La Spagna contemporanea dall’Italia: percezioni, storiografia e influenza del “caso spagnolo” nel dibattito più recente
(Testo provvisorio, da non citare senza autorizzazione)
Alfonso Botti
Il Mondo visto dall’Italia
Convegno della Sissco
Milano, Università cattolica, 19-21 settembre 2002
1. Una panoramica sui secoli XIX e XX
1.1 Periodo risorgimentale (e Spagna fino al 1875)
Per quanto riguarda l’Ottocento, non mi soffermerò sul periodo pre-unitario, se non per rinfrescare la memoria su quanto risaputo, e cioè che grosso modo fino al declinare degli anni Sessanta, intellettuali, politici e uomini d’azione italiani guardarono alla guerra d’Indipendenza antinapoleonica, alle Corti di Cadice, alla Costituzione del 1812, al Triennio liberale e, da ultimo, alla rivoluzione del ‘68, traendovi ispirazione e conforto; mentre i reazionari nostrani, specie dopo il 1830, videro nel legittimismo carlista un’epifania delle chanches che poteva ancora giocare chi vagheggiava il ritorno all’Antico regime. Le vicende spagnole foraggiarono così l’immaginario politico liberale e i manuali militari dei patrioti italiani, prima che gli scritti di Jaume Balmés e soprattutto di Donoso Cortés venissero ad alimentare i sogni dei nostri controrivoluzionari, sia che giungessero in Italia direttamente, sia che, come avvenne spesso, vi arrivassero attraverso la mediazione del pensiero reazionario cattolico d’oltralpe.
Nel frattempo circa 40 mila italiani avevano guerreggiato nell’Armata napoleonica, un nutrito drappello di volontari italiani combattuto contro l’assolutismo nel Trienio Liberal e gruppi di esuli trovato riparo in varie circostanze al di là dei Pirenei. Altri volontari, garibaldini questa volta, lotteranno contro i carlisti in difesa della Repubblica ancora nel 1873. Esistono dunque intensi rapporti sul piano storico, come confermano svariate fonti letterarie, memorialistiche e diplomatiche. Sappiamo infine che i decenni pre-unitari costituiscono anche il periodo più fertile per la nascita di miti destinati a durare: Cesare Balbo in missione diplomatica a Madrid tra il 1816 e il 1819 scrive pagine nella quali Passerin d’Entreves vede l’atto di nascita del mito della Spagna come “paese di libertà”; nei cenni di Mazzini agli spagnoli come “popolo in armi” è stata rinvenuta la trascrizione in chiave democratica del mito romantico ispanico.
Sulla percezione e l’immagine della Spagna nell’Italia risorgimentale, esiste letteratura copiosa e spesso anche scientificamente solida. Giorgio Spini, in un lavoro ormai classico sul 1820-21 ha messo in luce la funzione della Spagna antinapoleonica nel risveglio delle nazionalità europee. Marco Mugnaini ha più recentemente ripercorso da una parte le relazioni culturali, politiche e diplomatiche tra i due paesi tra il 1814 e il 1870, dall’altra ricostruito origini e primi snodi dell’interesse storiografico italiano per il paese iberico. Nicola Del Corno dopo aver studiato la prima guerra carlista nella stampa reazionaria italiana, si è soffermato sulla missione diplomatica del principe di Canosa a Madrid del 1814-15, per poi esaminare, in riferimento agli anni successivi, le cronache su “La Nuova Antologia” di Ruggiero Bonghi. Da ultimo Vittorio Scotti nella sua analisi sulle origini della guerriglia, dalla guerra irregolare alla petite guerre, e sui suoi i riflessi internazionali, ha indagato il versante italiano, mettendo in luce l’influenza che l’esperienza spagnola esercitò sui manuali dedicati al nuovo modo di guerreggiare dei patrioti italiani.
Sulle aspettative spagnole di Mazzini fino alla rivoluzione del 68, sulla quale ripose inizialmente grandi speranze, le stesse che nutrirono Garibaldi e gli ambienti democratici del periodo, si è recentemente aggiunta la monografia di una studiosa spagnola, che getta nuova luce anche sul versante italiano.
1.2 Primi decenni post-unitari (e Spagna della Restaurazione fino alla crisi del ‘98)
Altrettanto noto è il rovesciamento dei ruoli rispetto ai precedenti decenni che si verifica dopo la nascita dello Stato unitario, quando sono le élites modernizzanti spagnole che cominciano a guardare all’Italia e alla sua monarchia come a un modello. Presso i nuovi governanti italiani, invece, gli interventi spagnoli a difesa del regno borbonico in Italia e del potere temporale del papa finiscono per mettere la Spagna in cattiva luce. L’inversione di tendenza si registra nel corso degli anni Sessanta, specie dopo il ‘68, allorquando Vittorio Emanuele II dispiega la sua politica dinastica tesa a insediare un Savoia sul trono dei Borbone, per la quale invia nel ‘69 il generale Enrico Cialdini (figlio e sposo di spagnole), conoscitore della realtà del paese dove aveva prestato servizio e guerreggiato dal 1835 al ‘48. Una politica dinastica, come a suo tempo messo in luce da Federico Chabod, distinta, diversa e parallela rispetto alla politica estera del governo italiano e che proseguì anche nel breve regno di Amedeo di Savoia (1870-72), durante il quale – è sempre Chabod a scriverlo – il re d’Italia avocò a sé la questione Spagna.
La fine del breve regno, con il suo carico di strascichi durevoli, seguito dall’altrettanto effimero esperimento repubblicano e soprattutto la restaurazione dei Borbone sul trono di Spagna nel 1875 segnano il punto definitivo di svolta che determina un sensibile calo d’interesse per le vicende del paese iberico.
Da segnalare nella letteratura italiana dedicata al regno di Amedeo di Savoia, l’affacciarsi di uno spunto significativo: quello dei cattivi consiglieri italiani del re e della reciproca ignoranza.
