di Tommaso Detti
Nel campo delle scienze umane e sociali i finanziamenti per la ricerca sono sempre provenuti, oltre che dal Consiglio nazionale delle ricerche, essenzialmente dal Ministero della pubblica istruzione e – dal 1989 – dal Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica (Murst)[1]. Il Dpr n. 382 del 1980 disponeva che i fondi ministeriali fossero suddivisi in due parti: il 60% veniva attribuito ai singoli Atenei, il 40% era riservato a progetti «di interesse nazionale e di rilevante interesse per lo sviluppo della scienza». Dal 1994, con l’introduzione dell’autonomia finanziaria dell’Università, il 60% è stato quindi soppresso e i fondi ad esso destinati sono stati inglobati nei contributi ordinari di funzionamento trasferiti dallo Stato alle Università. Da allora i singoli Atenei hanno deciso in piena libertà quanta parte delle proprie risorse destinare alla ricerca e come distribuirle. Il 40% è stato invece erogato con gli stessi metodi fino a quando il decreto n. 320 del 1997 li ha radicalmente modificati.
Una prima versione di questo contributo, relativa al periodo 1988-94, risale al 1995, quando già il 60% era stato abolito ma le procedure per la distribuzione del 40% erano ancora immutate[2]. Le pagine che seguono ne riproducono con poche modifiche la sostanza, ma sono state aggiornate al 1996: possono perciò essere considerate come una sorta di bilancio consuntivo dei meccanismi di finanziamento esistenti fino all’entrata in vigore del sistema attuale. Vi ho inoltre aggiunto una postilla sui finanziamenti del triennio 1997-99.
In assenza di una sistematica anagrafe nazionale della ricerca, del 60% è molto difficile dire alcunché. In ogni Università questi fondi venivano infatti distribuiti su proposta del Senato accademico, che si avvaleva dei pareri di apposite commissioni elettive, ma i criteri di ripartizione non erano omogenei. In alcuni casi le commissioni erano di Facoltà, più spesso corrispondevano ad aree disciplinari variabili da sede a sede, ma in molti casi ricalcate su quelle adottate per il 40%. Diversi erano anche i parametri per la suddivisione dei fondi tra Facoltà o aree e le norme per il finanziamento dei singoli progetti. In un panorama così variegato, discernere qualche linea di tendenza per un settore circoscritto e di solito incluso in aree molto più vaste, come la storia contemporanea, è di fatto impossibile. Ciò vale sia per l’entità e l’uso dei fondi, sia per i temi, le metodologie e i risultati delle ricerche, che senza un’indagine molto laboriosa sfuggono a ogni verifica.
Alla vigilia della soppressione del 60% le opinioni che circolavano tra gli studiosi su questo sistema di finanziamento apparivano invece abbastanza uniformi da autorizzare, sia pure con beneficio d’inventario, alcune considerazioni di carattere generale. Nella maggior parte dei casi l’immagine che ne scaturiva era quella classica di un finanziamento «a pioggia» e di modesta entità, che già aveva caratterizzato i contributi concessi dal Ministero della pubblica istruzione, fino al 1980, «secondo criteri imperscrutabili»[3]. Si direbbe quindi che l’avvento di una gestione decentrata in base a criteri diversi da sede a sede, ma certi, non avesse modificato in misura apprezzabile i risultati rispetto alla fase precedente.
Se – come penso – questa ipotesi non è infondata, vale la pena di chiedersi come ciò sia accaduto. Tra i molti fattori che possono avervi contribuito c’è da rilevare almeno il fatto che assai spesso i fondi 60% supplivano a gravi carenze nelle dotazioni dei Dipartimenti e degli Istituti per quanto riguardava le spese di funzionamento, per la didattica e soprattutto per l’acquisto di libri e riviste. Di tale situazione ha evidentemente risentito il meccanismo affermatosi in gran parte delle Università italiane, che è stato non soltanto poco selettivo, ma in qualche modo «garantista», nel senso che si è teso ad assicurare a tutti l’accesso a questi fondi. In quanto finanziamento minimo e di base, in altre parole, il 60% è stato spesso considerato come un diritto di tutti coloro per i quali fare ricerca è (o dovrebbe essere) un dovere, a prescindere dallo spessore e dalla realizzabilità dei singoli progetti. Credo peraltro che queste osservazioni valgano per tutte le aree disciplinari, indipendentemente dai loro statuti scientifici e dalla loro possibilità di accedere ad altri fondi. Per la storia, e in quest’ambito per la storia contemporanea, ha invece senso domandarsi se tali indirizzi possano essere stati avvalorati dal fatto che si tratta di un campo nel quale si può fare ricerca a costo contenuto, al limite addirittura a costo zero.
