutto, andiamo avanti!’, solo quest’uomo ha la ‘vocazione’ per la politica”. Possiamo leggere alla luce di questo alto sentimento della politica le parole con cui Mazower conclude la sua relazione, commentando “lo strano trionfo della democrazia in Europa dopo l’89”. Gli europei, egli scrive, “accettano la democrazia perché essi non credono più nella politica. Nella rivoluzione, hanno smesso di crederci tempo fa”.
Coloro che analizzano la società d’oggi, e gli storici futuri, dovranno chiedersi dove abbiano trasmigrato le speranze che un tempo assumevano la veste della rivoluzione e che sembrano oggi non assumere più neppure quella della politica.

NOTE
1- M. Ozouf, Rivoluzione, in F. Furet – M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese, , Milano, Bompiani, 1988, p. 759 (ediz. orig. Flammarion, Paris 1988).
2- Cit. in F. Furet, L’idée française de la révolution, in “Le Débat “, 96, septembre-octobre 1997, p. 19.
3- F. Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif et des institutions politiques de l’Europe depuis la chute de l’Empire romain jusqu’au XIV siècle, cit. da A. Saitta, Introduzione a F. Guizot, Storia della civiltà in Europa, Torino, Einaudi, 1956, p. XLII.
4- Cit. in F. Furet, L’idée française de la révolution… cit., nota 2.
5- Ibidem.
6- L. Trockji, La rivoluzione tradita, Milano, Schwarz, 1956, p. 67 (ediz. orig. 1936).
7- A questo tema la Sissco dedicò un convegno tenutosi a Pisa dal 17 al 18 maggio 1996. Vedine gli atti in “Parolechiave”, 12, 1996, nonché in ‘900. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma, Donzelli, 1997.
8- H. Arendt, On Revolution, Harmondsworth, Penguin Books, 1963, p. 18, con rinvio per Condorcet a Sur le sens du mot révolutionnaire, 1793, e per De Maistre a Considerations sur la France, 1796.
9- Questo è l’asse del discorso che Furio Jesi conduce in Spartakus. Simbologia della rivolta, Torino, Bollati Boringhieri, 2OOO.
10- Le Droit de résistance; XII-XX siècle. Textes réunis par Jean claude Zancarini, Fontenay/Saint-Cloud, ENS Editions, 1999, Avant-propos , p. 9.
11- Ibidem, p. 12.
12- L’articolo fu sottoposto a numerosi emendamenti e, giunto in aula, fu bocciato. Si veda U. Mazzone, Il diritto/dovere di resistenza nella proposta di Giuseppe Dossetti alla Costituente, in Resistenza e diritto di resistenza. Memoria come cultura, a cura di A. De Benedictis – V. Marchetti, Bologna, CLUEB, 2OOO, pp. 45-76.
13- Jean-Claude Zancarini nel donare a chi scrive una copia del volume da lui curato (cfr. nota 10) vi ha apposto la dedica, fra lo scherzoso e l’assertivo: “derrière le droit, la résistance! “.
14- Il rinvio è a Bringing the State Back In, a cura di P.B. Evans – D. Rueschemeyer – T. Skocpol, Cambridge, Cambridge University Press, 1985.
15- M. Mazower, Dark Continent. Europe’s Twentieth Century, New York, Alfred A. Knopf, 1999, p. 7.
16- Si veda Come la nazione non essendo più repubblicana era rimasta rivoluzionaria, in A. de Tocqueville, Frammenti storici sulla Rivoluzione francese, a cura di A. Omodeo, Milano, Ispi, 1943, pp. 39-53.
17- M. Mazower, Dark Continent…cit., p. 17.
18- Memorial de Sainte-Helène par le Comte de Las Cases, I, Paris s.d., p. 96, cit. da Orlando in La letteratura e le cose, conversazione tra Francesco Orlando e Claudio Pavone, in “Parolechiave”, 9, 1995, La memoria e le cose, p. 64.
19- L. Trockji, La Rivoluzione tradita…cit., p. 171.
20- A. De Giuliani, La cagione riposta delle decadenze e delle rivoluzioni, Due opuscoli politici del 1791 e del 1793, editi a cura e con introduzione di B. Croce, Bari, Laterza, 1934, p. XII.
21- D. Insolera, Nuova rivista e nuovo indirizzo politico, in Dopo Vittorini, appunti per una rivista rivoluzionaria, a cura di C. Doglio, Milano, Moizzi, 1976, pp. 92-97; poi in D. Insolera, Come spiegare il mondo, Bologna, Zanichelli, 1997, pp. 98-102. Lo scritto è datato marzo 1950, e fa parte dei materiali preparatori di una rivista che doveva far seguito a “Il Politecnico”. Accanto a Insolera e Doglio facevano parte del gruppo Gian Carlo De Carlo, Franco Ferrarotti, Franco Fortini, Roberto Guiducci, Franco Momigliano, Pietro Spada, Pino Tagliazucchi, Leo Valiani.
22- J.A. Goldstone, voce Rivoluzione, in Dizionario delle scienze sociali, edizione italiana a cura di P. Jedlowski, Milano, Il Saggiatore 1997, pp. 625-27. Goldstone nel 1990 aveva curato il volume Revolutions of the Late 20th Century, Westview Press, Boulder.
23- M. Weber, La politica come professione (1919), in Scritti politici, Roma, Donzelli, 1998, p. 174.