Spostando l’attenzione dalle élites politiche al mondo ecclesiastico italiano, c’è da chiedersi che visione ebbero la Curia romana e i vertici ecclesiastici delle vicende del cattolicesimo spagnolo dopo la restaurazione dei Borboni sul trono. Le ricerche di cui disponiamo concordano nel sottolineare le preoccupazioni romane per le divisioni dei cattolici spagnoli sul piano politico, la progressiva, ma anche contraddittoria, presa di distanze dalle posizioni carliste e il parallelo incoraggiamento ad accettare come ipotesi il sistema politico architettato e realizzato da Cánovas del Castillo. Assai meno concordi appaiono, gli studi, nella sottolineatura del sostanziale avvallo che i carlisti ricevettero in virtù della tesi cattolica della quale essi si proclamavano unici sostenitori nel contesto iberico e che non venne, né poteva, essere sconfessata dalla massima autorità ecclesiastica. Tant’è che ancora nelle istruzioni della Santa Sede agli integristi del 1909 e nelle norme trasmesse dal Segretario di Stato, Merry del Val, nel 1911, ribadirà la necessità di difendere la tesi cattolica e l’obiettivo del ripristino dell’unità religiosa.
Socialisti, radicali e repubblicani avevano nel frattempo seguito con attenzione, dal 1895, la seconda guerra d’indipendenza cubana, prendendo iniziative a sostegno dei rivoltosi e contro l’oppressione spagnola.
Anche se un po’ defilato rispetto all’argomento qui in esame, non si può inoltre non accennare al ruolo di Giuseppe Fanelli, al cui viaggio in Spagna per incarico di Bakunin, tra il 1868 e l’inizio dell’anno successivo, viene concordemente fatta risalire la diffusione dell’anarchismo nel paese iberico; un episodio destinato ad acquisire nel tempo una dimensione mitica, ad alimentare sentimenti di fraternità nel mondo subalterno dei due paesi e ad essere oggetto di studio anche da parte italiana. Così come non si può tacere, perché rientra nei rapporti reali, storici, l’attentato perpetrato dall’anarchico foggiano Michele Angiolillo, che l’8 agosto 1897 tolse la vita a Cánovas del Castillo.
Contribuì a sostanziare la svolta nella percezione del paese iberico in termini negativi la letteratura di viaggio degli anni Settanta, soprattutto con Edmondo De Amicis. Il discorso meriterebbe uno studio approfondito che ancora manca. Pur senza misconoscerne l’originalità, quel che è certo è la visione deamicisiana della Spagna era debitrice della letteratura romantica d’oltralpe (da Victor Hugo a Théophile Gautier) che nel paese iberico aveva trovato ciò di cui era andata alla ricerca, vale a dire il naturale e il pittoresco, ma anche il misterioso e il religioso, fabbricando stereotipi destinati a essere appena scalfiti nel corso dei successivi decenni.
Oltre a quanto già segnalato, la storiografia italiana ha contribuito alla conoscenza del periodo con gli studi sulla questione marocchina, sulle ripercussioni della crisi modernista in Spagna e, già in un’ottica comparata, con quelli sui brogli nelle elezioni dei due paesi.
1.3 Dall’età giolittiana all’avvento del fascismo (e Spagna dalla crisi del ‘98 al colpo di Stato di Primo de Rivera)
Dal ‘98 all’avvento del fascismo al potere l’attenzione italiana per il paese iberico decresce con le eccezioni che si diranno, nonostante la Spagna conosca avvenimenti epocali quali la guerra ispano-americana e la conseguente perdita delle colonie oltreoceano nel ‘98. Anche l’attenzione degli studiosi italiani sul periodo risulta sensibilmente inferiore. Di fronte al desastre la diplomazia italiana non diede né prova di particolare dinamismo, né colse ciò che essa comportava per il riorientamento europeo del paese iberico, mentre su un diverso piano fu, se mai, la vicenda di Francisco Ferrer con il suo tragico epilogo nel 1909 a rilanciare negli ambienti anticlericali e laici, democratici e socialisti italiani l’idea della Spagna inquisitoriale e negra. Una visione che anche Romolo Murri ripropose nelle sue corrispondenze di viaggio dalla Spagna, dove si era recato in particolare per stabilire contatti con gli ambienti anticlericali.
A differenza di Germania e Francia, la cui influenza filosofica e culturale fu grande nella cultura italiana dell’Ottocento e poi del Novecento, la Spagna (se si escludono il primo Balmés e soprattutto Cortés) non ebbe pensatori che esercitarono una percepibile influenza in Italia, né letterati che trovarono lettori nel nostro paese. Tant’è che alla stregua di una fugace infatuazione per la Spagna e la sua cultura (segnatamente per Unamuno) può essere considerato l’atteggiamento di alcuni intellettuali modernisti prima (Giovanni Boine su tutti) e di quelli delle riviste fiorentine poi. Giovanni Papini s’infervorò per la lettura unamuniana del don Chisciotte, stigmatizzando con la consueta verve la pigrizia dei connazionali nei riguardi della cultura spagnola; Giovanni Amendola, nella fase di maggior contiguità con il modernismo religioso, ebbe una fase molinista e scrisse sul Molinos. Ma per quanto concerne le ricadute sul piano storiografico, fu un fuoco di paglia; sul piano letterario invece non mancarono coloro i quali seppero raccogliere l’invito. La fiammata ispanizzante degli ambienti vociani ebbe invece un’appendice nel successivo reincontro in chiave filoalleata durante la grande guerra.
1. 4 Ventennio fascista (e Spagna dal 1923 al 1945)
Per quanto concerne i rapporti sul piano storico-politico e l’attenzione culturale occorre distinguere nel periodo fascista almeno quattro segmenti cronologici o periodi: gli anni Venti, quelli della Seconda Repubblica, quelli della guerra civile e del secondo conflitto mondiale.
Per quanto concerne il primo segmento, almeno da segnalare sul piano politico è l’effimero entusiasmo in occasione dello scambio di visite tra i reali di Spagna (in Italia e in Vaticano nel novembre del 1923) e quelli d’Italia (in Spagna qualche tempo dopo): con una forzatura più da parte spagnola che italiana sulle affinità tra la dittatura italiana e quella di Primo de Rivera, presentato dal re di Spagna a Vittorio Emanuele III come il Mussolini spagnolo. Vero è che l’Istituto Cristoforo Colombo editò una rivista, “Colombo” (Roma, 1926-1930), che, specie attraverso gli interventi di Luigi Bacci, Arturo Farinelli, Carlo Boselli e altri, si mostrò insolitamente attenta alla letteratura e alla cultura spagnola. E che nel 1925 Bottai incaricò Carlo Boselli di seguire le vicende spagnole per “Critica fascista”. Ma allo stato non esistono studi che consentano di affermare, come invece è stato fatto, che da parte del fascismo vi fosse un’attenzione particolare per le vicende spagnole.