L’interrogativo è di grande rilievo perché riguarda i caratteri di fondo e gli orientamenti metodologici della ricerca sull’età contemporanea, ma per dargli una risposta puntuale occorrerebbe disporre di informazioni alle quali per il 60% non è facile attingere. Su questo punto, e più in generale su alcune tendenze della storiografia, utili indicazioni possono comunque venire da un’analisi delle ricerche 40%, che fino al 1996 sono state finanziate direttamente dal Ministero su proposta dei Comitati consultivi del Consiglio universitario nazionale (Cun). Sono infatti questi progetti – per definizione quelli di maggiore impegno, condotti da équipes interuniversitarie con i fondi più cospicui – che meglio possono dare la misura degli indirizzi della ricerca. Le considerazioni che seguono si riferiscono alle proposte di finanziamento relative alle ricerche di storia contemporanea avanzate al Cun dal Comitato consultivo n. 11 (Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche) nel periodo 1988-96, durante il quale ne ho fatto parte assieme a Franco Della Peruta[4].
In questi nove anni sono stati presentati 150 progetti, 108 dei quali finanziati con una cifra complessiva di 5.283 milioni, per una media di 48,9 milioni a ricerca. Tuttavia, trattandosi di progetti pluriennali, 15 di essi erano già avviati nel 1988 e 24 risultavano ancora in corso nel 1996. Per le 57 ricerche iniziate e concluse in tale periodo (di cui una quinquennale, 12 quadriennali, 34 triennali e 10 biennali) il finanziamento medio sale a 71,5 milioni[5]. Scomponendo i dati anno per anno, questi 150 progetti si articolano in 295 domande annuali, il cui andamento è sintetizzato nella Tab. 1:
Tab. 1 – Finanziamenti 40% 1988-96[6]
Anni | Fondi1 | Progetti | Unità operative | |||||
C. a. | N. indice | Tot. | Finanz. | Media1 | Tot. | Finanz. | Media1 | |
1988 | 578 | 100,0 | 44 | 30 | 19,3 | 141 | 89 | 6,5 |
1989 | 550 | 95,2 | 39 | 25 | 22,0 | 140 | 78 | 7,1 |
1990 | 670 | 115,9 | 40 | 29 | 23,1 | 148 | 98 | 6,8 |
1991 | 690 | 119,4 | 33 | 26 | 26,5 | 133 | 86 | 8,0 |
1992 | 700 | 121,1 | 29 | 26 | 26,9 | 100 | 85 | 8,2 |
1993 | 600 | 103,8 | 27 | 27 | 22,2 | 100 | 98 | 6,1 |
1994 | 567 | 98,1 | 27 | 27 | 21,0 | 99 | 94 | 6,0 |
1995 | 459 | 79,4 | 29 | 22 | 20,9 | 111 | 86 | 5,3 |
1996 | 469 | 81,1 | 27 | 26 | 18,0 | 98 | 95 | 4,9 |
Totale | 5.283 | 295 | 238 | 22,2 | 1.070 | 809 | 6,5 |
1 Milioni di lire correnti.
La disponibilità complessiva dei fondi, pur essendo il prodotto di una ripartizione interna al comitato, riflette come si vede sia il maggiore impegno per la ricerca di base che ha fatto seguito all’istituzione del Murst, sia la contrazione degli ultimi quattro anni. Anche gli importi medi dei finanziamenti proposti, com’è naturale, sono variati di conseguenza. La diminuzione delle domande va invece posta in relazione con gli indirizzi del comitato, che ha sollecitato gli studiosi a presentare progetti meno numerosi e più consistenti. Quanto alle unità operative, va infine tenuto presente che fino al 1994, tra quelle rimaste prive di fondi, ve ne sono anche alcune appartenenti a ricerche finanziate. Per chiarire questo punto e per illustrare le caratteristiche delle ricerche 40% è necessario spiegare brevemente i criteri di ripartizione dei fondi.
Il Ministero e il Cun avevano di fatto definito «di interesse nazionale e di rilevante interesse per lo sviluppo della scienza» i progetti di «utilità generale» proposti da consistenti gruppi di studiosi appartenenti a più sedi universitarie, dotati di un effettivo coordinamento tra le varie sedi e per i quali – relativamente alle ricerche non «sperimentali» – fosse ritenuto congruo un contributo annuo non inferiore a 25 milioni[7]. Per evitare un’eccessiva frammentazione i Comitati consultivi erano stati inoltre invitati a non finanziare gruppi con meno di 8-10 partecipanti e ad attribuire a ciascuna unità operativa almeno 8 milioni ogni anno.
