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La rivoluzione vista dalla periferia

Marco Buttino
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento

a cura di D.L. Caglioti e E. Francia

Inizierò con una telegrafica descrizione delle dinamiche politiche messe in atto dalla crisi dell’impero zarista nel corso della prima guerra mondiale. Gli avvenimenti essenziali sono noti a tutti, ma mi è utile menzionarli perché costituiscono il quadro generale di riferimento di alcune situazioni locali, che invece affronterò più in profondità. Queste situazioni locali riguardano le regioni dell’Asia centrale incluse nell’impero zarista e poi nell’Urss.
Intendo infatti riflettere sulla rivoluzione bolscevica considerandola dal punto di vista di regioni che stanno al margine dell’impero. Sono luoghi dove la politica alta pare particolarmente distante, dove non vi è una classe operaia autoctona organizzata, ma una popolazione di contadini e di pastori nomadi, dove la gente del posto per lo più non conosce il russo e la religione è musulmana. La mia convinzione è che allontanandoci dal Centro, ossia dalle istituzioni del potere imperiale e dalla retorica dei leader politici della capitale, possiamo fare qualche passo per intuire la complessità degli avvenimenti che accompagnarono il crollo dell’impero. In realtà non si tratta soltanto di spostare il punto di osservazione, ma di porre al centro dell’indagine la società invece delle istituzioni e del pensiero politico, che costituiscono un oggetto privilegiato per molti storici dell’Urss. L’attenzione ai conflitti sociali implica necessariamente la definizione di un terreno «locale» di indagine, perché la gente vive in un luogo definito. Il rischio è che, avvicinandoci alla società si scopra una infinita varietà di situazioni. Forse è meglio accettare questo rischio, che rifugiarsi nel mondo rassicurante delle generalizzazioni.
Il mio è un invito a non fidarsi delle grandi interpretazioni della rivoluzione e a sospendere le speculazioni rinviandole, nel caso, a dopo un viaggio verso un frammento della società «locale».
Iniziamo dai tratti generali. Il regime zarista si impegnò in una guerra senza disporre di quanto era necessario per affrontarla. Il paese infatti non aveva un governo autorevole e forte, né un apparato produttivo in grado di sostenere l’esercito, approvvigionare i soldati e sfamare la popolazione non combattente. La guerra provocò la crisi, e nella crisi presero forma i contrasti che portarono alla dissoluzione dell’impero. Nel corso del 1917, un governo non più monarchico tentò di ricostruire su basi nuove il rapporto tra le istituzioni centrali dello stato e i cittadini, non più intesi come sudditi. La via scelta, quella delle elezioni a suffragio universale, comportò il passaggio al pluralismo politico e la formazione di organizzazioni politiche, a livello centrale e locale, i cui esponenti si candidavano a governare. La debolezza delle istituzioni centrali dello stato, e il loro scarso credito tra una popolazione stanca della guerra, aprirono la strada all’affermazione di partiti sovversivi al centro, mentre nelle province della Russia e nei territori non russi dell’impero le élites politiche locali rivendicarono il riconoscimento formale di un’autonomia, che già di fatto avevano, e ricercarono la legittimazione popolare in quanto portavoci degli interessi locali. Le loro rivendicazioni, dove vi erano le condizioni, nella periferia, ma anche nel cuore dell’impero, come in Ucraina, si presentarono come affermazione di diritti «nazionali». Il procedere della crisi verso il crollo dello stato centrale, rese più aspra la competizione per ottenere il controllo del territorio e affermare diritti di priorità sulle risorse. Nelle province nacquero infinite autonomie locali nella forma di soviet e di piccole dittature armate che miravano ad affermare l’ordine e a difendere la comunità dalle minacce esterne. Nei territori nazionali molti leader politici non russi puntarono sulle elezioni e si fecero nazionalisti, mentre i russi immigrati in questi territori in genere si pronunciarono a favore dello stato centrale.
Accadde dunque essenzialmente questo: le istituzioni dello stato zarista si dissolsero, gli organismi di governo e l’amministrazione ai vari livelli persero legittimità, l’esercito si sciolse e migliaia di persone si trovarono con le armi in mano, la povertà si diffuse e per molti diventò fame.