Da segnalare invece due volumi pubblicati nel decennio che si misuravano in diverso modo con gli stereotipi più consolidati. Riproponendoli in larga parte il primo, di Vittorio Di Tocco, intitolato Ideali d’indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnola, che trattando dei fermenti antispagnoli nell’Italia del XVI e XVII secolo finiva per riesumare ed alimentare sentimenti di ostilità contro il paese iberico. Smantellando quello della Spagna pittoresca il secondo, la Penisola pentagonale, che raccoglieva le impressioni di viaggio di un celeberrimo anglista, che dall’Inghilterra dove soggiornava dal 1923 aveva percorso per un mese e mezzo la Spagna nella primavera del 1926. Un viaggio programmaticamente compiuto per demistificare il pittoresco spagnolo, particolarmente di moda nell’Inghilterra di quegli anni. Non a caso nei pressi di Malaga si era trasferito dal 1920 un inglese irrequieto come Gerald Brenan, deluso per non essere riuscito a raggiungere la Cina accompagnato da un amico, un somaro e un carretto e che manteneva contatti con il gruppo di Bloomsbury e con Virginia Wolf in particolare. L’anglista italiano realizzava alla perfezione il programma che si era dato, rovesciando come un guanto il pittoresco nel suo contrario: una “grandiosa e possente monotonia”. Monotoni trovava infatti la pittura, il paesaggio, l’Escorial, i grandi mistici, il Chisciotte, i banchetti e la cucina, la settimana Santa di Siviglia, il bianco e secco vino di manzanilla, la corrida, l’Alhambra… Una monotonia livellatrice, che rompeva con lo stereotipo romantico, anomalistico e dell’arretratezza, quando scriveva che “i migliori alberghi di Spagna […] [erano] perfettamente identici ai migliori alberghi di tutto il mondo” . L’anglista ce l’aveva con gli inglesi, ma qui conta quello che scrisse sulla Spagna.
Il secondo segmento comprende il periodo che va dalla proclamazione della Seconda Repubblica allo scoppio della guerra civile ed è segnato dal timore, da parte del fascismo, che il nuovo regime porti a un avvicinamento tra Spagna e Francia. Dino Grandi, che almeno inizialmente non doveva essere particolarmente perspicace nel decifrare las cosas de España, nel suo Diario scrive il 14 aprile 1931 che “il clero spagnolo ha voluto la caduta del trono dei Borbone”. Ma, a parte la preoccupazione per il rifugio che gli esuli antifascisti possono trovare e trovano in Spagna, gli uomini del fascismo si interessano poco della Repubblica spagnola: una Spagna forte, qualunque sia il suo regime interno, ha probabilità di resistere meglio alle pressioni francesi, annota sempre Grandi il 26 aprile dello stesso anno. E in questa direzione vanno le istruzioni di Mussolini all’ambasciatore Guariglia nel 1932. Se questa è la linea di fondo, prevalente, sappiamo anche, però, che non mancano ambienti e uomini del fascismo (Balbo, in particolare) più sensibili ad una proiezione internazionale del fascismo che aiutano in chiave antirepubblicana le destre eversive spagnole a più riprese: nell’aprile del ‘32, nell’autunno del ‘33 e nuovamente nel marzo del ‘34.
Per quanto concerne i vertici ecclesiastici a Roma, essi percepiscono immediatamente i rischi che corrono una Chiesa e un episcopato legati a filo doppio con l’istituto monarchico, di qui i reiterati inviti alla prudenza che giungono tramite il nunzio ai vescovi spagnoli. Già l’atteggiamento muta di fronte alla politica secolarizzatrice del governo Azaña durante i cosiddetto biennio riformatore. Si tratta di valutazioni basate sulle direttive diplomatiche della Santa Sede. Mancano infatti ricerche sulla dimensione pubblica. L’impressione è comunque che la Chiesa sia almeno inizialmente prudente nei riguardi della Repubblica spagnola e che, sensibile come di consueto ai privilegi dei quali gode, non soffi sul fuoco. Il quadro cambia, e questa volta bruscamente, con la vittoria del Fronte popolare nelle elezioni del febbraio del ‘36 e soprattutto dall’agosto successivo.
Il periodo della guerra civile è di tutta la storia del Novecento spagnolo quello che vanta maggiore letteratura anche da parte italiana, come rivelano i repertori bibliografici di cui disponiamo. Una letteratura che, come è stato osservato, se da una parte ha il pregio della passione e dell’impegno civile, dall’altro presenta il limite di essere fortemente segnata ideologicamente. Inutilmente presuntuoso e quindi sciocco sarebbe in questa sede tentare di districarsi tra oltre mille titoli, ciascuno dei quali contiene almeno un frammento utile per il tema al centro di questo convegno (visione coeva e successiva della Spagna), che spaziano dalla memorialista alla storiografia vera e propria, passando per vari sottogeneri. D’altra parte, anche se il tema dell’intervento italiano nella guerra di Spagna, inteso come partecipazione dei volontari antifascisti alla difesa della Repubblica e delle truppe inviate dal fascismo, non è pertinente in quanto tale con l’argomento qui in esame, non si può fare a meno di ricordare a) che esso segna la maggiore contiguità e coinvolgimento dell’Italia ufficiale e degli italiani con le vicende del paese iberico; b) che tale coinvolgimento non poté prescindere da valutazioni e giudizi sulla traiettoria storica spagnola precedente e da previsioni sugli sviluppi futuri; c) che da quell’esperienza è scaturito un fiume di letteratura memorialistica e testimoniale destinata a gravare e influire sulla successiva percezione e immagine del paese iberico.
Ciò premesso credo che non si possa andare oltre l’enucleazione di alcuni vuoti storiografici e di alcuni nodi ancora irrisolti sui quali riflettere.