Senza considerare il criterio dell’«utilità» (inapplicabile oltre che discutibilissimo), in realtà queste indicazioni non sono state rispettate. Sono state escluse le unità composte da una sola persona, si è evitato di finanziare gli studiosi per più di una ricerca nello stesso tempo e naturalmente è stata operata una selezione di merito, ma i minimi sono stati ridotti, di norma, a 15 milioni per progetto e 5 per unità operativa[8]. Pur non producendo un vero e proprio finanziamento «a pioggia» e comportando anzi nei primi anni un numero relativamente alto di esclusioni[9], ciò ha senza dubbio abbassato il «profilo» delle ricerche 40% di storia contemporanea se non altro per quanto riguarda i requisiti formali individuati per definirle, ossia la consistenza delle équipes e dei fondi necessari per svolgerle. Occorre quindi spiegare perché le soglie fissate dal Ministero e dal Cun siano state diminuite.
Il fatto è che per attenervisi sarebbe stato necessario attribuire più fondi a un numero minore di ricerche, ma così facendo la linea di demarcazione fra quelle finanziate e quelle escluse sarebbe venuta a cadere praticamente nel mezzo di un consistente blocco di progetti, non così distanti l’uno dall’altro da giustificare una drastica selezione: un po’ come in una gara ciclistica, il «gruppo» procedeva insomma abbastanza compatto alle spalle di un esiguo drappello di corridori «in fuga». In altri termini le ricerche di rilievo «medio» erano troppe e quelle di maggiore spicco troppo poche perché quei criteri potessero essere applicati. Da questo dato è possibile trarre alcune considerazioni non prive di interesse sia sui meccanismi e sui criteri di finanziamento allora in vigore, sia su alcune caratteristiche delle ricerche 40% di storia contemporanea.
Analizzando le cifre della ripartizione effettuata dai Comitati consultivi del Cun dal 1986 al 1990, gli autori di una indagine del Ministero del tesoro hanno espresso l’avviso che questa sia stata pesantemente condizionata «dal numero dei partecipanti, ovvero dalla logica del “un tanto a testa”»[10]. Sebbene si sia tentato di incentivare le ricerche di maggiore impegno (per una delle più significative, quella coordinata da Giuseppe Alberigo dell’Università di Bologna su Preparazione, svolgimento e contesto del Concilio Vaticano II, è stato ad esempio proposto un contributo di 157 milioni in 4 anni), è doveroso riconoscere che il nostro settore non ha fatto eccezione alla regola. Poteva essere altrimenti? A mio parere no, e ciò essenzialmente per tre ragioni.
In primo luogo perché sono stati gli stessi criteri fissati dal Ministero e dal Cun, anteponendo il requisito quantitativo del numero delle sedi e dei partecipanti all’esame di merito dei Comitati consultivi, ad elevare di fatto a norma la logica del «un tanto a testa». Non so se in altri ambiti disciplinari, nei quali il lavoro di èquipe è cosa abituale e la ricerca ha costi molto elevati, una prassi del genere potesse avere almeno il senso di garantire a tutti l’accesso agli strumenti della ricerca; certo è che per settori come la storia contemporanea ciò non aveva alcuna seria giustificazione. Non si vede infatti perché le indagini a più alto costo (come ad esempio quelle che esigono lunghi soggiorni di studio all’estero o si fondano sulla rilevazione elettronica di archivi di grandi dimensioni) dovrebbero necessariamente essere appannaggio esclusivo di consistenti gruppi di ricercatori dislocati in diverse sedi universitarie. Al contrario, un contributo di 50 milioni può essere considerato più o meno cospicuo se attribuito a una o due unità di ricerca, ma si disperde fatalmente in una «pioggia» tanto più sottile, quanto più è alto il numero delle sedi.
Ai membri dei comitati, in secondo luogo, non è mai stato trasmesso alcun resoconto scientifico e finanziario delle ricerche in corso[11]. Privati così di ogni possibilità di verificare il lavoro svolto dalle diverse équipes e valutarne i risultati, essi non hanno potuto valersi di uno strumento di giudizio essenziale e insostituibile anche ai fini della ripartizione dei fondi. Così stando le cose, chi può dire se e quanto il flusso dei finanziamenti abbia effettivamente rispecchiato la reale «geografia» della ricerca? Su 41 Università da cui sono state inviate domande nel 1988-94, le più attive risultavano nell’ordine Bologna, Torino, Roma «La Sapienza» e Pisa, Firenze e la Statale di Milano, Siena, Trieste, Bari, Catania, Napoli «Federico II» e Genova, alle quali faceva capo il 62,6% delle unità operative[12]. Che a questi stessi Atenei appartenesse il 67,5% delle unità finanziate e andasse il 72,3% dei fondi non è dunque sorprendente, ma come questi denari siano stati spesi – e con quali risultati scientifici – non è dato sapere.