Potremmo trovare gli stessi tratti generali in altre situazioni. Se sostituiamo l’aggettivo «sovietico» a quello «zarista» e introduciamo qualche altro piccolo cambiamento, la descrizione si adatterebbe a quanto si determinò sullo stesso territorio settant’anni dopo. Potremmo anche dire «jugoslavo» e spostare ancora l’osservazione. Le differenze tra questi tre casi sono ovviamente molte. La più evidente è che nel 1917 la contrapposizione tra la tendenza alla ricostruzione dell’impero e le tendenze autonomiste si concluse a favore della prima, del centralismo. La ricostruzione dell’unità politica dell’impero venne presentata come diffusione della rivoluzione dal Centro alla periferia, fu una riconquista militare accompagnata dalla formazione delle istituzioni dello stato sovietico. Fortunatamente, settant’anni dopo, il governo di Mosca non si avventurò alla riconquista (limitandosi ad imporla nel quadro della Federazione russa); la tentò invece il governo di Belgrado, ma senza riuscirci.
Restiamo però al 1917-1918. La formazione di repubbliche autonome, di villaggi autonomi, di soviet locali che facevano proprie leggi, si organizzavano e si armavano da soli, costituì un processo politico che non era controllabile dal centro. Le fazioni in lotta a livello locale, che si contendevano direttamente l’accesso alle risorse alimentari in situazioni di fame, facevano riferimento al centro, e agli schieramenti politici che si combattevano provocando la guerra civile, per ottenere riconoscimento e, se non per ricevere aiuti, almeno per allontanare pericoli di aggressioni armate. Nonostante la relativa semplicità delle retoriche politiche che erano elaborate dall’alto e si ripetevano dal basso in un gioco di rimandi e rassicurazioni, il territorio dell’ex-impero era ormai diviso in un numero infinito di autonomie di fatto. Soggetti diversi, con logiche, modalità e obiettivi differenti, si spartivano il territorio e le risorse. Queste dinamiche complesse erano difficilmente riducibili alla rappresentazione che ne davano i leader politici del centro, perché la loro comprensione e descrizione dei processi in corso era di parte, e spesso ideologica e disattenta agli avvenimenti «piccoli», apparentemente non rilevanti negli equilibri politici generali.
Non era una rivoluzione leninista, né una «rivoluzione plebea». La violenza, che si diffuse nel paese, non aveva infatti un’unica guida e obiettivi coerenti, ma non era neppure frutto di ciechi istinti di una plebe che si imponeva in assenza dello stato. Allora, come oggi nelle guerre dell’ex-Jugoslavia, non vi era nulla di spontaneo o di «primordiale» nella violenza, ma vi erano infinite logiche in un contesto di paura.
Se quanto avvenne non può essere indagato con gli occhi di Pietrogrado non resta che una via, spostarci verso la periferia. Vi invito a pensarvi in Asia centrale, in Turkestan. Si tratta di una regione della periferia dell’impero, conquistata dall’esercito zarista nella seconda metà dell’800 e diventata di fatto una colonia interna.
La nostra attenzione all’interno della colonia è rivolta a tre situazioni, che possiamo considerare come casi-studio delle dinamiche sociali di una rivoluzione lontana da Pietrogrado: il primo caso è quello di Tashkent, la capitale, luogo della politica, dell’amministrazione e delle forze militari imperiali; il secondo è il Semirech’e, una regione dove una popolazione locale nomade o semi-nomade affrontava una consistente immigrazione di coloni russi; il terzo è il Fergana, una valle importante perché produceva gran parte del cotone utilizzato dall’industria tessile della Russia. Nei tre casi il crollo delle istituzioni dell’impero provocò uno scontro politico, riguardante soprattutto gli assetti coloniali e i rapporti con la Russia, e aspri conflitti sociali, principalmente tra i russi immigrati e la popolazione autoctona. Vi presento uno schema di lettura di questi avvenimenti locali, costruito con l’ambizione di portare un qualche contributo alla discussione più ampia sulla rivoluzione.
1. A Tashkent scopriamo quanto sia cruciale il contesto nel dare significato alle iniziative, ai discorsi e alle parole d’ordine della politica. E’ una città coloniale: tre quarti della città sono composti da quartieri vecchi, fatti di stradine intricate, molte moschee, spazi coperti dove vi sono i bazar, la popolazione è quasi esclusivamente musulmana; il resto della città invece è stato costruito da poco tempo, ha grandi viali diritti, dove si trovano gli uffici amministrativi, le caserme e le case degli immigrati russi, che sono soprattutto militari e uomini d’affari. Gli abitanti delle due parti della città sono distanti in tutto, a cominciare dalla lingua, tuttavia tra loro, anche se in modo non molto diffuso, si sono costruiti e consolidati rapporti, che riguardano tanto le attività amministrative, che quelle economiche. La mediazione tra questi due mondi passa quasi esclusivamente attraverso gente del posto che si è avvicinata ai russi e ne parla la lingua, sono commercianti, intellettuali e funzionari. Il mondo colto musulmano è diviso negli atteggiamenti verso i russi e la cultura europea: vi è chi vede in questo rapporto un’occasione positiva per rinnovare la cultura musulmana, e vi è invece chi teme che il contatto con i russi porti alla corruzione dei valori fondanti della società musulmana. Gli esponenti di entrambe le tendenze aspirano a fare da guardie di una frontiera spirituale a difesa della società locale, discutono e si scontrano con asprezza in nome del bene del popolo. Nascono da questi atteggiamenti le diverse tendenze del nazionalismo musulmano, che hanno un ruolo politico importante nel corso del 1917, e anche in seguito, per poi finire nella repressione sovietica.