Per quanto riguarda i vuoti storiografici, il più evidente risulta essere proprio quello centrale dal punto di vista qui interessa. E cioè la mancanza di studi sulla letteratura coeva e sulla percezione della Spagna degli anni della guerra civile da parte dell’Italia fascista e dell’esilio antifascista. Arrischiando più che un giudizio un’impressione, in attesa di essere smentito o corretto dalla storiografia di verrà, è forse possibile sostenere che la guerra civile spagnola sia percepita dai contemporanei, e l’eventuale esperienza vissuta, come qualcosa dal valore sì simbolico ed epocale, ma più per i destini del mondo che per quelli della Spagna, in definitiva come qualcosa in cui la Spagna costituisce solo lo sfondo e il teatro delle operazioni militari. Di contro non bisogna dimenticare che pur caricata dai significati universali che conosciamo e pur essendosi internazionalizzata fin dall’inizio, la guerra spagnola del ‘36-39 fu e resta, se mi si passa la tautologia, anzitutto spagnola. L’errore di prospettiva ha pesantemente gravato sull’immaginario collettivo e anche sulla storiografia. Si pensi, tanto per fare un esempio, al luogo comune che vede nella guerra civile il primo episodio del secondo conflitto mondiale.
Un secondo nodo prende spunto dall’interpretazione ecclesiastica della guerra civile come crociata, che anche se venne impiegata come tale non fu solo un’arma di propaganda. È evidente che a tale visione era sottesa una certa lettura della storia spagnola remota e più recente che sopravvalutava la dimensione religiosa e misconosceva o taceva le ragioni economiche, sociali ed in particolare il deficit di nazionalizzazione democratica che avevano portato al conflitto. Da questo punto di vista risulta particolarmente significativa la posizione di don Sturzo, che non fu motivata solo da ragioni morali e teologiche (una diversa nozione di “guerra giusta”), ma che proprio perché conosceva come pochi in quel tempo le spinte autonomistiche catalane e basche (aveva collaborato, tra l’altro, al giornale democratico cristiano catalano “El Matì”), non giudicò mai la guerra civile come crociata, militò attivamente per il disimpegno della Chiesa e per una soluzione negoziata del conflitto. Basta confrontare le posizione di De Gasperi e Gonella con quelle di Sturzo per rendersene conto.
Un terzo spunto riguarda l’esistenza o meno di un “progetto spagnolo” da parte del fascismo italiano. Progetto che in quanto tale non poteva prescindere da un giudizio sulla Falange, sulle caratteristiche della sollevazione militare del ‘36, sulle sue finalità, sulla politica estera e la collocazione internazionale della Spagna una volta terminato il confitto. Saltando a piè pari la storia della storiografia al riguardo, mi pare che siano da condividere i giudizi a suo tempo formulati da Coverdale, sostanzialmente ripresi da De Felice, sul fatto che furono soprattutto ragioni di ordine politico-strategico tradizionali a determinare il coinvolgimento del fascismo italiano nel conflitto spagnolo, intervento concepito fondamentalmente per scongiurare un avvicinamento della Repubblica spagnola alla Francia. Anche se, occorre subito aggiungere, occorrerebbe una più approfondita verifica sulla tenuta di quelle motivazioni nei mesi e negli anni successivi, allorquando uomini e ambienti del fascismo (PNF e Milizia) puntarono a una fascistizzazione della Spagna, come risulta, tra l’altro, dagli scritti di Bottai e di altri sulla “Critica fascista” del 1936, dalle posizioni di Starace, dal viaggio compiuto nel ‘37 da Farinacci in Spagna.
Sull’ultimo segmento, gli anni della seconda guerra mondiale, mi limito a segnalare alcune testimonianze coeve che appaiono come il frutto dei rinsaldati rapporti tra i due paesi nel corso della guerra civile e, per quanto riguarda gli anni più recenti le pagine che De Felice ha dedicato al problema della non belligeranza prima e successiva neutralità spagnola. Un tema sul quale, questa volta però dall’ottica spagnola e sulla scorta di un’impressionante mole di fonti diplomatiche, ha recentemente fornito un decisivo contributo il volume di Massimiliano Guderzo
1. 5 Secondo dopoguerra (e franchismo) fino al 1975
Nella coscienza democratica dell’Italia dei primi mesi e anni del secondo dopoguerra il riferimento alla Spagna e segnatamente al suo regime politico, il franchismo, appare come segno di contraddizione di una liberazione dal giogo nazi-fascista sull’Europa che è rimasta incompiuta. A partire da “Il Politecnico” di Vittorini, è la stampa democratica, antifascista, generalmente di sinistra ad agitare il tema della dittatura spagnola, considerata come innaturale sopravvivenza delle dittature fasciste instauratasi tra le due guerre, sia in riferimento all’aiuto offerto da Mussolini alla sua instaurazione, sia riscattando, dal precedente forzato silenzio, l’apporto dei volontari antifascisti alla difesa della Repubblica. Inutile sottolineare il carattere militante di questa letteratura, che anche negli anni successivi non andrà certo per il sottile nel qualificare come fascista la dittatura spagnola. Negli stessi anni alla Spagna si guarda in altri ambienti, come dimostrano le pagine che Riccardi e Giovagnoli hanno dedicato alla percezione del regime spagnolo da parte della destra curiale (il cardinale Ottaviani su tutti) che nella Spagna di Franco continuò a vedere fino al Concilio Vaticano II un’alternativa alla democrazia pluralista e un modello di Stato cattolico. Anche in questo caso manca un esame analitico della percezione che l’opinione pubblica italiana ebbe del franchismo. Ancora da studiare sono le corrispondenze giornalistiche, che contanarono a volte su inviati d’eccezione come Moravia e Montale che dal paese iberico scrissero sul “Corriere della Sera” nel l954. Escludendo episodi editoriali isolati, la situazione non cambia fino alla metà degli anni Sessanta quando la tempestiva traduzione della sintesi di Tuñon de Lara sul XX secolo spagnolo (1966), uno degli storici che più lettori avrà in Italia, il volume di Ludovico Garruccio, cioè Ludovico Incisa di Camerana, Spagna senza miti e l’inchiesta di Frane Barbieri sulle prospettive del dopo Franco, convergono nell’orientare l’attenzione distratta dei lettori italiani verso la situazione spagnola. Agli anni settanta risalgono le prime traduzioni in Italia dei lavori sul franchismo che, com’è noto, non sono di studiosi spagnoli. Mi riferisco ai contributi di Juan J. Linz sull’opposizione antifranchista, che introduce e socializza in Italia la distinzione tra regime totalitario e autoritario; ai lavori di Jaques Georgel e Max Gallo; mentre l’attentato dell’Eta ai danni di Carrero Blanco, l’approssimarsi della morte del Caudillo, le aspettative della sinistra sociale e politica di un cambiamento radicale della situazione spagnola (che, non lo si dimentichi, s’innestano nel clima propiziato dalla rivoluzione dei garofani portoghese) e l’inizio della transizione, si traducono in quell’improvviso aumento d’interesse, testimoniato sul piano editoriale dalla traduzione di In Hidding di Ronal Fraser (1974) e, più avanti, del libro sulle famiglie politiche del franchismo di Amando de Miguel, con l’innecessario libretto di Leoni (1974) e con l’altro, dal taglio giornalistico, di Gian Piero Dell’Acqua; ma anche con una specifica letteratura sulle lotte del movimento operaio spagnolo (Calamai, Ciafaloni,1976); e infine con brevi sintesi più propriamente storiografiche, come quella di Manuel Plana. Solo alcuni anni dopo, nel 1981, uscirà il libro sulle impressioni di un viaggio compiuto nel 1962, per incarico del PCI, di Rossana Rossanda.