In terzo luogo, peraltro, a tenere bassi i livelli minimi dei contributi 40% e ad elevare il numero delle ricerche finanziate hanno cooperato gli studiosi stessi. Argomentando le loro domande, infatti, questi si sono per lo più limitati a illustrare l’interesse dei temi proposti, facendo riferimento allo «stato della questione» e sottolineando il rilievo degli obiettivi che intendevano conseguire. Solo raramente hanno invece specificato perché e dove – per conseguire tali obiettivi – una certa quantità di fondi dovesse essere spesa in missioni, a quale scopo occorresse acquisire questa o quella attrezzatura ecc. Nella maggior parte dei casi, insomma, è mancata proprio quella puntuale documentazione del fabbisogno in rapporto con le caratteristiche delle fonti, degli strumenti e delle metodologie della ricerca, in assenza della quale una motivata ripartizione delle risorse risulta molto problematica. Anziché come indagini unitarie, molti progetti si sono infine configurati come «contenitori» di autonomi filoni di studio coltivati dai proponenti, quasi che questi ultimi si fossero aggregati non tanto per esigenze di ricerca, quanto essenzialmente per poter accedere ai fondi 40%.
Che tutto ciò non sia passato senza conseguenze sulla distribuzione dei finanziamenti è del tutto ovvio: fermo restando che il rilievo tematico e il taglio di ogni ricerca dovevano essere comunque valutati, attribuire i fondi in base a una gerarchia di rilevanza fondata soltanto su tali elementi sarebbe stato comunque molto opinabile ed è stato così che, mancandone altri, il criterio «per testa» ha riguadagnato terreno. Giudicare in modo totalmente negativo queste diffuse caratteristiche dei progetti 40% di storia contemporanea sarebbe tuttavia riduttivo. Esse costituivano in realtà una forma di adattamento a meccanismi di ripartizione delle risorse che da un lato non tenevano conto delle gravi carenze delle dotazioni ordinarie nelle Università italiane, dall’altro non corrispondevano alle peculiarità della ricerca storica. In questo senso ne segnalavano l’incongruenza e ponevano problemi che fino al 1996 non sono mai stati affrontati.
Il fatto è che nella maggior parte dei casi i bilanci dei Dipartimenti universitari e gli stessi fondi 60% non erano assolutamente sufficienti a coprire quelle esigenze minime di funzionamento, senza garantire le quali un corretto impiego dei contributi 40% avrebbe prodotto effetti distorti e paradossali: come se si fossero elargiti generi voluttuari a una famiglia costretta a vivere al limite della sussistenza. Come stupirsi, allora, se gli studiosi si costituivano in gruppi interuniversitari non tanto perché lo esigessero i loro progetti di ricerca, quanto per attingere a risorse alle quali altrimenti non avrebbero avuto accesso, e se ne servivano per surrogare le dotazioni ordinarie? Sono certo che, se disponessimo di rendiconti analitici, potremmo facilmente constatare che una quota molto rilevante dei fondi 40% è stata spesa in libri e riviste. Forse potremmo trovare qualcosa da eccepire su una parte delle spese per missioni, ma non so quanto sarebbe sensato osservare che gli innumerevoli personal computer acquistati con questi denari non erano specificamente necessari per le ricerche che hanno permesso di comprarli.
In base a queste considerazioni qualche anno fa mi è accaduto di sostenere che per la storia contemporanea i fondi 40% erano addirittura troppi e che la questione più urgente e grave era costituita piuttosto da una insopportabile carenza di risorse ordinarie[13]. In modo meno provocatorio questa affermazione potrebbe essere riformulata dicendo che quantificare il reale fabbisogno dei primi sarebbe stato possibile soltanto ove le seconde fossero state garantite in misura più adeguata, ma i termini del problema non cambierebbero. Negli studi storici è infatti largamente prevalente una ricerca a basso costo, condotta da singoli individui o da piccoli gruppi, che non può essere considerata tout court come un segno di arretratezza e di ritardo se non sul metro di parametri mutuati da altre discipline e palesemente non pertinenti. Non per questo incentivare il lavoro di équipe concentrando una quota significativa dei fondi su progetti e obiettivi di ricerca altrimenti non perseguibili cessa di essere indispensabile, ma per una migliore allocazione delle risorse occorre tener conto che quella individuale è una dimensione costitutiva e ineliminabile della ricerca storica.
Nel nostro campo, inoltre, la relazione tra il rilievo di una ricerca, il numero di coloro che vi partecipano e i suoi costi non riveste alcun carattere di necessità. Se l’avesse, le opere più importanti dovrebbero essere scaturite quasi per definizione dai progetti finanziati sul 40%, ma ovviamente così non è stato. La questione è assai delicata, ma per chiarirne i termini evitando di formulare giudizi inevitabilmente soggettivi è forse possibile riferirsi ad alcune delle opere selezionate nel 1992-93 per il premio della Società italiana per lo studio della storia contemporanea. Tale selezione esprimeva infatti gli orientamenti di una parte non trascurabile dei cultori della disciplina[14]. Ebbene, per non limitarsi che a pochi esempi, la relazione esiste per L’officina della guerra di Antonio Gibelli e per Una guerra civile di Claudio Pavone (titolare il primo di una ricerca sulla scrittura popolare, il secondo di un progetto sulla guerra civile nell’età contemporanea), ma non è invece riscontrabile per libri come la Storia dell’Italia repubblicana di Silvio Lanaro, La repubblica dei partiti di Pietro Scoppola o la Storia delle origini del fascismo di Roberto Vivarelli.