Siamo nell’estate del 1917, si tengono per la prima volta elezioni della duma (governo cittadino) basate sul principio «ad ogni cittadino un voto». L’intellettualità musulmana si divide sul modo di fare le elezioni: i conservatori non vogliono che le donne votino perché sono contrari alla loro partecipazione alla vita pubblica e ritengono inaccettabile che per certificare la loro identità nei seggi sia richiesto di scoprire il volto alzando il velo. I politici musulmani più vicini agli occidentali, che non condividono queste posizioni e temono che un successo dei conservatori porti all’affermazione di un’ortodossia chiusa a ogni stimolo di progresso, non osano però presentare liste elettorali comuni con esponenti dei russi.
Il voto trasforma la maggioranza numerica della popolazione, quella musulmana, in maggioranza politica. All’interno dei musulmani, che vincono le elezioni, la parte conservatrice ha la grande maggioranza dei voti.
La dinamica politica successiva a questa affermazione dei musulmani vede una minoranza russa spaventata, che sta perdendo i contatti con la Russia, è minacciata dal disastro economico e si sente travolta dalla maggioranza musulmana in tutta la colonia. Nel settembre del 1917 c’è un primo tentativo di colpo di stato da parte di soldati russi, che saccheggiano il bazar, si impadroniscono dei beni dei mercanti musulmani, poi si proclamano come soviet cittadino e assumono il potere in nome della grande rivoluzione. Questo tentativo fallisce per il momento, ma si afferma definitivamente nel novembre, quando nasce il governo rivoluzionario del Turkestan. I rivoluzionari di Tashkent hanno preceduto quelli di Pietrogrado, hanno preso il potere e subito dichiarano la propria intenzione, che è quella di una dittatura politica in nome del centro con l’esclusione dal governo dei musulmani perché tra i musulmani, così sostengono, non vi sono organizzazioni proletarie.
La rivoluzione bolscevica ha assunto significati particolari all’interno della colonia, pare un colpo di stato restauratore che permette alla minoranza russa di continuare a svolgere un ruolo dominante e alla Russia di mantenere il Turkestan in una posizione di dipendenza. I leader musulmani rispondono a questa rivoluzione proclamando un loro governo nazionale autonomo in un’altra città del Turkestan, a Kokand, in Fergana. Il loro governo si dichiara fedele alla Costituente, ossia all’introduzione di un sistema politico basato sul voto universale. Vedono in questo sistema la via per raggiungere l’autonomia e la fine del regime coloniale.
Il contesto dà significato alla politica: la dittatura del proletariato proclamata a Pietrogrado è diventata dittatura dei russi e nuovo colonialismo a Tashkent.
2. Il secondo caso in esame è scelto per considerare un altro aspetto della rivoluzione, la sua natura di lotta per ridefinire i diritti di accesso alle risorse. Qui, in Turkestan, gli espropriati non sono gli aristocratici e i borghesi, ma i gruppi più poveri della popolazione.