In ciò, oltre che nel dibattito internazionale sui fascismi che si sviluppa nell’immediato secondo dopoguerra, che prosegue negli anni cinquanta con la svolta che ad esso imprime la pubblicazione del volume della Arendt e che continua nel successivo decennio dando vita a un’abbondante letteratura che è nota a tutti in questa sede, occorre rinvenire le premesse dell’interesse di alcuni storici italiani per il franchismo. Non solo a titolo di curiosità è da ricordare, prima di entrarvi nel merito, che nella prima nota della prima pagina del terzo volume della biografia di Mussolini, Renzo De Felice, sembra accettare la prospettiva dell’esistenza di “vari regimi fascisti”, sensazione confermata nella pagina successiva quando si riferisce al fascismo come “modello” e ad “altri fascismi”. Alcuni anni dopo, però, nella celebre intervista del 1975, all’osservazione dell’intervistatore, secondo il quale il regime di Franco non è un regime fascista, De Felice commenta: “Indubbiamente oggi non lo è, e occorrerebbe discutere se lo sia stato mai. Più probabilmente è un classico regime autoritario con alcuni innesti moderni, però nulla più di questo”. Sono tre le spiegazioni possibili. La prima è che De Felice non includesse neppure nel 1968 il franchismo nelle varietà di fascismi, di cui comunque ammetteva allora l’esistenza. La seconda è che abbia cambiato posizione dal ‘68 al ‘75 in seguito all’approfondimento dello studio del fascismo italiano e al convincimento della sua unicità e diversità da tutti i regimi precedentemente considerati di natura simile. La terza è che, nello specifico caso del franchismo, il cambiamento di valutazione si sia prodotto in virtù dell’accettazione, da parte di De Felice, delle posizioni di Linz sul regime autoritario, pubblicate non a caso nella rivista defeliciana. Comunque sia, rispetto al regime spagnolo, la posizione di De Felice era un’opinione destinata a durare e ad incidere profondamente. Un’opinione che è rimasta, probabilmente al di là delle intenzioni dello stesso studioso, come la posizione più avversa all’inclusione del franchismo nel novero dei regimi fascisti nel panorama storiografico italiano. Di contro, come si avrà modo di vedere, quasi tutta la storiografia italiana, sia pure con sfumature diverse, considera almeno per un certo periodo come fascista l’esperienza del franchismo.
Al margine del tema fascismo-franchismo, sul quale si è soffermata fin qui l’attenzione, altri aspetti, temi e momenti della Spagna negli anni del franchismo hanno meritato l’attenzione degli storici italiani. In questa sede, però, non è possibile che richiamarli in nota.
1.6. Dopo il 1975: transizione e Spagna democratica
Sarebbe affermazione quant’altro mai arrischiata sostenere che la transizione spagnola sia stata seguita dall’Italia tra il ‘1975 e l’82 con cognizione di causa o anche solo in modo adeguato. Sono infatti pochissimi gli studi tempestivi e le pubblicazioni da segnalare al riguardo. Anche in questo caso l’indiscussa partecipazione e condivisione, a livello di società civile, dei sentimenti di gioia e soddisfazione per la ritrovata libertà e democrazia degli spagnoli, è rimasta orfana sia di strumenti di analisi, sia di sintesi anche solo compilative e descrittive dei complessi problemi che l’immediato dopo Franco ha dovuto affrontare e risolvere. Vero è che anche la storiografia spagnola si è messa in moto al riguardo solo in occasione del ventennale della morte del Caudillo, ma lo è altrettanto che essa ha prodotto dalla metà degli anni Novanta una mole tale di pubblicazioni che avrebbe meritato da noi altra attenzione e accoglienza. Invece, se si escludono le rapsodiche incursioni (e un progetto di ricerca tuttora in corso, in cui, per altro, gli anni della democrazia spagnola entrano solo come contesto dei più recenti processi di nazionalizzazione), è solo di recente, ma non per questo meno meritoriamente, che una rivista di storia politica ha sentito il bisogno di riflettere sulla transizione spagnola nel contesto della cosiddetta “terza ondata”, nell’ottica comparata delle transizioni europee.
Con l’avvento della democrazia in Spagna si danno finalmente anche le condizioni per l’avvio degli studi sul franchismo. Che in Italia, riprendendo quanto si è in precedenza iniziato a considerare e poi interrotto, hanno l’andamento che si delinea di seguito.
1.6.1 La storiografia italiana sul franchismo
Giorgio Rovida nella voce Franchismo redatta nel 1980 per la Storia dell’Europa sottolinea le difficoltà d’interpretazione del franchismo in riferimento alla migliore storiografia spagnola sull’argomento, prendendo le distanze sia dalle interpretazioni onnicomprensive sia da quelle che reputa troppo politologiche (Linz). Rovida non si pronuncia chiaramente sulla questione dei rapporti del franchismo con il fascismo, in compenso sottolinea come fondamentale la questione di distinguere le diverse fasi della dittatura.