Con ciò è evidente che a dover essere posto in discussione era il fondamento stesso di una suddivisione dei fondi, come quella tra 60% e 40%, basata sulla distinzione delle ricerche in due fasce: una per così dire «normale» e l’altra «di interesse nazionale e di rilevante interesse per lo sviluppo della scienza». Quanto meno per la storia (ma a mio parere non soltanto per essa) si trattava infatti di una distinzione arbitraria e improponibile, non meno di qualsiasi altra gerarchia precostituita a partire da criteri che poco hanno a vedere con la qualità e l’originalità della ricerca. C’è bisogno di fare osservare che un’opera fondamentale per lo sviluppo della conoscenza e del dibattito storiografico può essere prodotta con pochi mezzi dal lavoro solitario di un singolo studioso non meno che da un nutrito gruppo di ricercatori con il supporto di costose attrezzature, o che una ricerca può essere «di interesse nazionale» a prescindere dalla sua dimensione di scala?
Il primo e fondamentale requisito che un progetto dovrebbe possedere per avere accesso a finanziamenti di maggiore entità non andrebbe insomma determinato prevalentemente in base al numero dei suoi proponenti o a quello delle loro sedi universitarie, e neppure alla sua teorica rilevanza scientifica, ma anzitutto in base a suoi costi. L’originalità di una ricerca, il suo rilievo conoscitivo e metodologico e la stessa quantità di risorse umane e materiali necessarie per realizzarla dovrebbero essere in ogni caso attentamente valutati, ma soltanto in un secondo momento e sotto il profilo della congruità dell’impegno in funzione dei risultati attesi. In altre parole questi progetti debbono certo avere un rilievo adeguato ai loro costi, ma non possono essere considerati più importanti degli altri per il solo fatto di costare di più. Ciò detto, occorre essere consapevoli che se agli studiosi non vengono assicurate risorse di base tali da renderne effettivo il diritto-dovere di fare ricerca, con ogni probabilità qualsiasi revisione dei criteri di ripartizione dei fondi è destinata a lasciare il tempo che trova.
Traendo qualche spunto di riflessione dalla mia lunga esperienza di membro di un Comitato consultivo del Cun, ho privilegiato i problemi connessi ai meccanismi di finanziamento e non mi sono invece soffermato sulle indicazioni che le ricerche 40% di storia contemporanea potrebbero fornire sugli indirizzi e sulle tendenze degli studi. Ciò non è stato casuale. L’ampia diffusione di quelli che ho chiamato «progetti contenitore» e l’assenza di rendiconti scientifici e finanziari mi avrebbero infatti imposto un livello di approssimazione del tutto insoddisfacente, tanto più che i fascicoli delle domande giacevano ormai negli archivi del Ministero. In tali condizioni avrei potuto dire poco più di quanto fosse possibile evincere dai titoli di queste ricerche, in gran parte già pubblicati assieme ai nominativi dei loro coordinatori nazionali e locali e all’ammontare dei fondi ricevuti[15]. Certo non sarebbe stato difficile notare che vi prevalevano temi di storia italiana, o che gli studi sul «secolo breve» erano meno numerosi di quelli di più lungo periodo, ma questi aspetti non riguardavano le sole ricerche 40%, né avevano attinenza con la quantità e con le modalità dei loro finanziamenti.
Vale piuttosto la pena di svolgere alcune ulteriori considerazioni sui finanziamenti del 1997-99, che come ho anticipato sono stati erogati in base alle disposizioni del decreto n. 320 del 1997. Valutarne i risultati non è agevole perché il nuovo meccanismo è in vigore soltanto da tre anni e non dispongo dei dati relativi alle domande. Inoltre l’ammontare delle risorse destinate a un sottosettore disciplinare come la storia contemporanea non è più prederminato, sicché i fondi ad esso assegnati variano non soltanto in relazione alle politiche di spesa del Murst, ma anche per effetto delle valutazioni comparative che ogni anno vengono effettuate di tutte le ricerche dell’area delle Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche. A differenza delle osservazioni sul periodo 1988-96, che oltre tutto si basano su una diretta esperienza personale, queste non sono dunque che prime, provvisorie approssimazioni.