Ci sono, in Asia centrale, vaste regioni abitate in prevalenza da pastori nomadi. In buona misura si tratta di regioni dove l’acqua è scarsa e vi è steppa o deserto, ovunque i percorsi dei nomadi toccano le zone dove l’agricoltura è possibile. Lo scambio tra i prodotti dell’allevamento e i prodotti agricoli fa parte degli equilibri economici necessari al mantenimento delle tribù nomadi, quanto la disponibilità di pascoli e di mandrie. Vi sono anche regioni di montagne e di valli, dove i percorsi del nomadismo coprono distanze corte e la vicinanza con i sedentari è più stretta. Una dei queste regioni è il Semirech’e, nelle cui zone fertili si sono recentemente insediati coloni russi e cosacchi. La loro immigrazione è stata accompagnata da notevoli conflitti. I coloni hanno sottratto terra ai nomadi e messo in crisi l’equilibrio ecologico su cui si basa il nomadismo. Poi è venuta la guerra mondiale e con essa l’aumento del prezzo del grano che ha causato altre difficoltà ai nomadi, costretti a vendere maggiori quantità di bestiame per ottenere il grano necessario. Infine, nel 1916, l’esercito russo ha chiesto alle tribù di fornire uomini per lavori civili alle dipendenze dell’esercito. Una rivolta di nomadi è il tentativo disperato di difesa dalle pretese dell’amministrazione coloniale, ma la rivolta viene repressa dall’esercito con la partecipazione attiva dei coloni e dei cosacchi. Nel 1917, l’anno delle rivoluzioni, le tribù nomadi kirgize, kazache e turkmene sono in una situazione disperata di crisi. Si diffonde la fame, mentre coloni e cosacchi continuano le rappresaglie contro di loro. In molti villaggi si usa l’espressione «andare a caccia» di nomadi, i coloni difendono il loro grano con le armi e cacciano con la forza i nomadi sbandati che si avvicinano. Altri nomadi, che sono scappati in Cina, tentano di tornare nel 1917 e sono affrontati con le armi. I coloni sono diventati intanto protagonisti dei soviet dei loro villaggi, hanno armi date dalla Rivoluzione e compiono stragi.
Nel periodo che va dal 1917 al 1920 le violenze continuano senza alcun intervento a favore della popolazione nomade da parte dello stato. Nascono conflitti con i nomadi anche in regioni in cui la popolazione sedentaria non è russa: così avviene nelle regioni dei turmeni dove l’Armata rossa trova alleati negli uzbechi sedentari per indebolire le tribù nomadi e condannarle alla fame. Nel 1920, in tutto il Turkestan, il bilancio è la perdita di circa la metà della popolazione nomade: sono scomparse circa un milione di persone e per gran parte dei sopravvissuti il nomadismo non è più praticabile perché il numero dei capi di bestiame si è ridotto ad un terzo rispetto all’anteguerra.
E’ difficile pensare che questi conflitti per la sopravvivenza possano essere spiegati dalle teorie rivoluzionarie o semplicemente come esplosioni irrazionali di una violenza «plebea». Sarebbe indubbiamente più utile studiare come in questi anni sono mutati i diritti di accesso alle risorse e come i nomadi abbiano perso la capacità economica e politica necessaria a salvarli dalla fame. La spiegazione non sta nelle aporie del pensiero di Lenin, sono più utili gli studi sulle carestie fatti da Amartya Sen.
3. Il terzo, e ultimo, caso su cui intendo soffermarmi è quello del Fergana, la regione dove vi sono le principali piantagioni di cotone e dove, tra la fine del 1917 e i primi mesi del 1918, ebbe sede il governo autonomo musulmano. Qui il nazionalismo e la costruzione della violenza etnica prendono forme ancora diverse.
I russi immigrati nella regione sono una piccola minoranza e non sono in grado di controllare il territorio, ma anche il nuovo governo rivoluzionario non intende rinunciare ad una zona di vitale importanza economica e lasciarla ai musulmani. Il crollo dell’amministrazione zarista nella regione, come altrove, dà luogo a infinite contese per la ridefinizione degli assetti del potere locale.
Un primo aspetto rilevante di queste contese consiste nel fatto che il governo di Tashkent e i russi locali favoriscono qui la formazione di dittature etniche non soltanto russe in contrapposizione alla maggioranza musulmana. In varie cittadine della regione ad essere mobilitata in questa direzione, oltre alla minoranza russa, è quella armena. Non si tratta di un gruppo numericamente consistente, ma di piccole comunità urbane. La loro capacità aggressiva nasce dal fatto che i russi danno loro le armi e che essi sono disposti a servirsene perché si sentono minacciati dalla maggioranza musulmana che li circonda. La forza disperata che viene dall’essere sotto minaccia è un aspetto ricorrente dei conflitti che si stanno sviluppando alla fine dell’impero (ed è un aspetto che si ripresenterà quando verrà il crollo dell’Urss e della Jugoslavia). Parte di questi armeni vive in Fergana da molto tempo, ma parte di loro sono profughi sfuggiti al genocidio del 1915 in Turchia. Ciò che li terrorizza è che la caduta del regime coloniale provoca un’attivizzazione dei musulmani che può rivolgersi contro di loro. Gli armeni ottengono il diritto a svolgere le funzioni di governo nelle cittadine, controllano le ferrovie e i trasporti, e appena possono usano le armi per compiere azioni di una violenza inaudita contro i musulmani.