Nicola Tranfaglia nel 1982 abbozza un’analisi comparata del fascismo e del franchismo. Il testo appare in un volume del 1984, ripubblicato nel 1989. In esso tratta prima del movimento e poi del regime. Per quanto riguarda la prima fase sottolinea la mancanza in Spagna di un “nazionalismo attivo e aggressivo” (p. 27) e la “sostanziale affinità nella crisi delle due democrazie, anche se indubbiamente differiscono molto i processi che ne seguono (p. 29). Per quanto concerne il regime scrive che c’è come un’evoluzione indolore verso un autoritarismo almeno in parte “classico” e tradizionale nel secondo dopoguerra (p. 30), che Franco non vuole inimicarsi la grande proprietà latifondista con una politica economica industrialista (p. 30), che in Spagna il partito non ha il ruolo che ha in Italia e neppure riesce ad affermare quella politica nuova incentrata sulla ritualità nei rapporti con le masse (p. 31), che la leadership di Franco non mette in discussione il tradizionale assetto della società spagnola (p. 32), mentre a proposito della decisione di non entrare nel secondo conflitto mondiale osserva che essa “si rivelerà estremamente saggia” (p. 32). Quando deve prendere posizione sull’includere o meno il franchismo nel novero dei fascismi, scrive che dipende da ciò che si intende per fascismo, riconoscendo che, in qualunque caso, “pur con le differenze importanti che si sono segnalate”, almeno per il primo decennio occorre inscrivere il franchismo nelle diverse varietà di fascismo esistenti in Europa (p 33). Più avanti collega la nascita di una nuova opposizione, soprattutto giovanile, allo sviluppo economico della fine degli anni Cinquanta (pp. 35-36) e colloca in questi anni la “strana congiunzione tra l’etica del cattolicesimo tradizionale e quella del moderno capitalismo” (p. 36). Conclude con alcune considerazioni sulle modalità attraverso le quali i due paesi tornano alla democrazia.
Enzo Collotti in un convegno bolognese del 1987, ipotizza l’esistenza di “un’area di fascismo cattolico”, concetto che riprende in Fascismo, fascismi, dove svolge considerazioni che se per un verso sottolineano le affinità ideologiche del falangismo con il fascismo nella fase del movimento, per altro verso sottolinea il carattere tardivo della defascistizzazione franchista come conseguenza delle sorti del secondo conflitto mondiale (p. 113), la sua caratterizzazione totalitaria per la volontà di eliminare gli avversari politici (p. 114) e d’integrazione forzata delle minoranze autonomistiche (p. 116) .
Gabriele Ranzato, che solo di sfuggita si era in precedenza occupato del franchismo, nel suo intervento al già segnalato convegno bolognese del 1987 sostiene che il franchismo ha base di massa e pone la questione del consenso. Un consenso che fa derivare dalla guerra civile e dalle violenze anticlericali in essa perpetrate.
Riprendendo l’interpretazione di Collotti, Luciano Casali scrive nel 1990 di un “fascismo di tipo spagnolo” sottolineando gli aspetti imperialisti e ideologici del franchismo. Nell’introdurre una successiva raccolta di documenti prodotti dal fascismo, dal nazionalsocialismo e dal franchismo, prende le distanze dalle interpretazioni che più hanno insistito sul carattere “personale” della dittatura spagnola, mettendo in evidenza il ruolo di Serrano Súñer nella costruzione politica del regime Evidenzia poi che nell’atteggiamento politico rispetto alle diverse forze che sostennero la dittatura, Franco svolse lo stesso ruolo di Mussolini e Hitler. Ricorda la graduale apparizione nel dibattito spagnolo del tema del consenso, aggiungendo alcune considerazioni sui settori sociali che furono alla base del regime e sul ruolo della propaganda. Esamina infine alcuni aspetti ideologici del franchismo concludendo con alcuni cenni alla modernizzazione economica degli anni cinquanta.
Uno sguardo ad alcuni volumi di sintesi, smuove un po’ le acque, ma non modifica sostanzialmente il quadro. Di un “regime conservatore-clericale” scrive Franco Gaeta concludendo le pagine che dedica alla guerra civile spagnola nella sua sintesi sull’Europa tra le due guerre, dove si legge che più che una fascistizzazione si produsse una clericalizzazione del regime. Nell’edizione del 1992 della Storia dell’Europa dal 1945 a oggi di Giuseppe Mammarella, il franchismo sparisce completamente e la Spagna riappare con la transizione. La più recente Storia dell’Europa di Galasso dedica alla questione poche righe per sottolineare che fino a quando il fascismo fu forte (cioè fino al 1942-43) esso influì sul franchismo, anche se in quest’ultimo il partito non ebbe il rilevante ruolo che ebbe in Italia.
Tralasciando altri interventi, più settoriali e specifici, o più generali, tra i quali quelli di chi vi parla, sembra di poter dire che da parte della storiografia italiana prevale la sottolineatura delle affinità tra i due regimi, almeno fino al 1945 e in alcuni casi alla fine del decennio. Il problema resta tuttavia aperto, anche perché gli studi sul regime spagnolo, pur con i notevoli avanzamenti degli ultimi anni, per ovvie ragioni, non hanno ancora raggiunto l’articolazione e il grado di approfondimenti degli studi sul fascismo italiano.
Solo come spunti per ulteriori riflessioni si deve considerare che i punti d’appoggio sui quali si sono basate tutte, o quasi, le operazioni storiografiche di sottrazione del franchismo dal novero dei fascismi, appaiono oggi meno solidi rispetto a ieri, nel senso che sono stati rivisti dalla storiografia. Li elenco: 1) l’accentuato ritardo economico-sociale della Spagna rispetto all’Italia; 2) la mancanza in Spagna di un moderno nazionalismo; 3) la visione del cattolicesimo spagnolo come ideologia religiosa tutta e profondamente antimoderna, da cui la connotazione del falangismo spagnolo prima e del regime franchista poi in senso tutto tradizionale; 4) una visione del fascismo italiano come fenomeno tutto moderno e secolarizzato 5) una visione dicotomica delle società moderne e delle società tradizionali, basato su paradigmi sociologici in voga fino agli anni sessanta.