Il decreto n. 320 ha affidato la selezione dei progetti di tutte le aree disciplinari a una sola Commissione di cinque membri, scelti dal Ministro entro liste indicate dal Consiglio nazionale della scienza e della tecnica, dalla Conferenza dei Rettori delle Università italiane e dal Cun. Per ogni ricerca tale commissione si avvale dei pareri di due revisori anonimi, il cui giudizio riguarda «la qualità del programma in esame, le competenze specifiche dei proponenti e la congruità dei costi». I programmi devono essere svolti da più unità di ricerca «raggruppanti ciascuna un numero adeguato di ricercatori» e di norma afferenti a più Università, ma sono ammessi anche progetti «intrauniversitari», cioè proposti da unità di un solo Ateneo. Le ricerche non vengono più finanziate per intero, ma cofinanziate in una misura pari al 40% del «costo totale ammissibile» per i programmi intrauniversitari e al 60% per quelli interuniversitari. L’entità del contributo del Murst è cioè tanto maggiore, quanto più sono cospicui i fondi già a disposizione dei proponenti. Per ogni programma il Ministro nomina infine uno o più valutatori, che ne verificano in itinere l’andamento, oltre che i risultati finali.
Il principio del cofinanziamento, il ricorso a revisori anonimi e la verifica dei risultati delle ricerche costituiscono innovazioni di grande rilievo e i loro effetti concreti sono stati molto corposi. La media annua dei fondi erogati dal Murst è passata dai 587 milioni della fase precedente a 1.138, con un aumento del 93,9%, ma in realtà l’inversione di rotta degli ultimi tre anni è stata ancora più netta, tenuto conto che dal 1992 al 1996 c’era stata una diminuzione del 33%[16]. Al tempo stesso, per giunta, il numero dei progetti finanziati è stato drasticamente ridotto. Sotto questo profilo un confronto diretto fra la Tab. 1 e la Tab. 2, nella quale ho elaborato i dati attualmente disponibili per il 1997-99, risulterebbe tuttavia fuorviante perché fino al 1996 le domande venivano ripresentate ogni anno, mentre da allora sia i progetti, sia gli stanziamenti sono di norma biennali.
Tab. 2 – Cofinanziamenti 1997-99[17]
Anni | Progetti | Cofin.1 | Fin.tot.1 | C/P1 | Ft/P1 | Un. ric. | C/Ur1 | Ft/Ur1 |
1997 | 7 | 1.032 | 1.797,6 | 147,4 | 256,8 | 40 | 25,8 | 44,9 |
1998 | 6 | 944 | 1.427,0 | 157,3 | 237,8 | 25 | 37,8 | 57,1 |
1999 | 6 | 1.438 | 239,7 | |||||
Totale | 19 | 3.414 | 3.224,62 | 179,7 | 248,02 | 652 | 30,42 | 49,62 |
1 Milioni di lire correnti
2 Totali e medie 1997-98
Riportati tutti i dati su base annua, il numero delle ricerche finanziate risulta diminuito del 52,1% mentre i fondi percepiti da ognuna di esse hanno avuto un incremento del 304,7%; il numero delle unità di ricerca è sua volta calato del 63,8% laddove il loro finanziamento medio è cresciuto del 302,2% (ma in questo caso i dati sono probabilmente sottostimati perché si riferiscono al solo biennio 1997-98). Se l’obiettivo del legislatore era quello di porre fine alla prassi dei finanziamenti «a pioggia» e concentrare le risorse su pochi progetti, dunque, esso è stato sicuramente centrato. Questi dati si riferiscono inoltre ai soli cofinanziamenti del Murst; se ad essi aggiungiamo i fondi stanziati dai proponenti, anche in assenza dei dati del 1999 è possibile stimare che i 19 progetti biennali dell’ultimo triennio abbiano potuto disporre di 5.500 milioni, pari in media a non meno di 290 milioni per ciascuno.
Si tratta di cifre assai rilevanti e altrettanto significativi debbono essere considerati i risultati della politica di finanziamento adottata nel 1997. Per quanto riguarda la storia contemporanea (e, ancora una volta, molte altre aree disciplinari ad essa affini), rimangono tuttavia aperti gli interrogativi sui quali ho richiamato l’attenzione a proposito della fase precedente. Per poter salutare senza riserve come una svolta positiva questa alta concentrazione dei contributi del Murst su pochi progetti, infatti, occorrerebbe da un lato che si fosse rimediato alla carenza di risorse di base che da sempre affligge gli studiosi, dall’altro che le ricerche ancor oggi definite «di rilevante interesse nazionale» presentassero caratteristiche tali da giustificare appieno il loro costo.