Nello stesso 1918, mentre i coloni russi e gli armeni si costituiscono come dittature armate nelle cittadine e nei loro villaggi, i musulmani si organizzano più o meno nello stesso modo nei loro territori. Nelle campagne musulmane assumono grande rilevanza le bande di basmachi, che i russi definiscono banditi e altri considerano come militanti della resistenza alla dittatura russa e armena. Se non ci fermiamo alle opposte etichette di fuorilegge o di eroi, scopriamo che tutti i principali capi basmachi, svolgono essenzialmente la funzione di tutori dell’ordine nelle loro zone: sono legati alle famiglie influenti della loro zona, spesso sono aderenti di confraternite sufi, costituiscono bande in ogni villaggio, controllano in modo capillare il territorio, hanno un loro sistema di imposizione di tasse e di amministrazione della giustizia. Questo tipo di organizzazione ricalca quella tradizionale: i capi basmachi svolgono un ruolo del tutto simile a quello dei bek, che gestivano il potere locale prima della conquista russa.
Il fenomeno dei basmachi può essere considerato come una continuazione del nazionalismo musulmano, ma in altre forme e con attori sociali differenti. I leader politici musulmani che hanno creato il governo autonomo a Kokand, vengono sconfitti nel giro di pochi mesi dalla guardia rossa, che scioglie il governo dopo aver saccheggiato e dato al fuoco la città (con l’aiuto della minoranza armena locale). I politici sconfitti escono di scena, mentre i basmachi tengono il territorio fuori del controllo sovietico. Con i basmachi si afferma una leadership moto diversa da quella del nazionalismo del primo periodo: sono gente del posto, non sono usciti dalle alte scuole islamiche, non parlano russo, sono lontani dal mondo della politica. La loro guerra contro i bolscevichi non è una rivoluzione o una controrivoluzione, ma semplicemente l’affermazione della volontà di governarsi da soli, di seguire i dettami della legge islamica invece di quella russa e, soprattutto, di difendersi dalla minaccia della fame.
Abbiamo trovato in Fergana pratiche di consapevole costruzione di violenza etnica e azioni di «pulizia etnica». Abbiamo intravisto che quando i conflitti si radicalizzano i politici nazionalisti sono scavalcati da altri leader più radicali e che nella competizione si afferma chi è in grado di far ricorso alle armi. Abbiamo trovato musulmani considerati come estremisti e banditi, ma preoccupati soprattutto di ristabilire l’ordine.
Come va a finire questa vicenda? Finora ho parlato di una situazione di disgregazione secondo criteri che poco hanno a che fare con le immagini oleografiche della rivoluzione di Ottobre, della classe operaia, del partito di Lenin. Questa situazione finisce con la conquista militare: nel 1920 arriva dal Centro un nuovo esercito e riconquista con la forza l’ex colonia del Turkestan. In questa guerra il governo rivoluzionario di Mosca manda molti soldati, reclutati in altre regioni della Russia, anche in regioni musulmane. Usano aeroplani e bombe. La gente del posto non aveva mai visto gli aeroplani, che seminano il terrore e appaiono come segno della superiorità ormai invincibile dei russi. La modernità, che la rivoluzione russa si propone di portare in queste regioni, inizia con questo tipo di conquista. Poi verranno le trattative, i compromessi e la cooptazione di gente del posto nei ranghi ormai solidi della nuova amministrazione russa e sovietica.
Lo schema che ho proposto indica un percorso verso la definizione di situazioni specifiche nel quadro del generale mutamento della configurazione dei rapporti di potere determinatosi nella crisi dell’impero russo. I casi presi in esame sono utili perché permettono di indagare su questioni rilevanti allora in quel contesto e interessanti ancora oggi perché il crollo di stati, quali quello sovietico e quello jugoslavo, hanno riproposto dinamiche analoghe di conflitto. Non credo che le situazioni dell’Asia centrale che abbiamo considerato costituiscano una storia a parte nel quadro della rivoluzione, più di quanto non siano storie particolari quelle dei luoghi ritenuti centrali, quelli più vicini al Cremlino, dove i processi politici o militari della rivoluzione risultano più visibili. Il problema non è quali siano le situazioni più rappresentative, ma su quali questioni, e quindi come, si intende indagare. In ogni caso, si dovrebbe esplorare molto e in profondità nelle specificità prima di avventurarsi a fornire sistematizzazioni generali di qualsiasi sorta.