2. Il “caso spagnolo” nel dibattito italiano più recente
Tornando al tema della transizione, ritardo analogo a quello denunciato nei riguardi nel fenomeno nel suo complesso si registra nei riguardi di altri aspetti specifici della stessa (come il dibattito costituzionale) e nei confronti della realtà spagnola più recente, quali il periodo dell’amministrazione socialista e le cause della sua eclissi, l’ascesa di Aznar e il persistente fenomeno del terrorismo Eta. Né deve trarre in inganno il progressivamente più frequente – parlo degli ultimi anni e mesi – disinvolto riferimento nel nostro dibattito politico al “modello spagnolo”, tirato in ballo, a seconda dei casi e delle parti, sia per alludere all’organizzazione territoriale dello Stato spagnolo e al funzionamento dello Stato delle autonomie, sia alle ricette neoliberiste attuate dal premier Aznar dopo il 1996, alle quali viene attribuito un non si sa bene quale “miracolo spagnolo”. Oppure tirato in ballo per trarne ammaestramenti di altra natura, come nel caso di un recente saggio di Incisa di Camerana, che passando attraverso incauti accostamenti con la storia italiana e la riproposizione della tesi (non nuova, non sua e, per altro, condivisibile) secondo la quale la modernizzazione spagnola avrebbe preso avvio durante l’ultimo franchismo e quindi al riparo di un regime autoritario, giunge ad indicare quale segreto del modello spagnolo, descritto come “stabilità della leadership, l’avvicendamento delle generazioni nella gestione governativa interna, il rispetto della meritocrazia, una notevole omogeneità tra la classe politica e la classe economica e una solida base di consenso nazionale nella politica estera”, e del miracolo economico, la mancanza di una discriminante antifranchista nella vita politica, mentre, a suo dire, quella antifascista agiva da zavorra nel contesto italiano.
A ben guardare, però, se si getta lo sguardo sull’ultimo decennio alla ricerca dei momenti in cui il tema spagnolo è affiorato nei media ed entrato nel dibattito culturale e vagamente storiografico italiano, ci si accorge che sono altri (direi ben altri) i temi di cui si è discusso.
Tra il ‘95 e il ‘96 si discute, per esempio, del film di Ken Loach, Terra e libertà, che ripropone il tema dei nessi tra guerra e rivoluzione nella Spagna del ‘36-’39 e della brutale repressione di anarchici e trozkisti da parte del comunismo stalinista sovietico e spagnolo. Suscitano poi scalpore e fanno discutere alcune non ben meditate affermazioni di Oscar Luigi Scalfaro in occasione di una visita di Stato compiuta a Madrid il 27 giugno 1996, circa il ruolo di Franco nella neutralità spagnola durante il secondo conflitto mondiale. Nel 1998 un gran polverone provoca poi
il libretto curato da Sergio Romano, sia per alcune sconsiderate affermazioni di Edgardo Sogno, sia per i giudizi che vi esprime lo stesso curatore. Dovendoci occupare in questa sede delle idee che passano nell’opinione pubblica e dei condizionamenti a cui è sottoposta, non sarà inutile richiamare alcune valutazioni e giudizi contenuti in quel testo. Sogno attribuiva a Franco “il capolavoro storico” di aver restaurato il regime democratico avviando la transizione, da cui l’insussistenza di motivi per negare “il debito postumo verso di lui non solo della monarchia, ma della libertà politica e della pacificazione sociale”. Romano, da parte sua, scriveva che nel ‘36-39 c’erano state in Spagna due diverse guerre (contro il fascismo prima, e contro il comunismo poi) senza spiegare le ragioni del trapasso; ingenerava ambiguamente il sospetto che fu in seguito all’intervento sovietico che la guerra s’impennò sul piano della violenza, quando è risaputo che alcuni dei massacri più brutali (quelli anticlericali e la matanza di Badajoz) si ebbero nell’estate del 1936, ben prima dell’intervento sovietico; descriveva la guerra spagnola come prolungamento delle purghe staliniane, “il luogo in cui il comunismo sovietico continuava la sistematica liquidazione dei suoi nemici tradizionali: gli anarchici e i socialdemocratici”, confondendo la politica del socialfascismo e quella dei fronti popolari inaugurata con la svolta del VII Congresso dell’Internazionale comunista; affermava che se la Repubblica avesse vinto sarebbe stata la prima democrazia popolare d’Europa, dimenticando che fu la sollevazione militare a portare Stalin nella penisola iberica e anticipando di un decennio soluzioni che solo l’aggressione hitleriana all’URSS e la seconda guerra mondiale resero possibili nell’Est europeo; si chiedeva infine se il regime instaurato da Franco fosse stato un regime fascista, in termini tali da risultare inutili. Se infatti voleva dire che la sinistra (non i comunisti) per ragioni politiche aveva ecceduto nell’appioppare l’etichetta di fascista al regime spagnolo, portava vasi a Samo. Se voleva dire che non era questo l’orientamento almeno fino al 42-43, non teneva conto di dati incontrovertibili. Come prova adduceva poi la “lungimiranza” di Franco nel non entrare in guerra a fianco dell’Asse. Un giudizio che non teneva conto 1) che l’esercito spagnolo non era in condizione di entrare in conflitto; 2) che Franco in alcune occasioni tentò di scendere in campo, ma che la sua offerta venne respinta perché considerata troppo esosa dai tedeschi in materia di compensi; 3) che Franco fu dapprima “non belligerante” e solo in un secondo momento “neutrale” e che offrì aiuti preziosi all’Asse durante il conflitto; 4) che la neutralità come scelta fu uno dei risultati della riscrittura franchista della storia e uno dei cavalli di battaglia della propaganda del regime. Se invece voleva dare un giudizio etico e dire che il franchismo era stato meglio del fascismo, sbagliava nuovamente, perché almeno fino al 1945 il franchismo fu più crudele, violento e coercitivo del regime mussoliniano.