Sul primo punto non è azzardato ipotizzare che il principio del cofinanziamento, facendo dipendere l’entità dei contributi ministeriali da quella delle risorse già possedute dai richiedenti, abbia sollecitato gran parte delle Università a incrementare i capitoli dei loro bilanci destinati alla ricerca. Se così fosse, tale principio avrebbe indubbiamente innescato una sorta di circolo virtuoso. Al tempo stesso, però, esso potrebbe aver determinato anche a livello locale una spinta alla concentrazione dei fondi, che soltanto ove fossero garantite risorse «ordinarie» più adeguate potrebbe essere valutata positivamente. L’Università in cui presto servizio, ad esempio, ha accompagnato un forte aumento dei fondi per la ricerca con una riforma dei propri meccanismi di ripartizione che distingue tra progetti e «servizi alla ricerca»: i primi sono sottoposti a una procedura selettiva e ottengono finanziamenti più consistenti in quanto i secondi assicurano a tutti un plafond di risorse di base[18]. Nel campo delle scienze umane e sociali, dove la possibilità di accedere a finanziamenti che non siano quelli delle Università e del Ministero è di norma molto ridotta, soltanto a condizioni del genere la fine dei finanziamenti «a pioggia» sarebbe stata infine seguita da bel tempo e alte pressioni; diversamente pioverebbe ancora, ma solo sul bagnato. Quale di queste due conclusioni sia più pertinente, peraltro, potrebbe dirlo soltanto una sistematica indagine sulle politiche per la ricerca adottate dai singoli Atenei in regime di autonomia.
Quanto ai progetti cofinanziati, stando alla documentazione contenuta nelle pagine Web del Ministero per il biennio 1997-98 non si direbbe che la tendenza a confezionare quelli che ho definito come programmi «contenitore» sia del tutto venuta meno. Nella maggior parte dei casi, inoltre, non se ne traggono elementi sufficienti per capire con quanta precisione siano definite nelle domande le voci di spesa e di conseguenza per apprezzare la congruità dei finanziamenti rispetto agli obiettivi scientifici delle singole ricerche. Una più compiuta valutazione delle procedure di finanziamento introdotte nel 1997 sarà insomma possibile soltanto se e quando saranno resi pubblici i risultati dei progetti cofinanziati e le relazioni dei «valutatori» nominati dal Ministero. Frattanto non resta che prendere provvisoriamente atto di una innovazione di non lieve peso: anche nel campo delle scienze umane è divenuto finalmente possibile progettare e realizzare impegnative ricerche di équipe.
[1] Per le ricerche finanziate dal Cnr cfr. il contributo di Daniela Luigia Caglioti in questo stesso volume.
[2] La si veda in Sissco – Società italiana per lo studio della storia contemporanea, «Bollettino», 1996, n. 16, pp. 38-46 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-16-luglio-1996-1141/#ricerche).
[3] A. Caracciolo, Per un’analisi del finanziamento della ricerca storica in Italia, in La storiografia italiana recente. Alcune indagini sulle sue strutture e tendenze, a cura di F. Anania, Ancona 1986, p. 21.
[4] I comitati eletti per il triennio 1988-90 sono rimasti in carica fino all’entrata in vigore del nuovo meccanismo perché non sono mai state indette nuove consultazioni.
[5] Altre 17 ricerche risultano finanziate una sola volta in parte perché non ripresentate o non pervenute in tempo utile, in parte su proposta del comitato. Queste cifre hanno valore indicativo perché sono tratte da schede personali e – salvo che per il 1996 (cfr. http://cofin.cineca.it/murst-dae/finanziati96/fin_11.htm) – non tengono conto delle modifiche talora apportate dal Murst in sede di ripartizione. Dato che le ricerche di ambito modernistico-contemporaneistico sono state distribuite fra i due rispettivi «sottocomitati», non ho considerato i finanziamenti proposti dal sottocomitato di storia moderna. Altre ricerche, inoltre, sono state sicuramente finanziate dal Comitato n. 13 (Scienze economiche e statistiche) e dal Comitato n. 14 (Scienze politiche e sociali), al quale la storia contemporanea ha fatto capo fino al 1984: cfr. A. Caracciolo, I finanziamenti ministeriali «40%», in La storiografia italiana recente, cit., p. 80.
[6] La voce «Unità operative» si riferisce alle sedi universitarie dei partecipanti. Nel 1995-96 il Comitato non ha ripartito il finanziamento fra le U.o., attribuendo l’intero importo ai coordinatori nazionali. Per questi anni si considerano perciò finanziate tutte le U.o. Ho omesso gli importi richiesti sia perché non di rado incongrui o poco documentati, sia perché nel complesso esorbitanti rispetto alle disponibilità: nel 1988 e nel 1994 il fabbisogno dichiarato superava ad esempio i 4 miliardi. A titolo indicativo si tenga presente che, tra le discipline afferenti al Comitato n. 11, antropologia, geografia, pedagogia, psicologia, storia medievale e storia moderna erano rappresentate da un commissario; filosofia e storia contemporanea ne avevano invece due, in ragione del maggior numero dei loro cultori. Si trattava tuttavia di una ripartizione approssimativa, che non è stata mai aggiornata. Anche per questo, nella suddivisione dei fondi al suo interno, il Comitato ha effettuato alcuni aggiustamenti, attribuendo due quote alla filosofia e una quota e mezzo alla storia contemporanea. Tale ripartizione era del resto preliminare al lavoro istruttorio dei vari sottocomitati, tenuto conto del quale sono state infine effettuate ulteriori assegnazioni attingendo a fondi appositamente accantonati. Ciò ha fatto sì che la quota attribuita a ciascuna area disciplinare subisse ogni anno alcune oscillazioni.
