Cerca

Laura Brazzo

Scuola di Dottorato, Università di Pavia
Il sionismo in Italia nei primi tre decenni del Novecento: una “fedeltà”?

Nel periodo post-emancipatorio l’ebraismo italiano – e in generale quello europeo – aveva avuto nella dimostrazione di fedeltà alla Patria, al Re, alla Nazione, uno dei suoi caratteri più forti – basta leggere qualche numero del Vessillo Israelitico, o i discorsi di certi rabbini, per rendersene conto. Col tempo però, è noto, ciò aveva portato al progressivo degrado del senso d’identità e alla perdita di una vera coscienza di sé come ebrei. Rispetto a questa tendenza, degenerativa, dell’ebraismo italiano del periodo liberale, che poneva la fedeltà alla Patria sopra tutto – “sentiamo di essere più che Israeliti, anzitutto Italiani” – il sionismo emergeva in Italia, a fine Ottocento, con una proposta di rigenerazione morale e nazionale ebraica che oltre a creare scompensi al rapporto ebrei/società liberale, metteva in crisi l’unità del mondo ebraico. L’idea sionista di recupero dell’“ebraicità”, l’affermazione aperta ed orgogliosa dell’identità, del proprio essere ebrei, il suo concetto di “patria ebraica”…tutti questi elementi, cardini della proposta sionista, si ponevano difatti in contrasto con le inclinazioni assimilazioniste delle Comunità – nazionale ed ebraica.

Stando così le cose, è possibile considerare l’adesione al sionismo delle generazioni più giovani come una scelta di “fedeltà” altra rispetto alla comunità ebraica? E rispetto all’italianità? Il riaffiorare nei sionisti di una coscienza nazionale ebraica non comportava forse l’in-fedeltà all’idea, propria dell’età e della società liberale, dell’ “essere più che israeliti, anzitutto italiani”?

L’interrogativo che vorrei sottoporre alla vostra attenzione è dunque questo: il sionismo, inteso come forma di “rigenerazione” ebraica e come movimento per la costruzione in Palestina di una Heimstatte ebraica, costituì, o potè costituire, per gli ebrei italiani dei primi decenni del Novecento una forma di fedeltà altra da quella ai gruppi di appartenenza – quello ebraico e quello nazionale? O rimase invece solo una “fedeltà” ulteriore? Credo sarebbe interessante seguire il percorso e i cambiamenti subiti nella percezione del sionismo presso quegli ebrei che vi aderirono e, dai singoli casi presi ad esempio, tentare di elaborare una risposta alla domanda di partenza.

Per esempio si potrebbe partire dalla nascita della Federazione Sionistica Italiana, dai suoi tentativi di trasformazione dall’interno, in senso sionistico, delle comunità ebraiche italiane, e dal suo contemporaneo considerare però come indiscutibile e prioritaria la fedeltà alla Patria; quindi, analizzare il caso del sionista veneziano Angelo Sullam che, durante la prima guerra mondiale, consulente del Ministero degli Esteri per la Palestina, riuscì ad unire in modo originale, osmoticamente, la sua “fedeltà” all’idea di patria ebraica in Palestina, con quella all’ “italianità” e all’ebraismo italiano, per arrivare a vedere se e come, tra gli anni Venti e Trenta, riconosciuto internazionalmente il diritto del popolo ebraico ad una National Home in Palestina (Conferenza di Sanremo), alcuni ebrei italiani – penso ad Alfonso Pacifici, ad Enzo Sereni, a Leo Levi, o anche, per certi versi, a David Prato – e talvolta anche qualche piccolo gruppo – la Minoranza sionista pura, il “Comune ebraico” di Firenze, il movimento chalutzistico – fecero dell’adesione al sionismo una forma di “fedeltà” esclusiva.

In coda, si potrebbe accennare anche ad alcune delle osservazioni di Guri Schwarz sul sionismo degli ebrei italiani nel periodo postfascista e sul loro rapporto con lo stato di Israele.