Per spiegare almeno alcuni dei motivi dell’impatto mediatico di quel libretto, basterà ricordare che essa s’inseriva intenzionalmente nella noisa querelle giornalistica sul revisionismo, sfruttando un clima culturale e politico. Si volevano mettere sullo stesso piano i partigiani e i combattenti della Repubblica di Salò? Allora perché non anche i volontari in difesa della Repubblica spagnola e quelli che combatterono con Franco? Commentatori benevoli quanto inesperti hanno attribuito al libretto di Romano il merito di aver messo in discussione i miti costruiti dalla sinistra sulla guerra civile spagnola. È vero che su quest’ultima aleggiano da decenni, anche in Italia, ricostruzioni ideologiche evocative e militanti. Ma accanto al mito comunista, che fa della guerra civile solo una battaglia democratica antifascista, dimenticando le repressioni a sinistra e la progressiva egemonia stalinista, ve ne sono altri. Anzitutto quello anarchico e trotzkista (che proprio con il film di Ken Loach ha conosciuto un recente revival) del sogno rivoluzionario infranto, brutalmente affossato dai comunisti, che dimentica le reali e geograficamente differenziate condizioni della Spagna e la ragionevole priorità che andava assegnata alla guerra rispetto alle esigenze di trasformazione sociale. Poi quello della guerra civile come crociata in difesa del cattolicesimo e della civiltà occidentale che, costruito da gran parte della Chiesa spagnola nel corso degli eventi, dimentica i cattolici che stavano con la Repubblica e che la Chiesa avrebbe dovuto restare al di sopra delle parti. C’è poi un’altra visione mitica: quella della sollevazione militare come mossa preventiva contro un complotto comunista e, di conseguenza, della guerra civile come difesa dal comunismo che, costruita dai generali ribelli, venne utilizzata da Franco e rilanciata nel clima della guerra fredda. Romano non ha demitizzato alcunché, ha adottato quest’ultima. Lungi dall’offrire prospettive innovative ha riportato la discussione indietro nel tempo. In primo luogo perché neppure l’anticomunismo degli anni cinquanta (si pensi a Pacciardi, Saragat, e allo stesso Koestler) ebbe bisogno di stravolgere la verità dei fatti spagnoli. In secondo luogo perché per prendere le distanze dalle facili definizione di fascista appioppate al regime franchista, Romano compie l’errore speculare vedendo indifferenziati comunisti e loro alleati dappertutto: tra i protagonisti della storia e gli studiosi. Risulta curioso che proprio quando la storiografia ha accettato la necessità di ricostruire l’esperienza fascista dall’interno e di non confondere la visione dell’antifascismo con quella storiografica, Romano riproponga la visione anticomunista militante del comunismo e della storia di questo secolo.
Com’è dato vedere si tratta, nella maggior parte dei casi in discussione nell’ultimo decennio, di argomenti di facile consumo giornalistico, a fondamento dei quali non stanno né fatti nuovi né ricerche innovative, confezionati con la logica dello scoop per assecondare gli appetiti delle fasce più credulone o culturalmente indifese dell’opinione pubblica, strumentalmente utilizzati per finalità politico-ideologiche che poco hanno a che vedere con una corretta conoscenza e valutazione dei processi storici spagnoli, passati e più recenti.
Dunque: la conoscenza della storia del paese iberico resta da noi approssimativa. Uno studio di qualche anno fa condotto su alcuni dei principali manuali scolastici italiani del secondo dopoguerra, scelti tra quelli di maggiore diffusione nella scuola media superiore, ha rivelato non solo una prevedibile scarsa attenzione alla storia contemporanea spagnola (a fronte di altri paesi europei), ma anche la presenza di imprecisioni, deformazioni e di errori fattuali.
Per quanto riguarda invece i manuali e i lavori di sintesi l’editoria si muove con grandi cautele e parsimonia e non sempre operando le giuste scelte. La dice lunga il fatto che sia ancora la storia di R. Carr, la cui edizione italiana risale al 1978, la migliore opera di sintesi a disposizione del lettore italiano. Segnali incoraggianti, vengono di contro, dalla riviste storiografiche italiane, nelle quali la presenza di collaborazione di studiosi spagnoli su temi ispanici è sensibilmente aumentata negli ultimi anni. Così come occorre positivamente registrare il moltiplicarsi degli incontri che sulla storia dei due paesi, spesso in una prospettiva comparatistica più conclamata che conseguentemente praticata, si sono celebrati negli ultimi quindici anni e le pubblicazioni che ne sono scaturite.
3. Osservazioni conclusive
Vorrei in conclusione segnalare alcuni dei punti sui quali esiste maggiore divario tra quella che potremmo chiamare (anche se mi rendo conto dei rischi insiti nella generalizzazione) la visione od opinione diffusa e risultati che possono considerarsi acquisiti dalla ricerca storiografica, spagnola e italiana:
1) sottovalutazione costante del ruolo dei nazionalismi chiamati periferici, un fattore dal quale non si può prescindere se non si vuol fraintendere la storia del Novecento spagnolo, dalla dittatura di Primo de Rivera alla Spagna di Aznar, e che pure non occupa il posto dovuto non dico nelle cronache e analisi giornalistiche, ma nelle ricostruzioni storiografiche manualistiche e spesso non solo;
2) scarsa propensione a periodizzare il franchismo e a sottolineare nel modo dovuto ciò che il 1945 rappresenta anche per il regime spagnolo;
3) tendenza, da una parte, a individuare negli aspetti repressivi del franchismo la prova evidente della caratterizzazione fascista, quando non totalitaria del regime, come se fosse questo l’unico o il principale metro di giudizio; dall’altra a proiettare sull’intero franchismo le caratteristiche degli ultimi anni del regime, giudicandolo paternalista, bonario e autoritario, e sottovalutando il grado di repressione sul piano interno dello stesso, che negli anni tra le due guerre fu invece, nell’Europa occidentale e cristiana, senza termine di paragone;
4) una visione ancora troppo idilliaca della transizione, cioè poco consapevole dei condizionamenti in cui essa avvenne e dei prezzi che il solido approdo alla democrazia dovette pagare ai poteri forti (ai militari anzitutto), una consapevolezza senza della quale poco si capisce delle successive rivendicazioni del nazionalismo basco; della nazionalizzazione degli spagnoli in democrazia; della scollatura esistente tra memoria collettiva e memoria pubblica nei riguardi della guerra civile e del franchismo;
5) da ultimo, anche se riguarda solo una parte dell’opinione pubblica italiana, il persistente retaggio di una visione tutto sommato benevola del nazionalismo basco radicale, per la lotta da esso condotta contro il franchismo, che dimentica l’abisso che separa (e che anche eticamente deve separare) le modalità della lotta politica in un regime illiberale e antidemocratico da quelle in un sistema politico democratico e pluralista. Il generale imbarazzo degli ultimi giorni di fronte alla nuova legge spagnola sui partiti politici, alle iniziative politiche per mettere fuori legge Batasuna e a quelle giudiziarie che ne hanno nel frattempo sospeso l’attività, ne è la conferma più evidente.