[7] Cfr. circolare n. 801 del Ministero della pubblica istruzione, 7 ottobre 1986.
[8] In maggior dettaglio cfr. F. Della Peruta, T. Detti, I finanziamenti «40%» alle ricerche di storia contemporanea: un primo bilancio (1988-1989), in Sissco – Società italiana per lo studio della storia contemporanea, «Bollettino», 1991, n. 2 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-2-ottobre-1990-1127/#finanziamenti).
[9] Delle 57 ricerche iniziate e concluse nel 1988-96, 5 hanno ricevuto meno di 40 milioni, 13 tra 40 e 60, 23 tra 60 e 80, 7 tra 80 e 100, 5 tra 100 e 120 e 4 più di 120. La distribuzione rispecchia peraltro anche la diversa durata dei progetti. A far diminuire nel tempo il numero delle ricerche non finanziate ha contribuito anche la delegittimazione dei membri del comitato, crescente con il prolungarsi della loro prorogatio.
[10] P. Silvestri, G. Catalano, Il governo delle risorse nel sistema universitario italiano, Ricerca n. 4 del Ministero del tesoro, Commissione tecnica per la spesa pubblica, ottobre 1992, p. 146.
[11] I rendiconti del 1989-91 sono stati trasmessi al Murst tra il settembre 1993 e il settembre 1994. Anche l’informatizzazione dei moduli (indispensabile per un uso tempestivo di questi materiali) è stata iniziata nel 1993, ma soltanto per ciò che riguarda le domande, e sulle prime l’uso del floppy disk è rimasto facoltativo. Né la successiva entrata a regime di questo sistema, né la possibilità di trasmettere i dati mediante la rete elettronica hanno peraltro accelerato, nell’immediato, l’iter della ripartizione.
[12] Dato che in questi anni i fondi non venivano accreditati ai coordinatori di ciascun progetto, ma distribuiti fra le diverse équipes, per analizzarne la destinazione ho suddiviso l’insieme delle unità operative per sedi universitarie.
[13] Cfr. T. Detti, L. Modica, A. Ruberti, Università e ricerca scientifica: una autonomia senza risorse?, «Passato e presente», 1995, n. 35, pp. 25-26 (discussione a cura di P. Pezzino e S. Soldani).
[14] Cfr. il «Bollettino» della Sissco, 1992, n. 6 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-6-febbraio-1992-1131/#5.premio-sissco) e 1993, n. 10 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-10-giugno-1993-1135/#8.premio).
[15] Si vedano gli elenchi del 1988-94 nel «Bollettino» della Sissco, 1991-95, nn. 2 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-2-ottobre-1990-1127/#finanziamenti), 6 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-6-febbraio-1992-1131/#6.finanziamenti-CUN), 9 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-9-marzo-1993-1134/#Progetti%20di%20ricerca%2040%%20per%20il%201992) e 14 (https://www.sissco.it/articoli/bollettino-sissco-n-14-giugno-1995-1139/#5.RICERCA).
[16] Il fenomeno era parte di una generalizzata contrazione dei finanziamenti alla ricerca, che risulterebbe tanto più consistente se misurata in termini reali. Oltre a P. Silvestri, G. Catalano, Il governo delle risorse…, cit., per alcuni dati sintetici cfr. Cnr, Istituto di studi sulla ricerca e documentazione scientifica, Scienza e tecnologia in cifre, Spoleto 1993. Pesanti contraccolpi sulla ricerca ebbe inoltre in quegli anni la svalutazione della lira, che calò come una scure sulle già scarse dotazioni per l’acquisto di materiali bibliografici, rendendo addirittura insostenibili i costi di quelli stranieri.
[17] Queste cifre sono tratte da http://cofin.cineca.it/murst-dae/finanziati97/aree/fin11.htm; http://cofin.cineca.it/murst-dae/finanziati98/certificati/fin_11.htm; http://cofin.cineca.it/murst-dae/finanziati99/aree/fin_11.htm. Per il 1998 i dati sui fondi già a disposizione dei richiedenti non sono definitivi; per il 1999 tali dati e il numero delle unità di ricerca non compaiono sul Web del Murst (gennaio 2000).
[18] Cfr. http://www.unisi.it/ammin/rni/par.html.