di Luca Curti
La questione è di scottante attualità, come usa dire; ma la sua storia comincia molto tempo fa, nel Sessantotto. Più precisamente verso la fine del 1969, con la legge 910, detta anche “Codignola 1” dal nome del suo primo firmatario. è la legge che estendeva a tutti i titolari di diploma secondario quinquennale (maturità classica, diploma di ragioniere, diploma di istituto tecnico, ecc.; non diploma magistrale, allora quadriennale) la possibilità di accedere a qualunque corso universitario, da Medicina a Lettere a Ingegneria; e che contemporaneamente consentiva agli studenti di proporre alle facoltà piani di studio “liberalizzati”, come furono a lungo chiamati, ossia indipendenti da indicazioni vincolanti a livello nazionale.
Quella legge aveva molte significazioni: proclamava comprensione per l’insofferenza violenta del movimento studentesco per costrizioni sentite ormai come obsolete; rendeva le facoltà responsabili del livello culturale dei laureati che avrebbero da allora in poi prodotto; disinnescava un confronto diretto tra il governo e il movimento d’opinione progressista che simpatizzava largamente con gli studenti; e polverizzava en passant l’ultimo pilastro rimasto in piedi della costruzione gentiliana, sopravvissuta molto a lungo non solo al suo ideatore ma anche al regime che l’aveva contemporaneamente varata e sotterraneamente contrastata fin dal momento della sua approvazione.
Non si tratta, ovviamente, di rimpiangere la riforma Gentile né di deplorare gli eccessi del Sessantotto: perché non serve e perché non è giusto. Se però non si riflette su questa vicenda si rischia di non capire le ragioni delle parti che oggi contendono sulla nostra questione.
Perché quella legge 910 e la liberalizzazione degli accessi universitari nonché dei piani di studio, a prescindere dalle intenzioni di chi la propose e di chi la sostenne, ebbe effetti diciamo così molto selettivi. Per esempio fu, in pratica, totalmente inoperante in certe facoltà (per esempio Medicina e Ingegneria) e fu invece di operatività totale e incontrastata, almeno per lunghi anni, nelle facoltà di Lettere e filosofia. Qualcuno, assai poco generosamente, attribuisce questo fatto e le sue conseguenze all’incapacità delle facoltà in questione di contrastare le spinte demagogiche e il consequenziale crollo della qualità degli studi; ma le cose non stanno su un piano così astrattamente morale, con la colpa commessa e la giusta e conseguente punizione nonché il divieto di lagnarsene (perché, come dice l’anonimo sapiente, chi è causa del suo mal… eccetera).(1)
Basta una breve riflessione per vedere invece che il tipo di studi, nelle facoltà che abbiamo preso ad esempio, è profondamente differenziato sia nell’acquisizione delle competenze, sia nella verifica della preparazione degli allievi, sia infine nelle modalità di accesso alla relativa professione. Per farla assai breve, e se esaminiamo come solo campione il caso della facoltà di Medicina, vi vedremo agire in potente alleanza due fattori contrari alla liberalizzazione dei piani di studio: il buon senso, che anche allora gridava contro la prospettiva di vedere in circolazione un professionista della sanità che anziché l’esame di Patologia generale o di Clinica medica avesse invece sostenuto quello di Terapia delle acque minerali; nonché, e direi soprattutto, l’esistenza di un Ordine dei Medici l’accesso al quale, necessario per esercitare la professione, era sbarrato da un esame di stato. E una volta resa inoperante la liberalizzazione dei piani di studio anche quella degli accessi, senza bisogno di ulteriori interventi, risultava discretamente frenata: restava infatti vero che quasi chiunque poteva iscriversi a Medicina, ma era anche vero che per diventare medico questo chiunque aveva di fronte un corso di studi lungo, costoso, difficoltoso come era sempre stato in precedenza. E su quest’ultimo fronte, come tutti sanno, non bastò neppure questa dissuasione “naturale”, e le facoltà di Medicina furono le prime, una volta rifluita l’onda di piena dell’ugualitarismo democratico, a ricorrere a sbarramenti nell’accesso (col cosiddetto “numero programmato”) tra polemiche, contrasti e ricorsi tuttora e sempre pendenti o incombenti presso tutti i Tar raggiungibili.
Facoltà come quella di Lettere e filosofia, per ragioni che a questo punto spero sia inutile riprendere minutamente, furono invece investite e spazzate in lungo e in largo da quell’onda di piena. Stentarono a riprendere lucidità e coscienza, commisero molti errori (e altri intendono commetterne, se non ci saranno interventi mirati ed energici). Ma non serve a nulla portare in tribunale le facoltà di Lettere o altre facoltà che abbiano problemi analoghi o assimilabili, come quelle di Scienze della formazione, eredi delle facoltà di Magistero. La sola cosa che abbia senso è cercare di esaminare gli aspetti negativi della situazione e mettere in atto i correttivi che si ritengono adeguati: non dimenticando la storia delle cose, se non altro per evitare di commettere gli stessi errori.
E prima di procedere, avverto che soprattutto alle facoltà di Lettere e filosofia è legato il discorso che svilupperò in queste note: sia perché si tratta della situazione che conosco meglio (insegno letteratura italiana all’Università di Pisa), sia perché da queste facoltà è uscito, per lunga e logica tradizione, poco meno che il totale degli insegnanti secondari di materie letterarie operanti nelle nostre scuole. Ancora oggi, nella ripartizione per indirizzo degli allievi delle Ssis, quelli che afferiscono all’indirizzo linguistico-letterario sono di gran lunga i più numerosi e la loro formazione costituisce quindi, sul piano delle prospettive politico-culturali, il problema più rilevante almeno sul piano statistico.
“Rem tene”: la formazione degli insegnanti fino a ieri
Un esame di stato per esercitare sul territorio la professione di filosofo, come ognuno immagina, non è mai esistito. E nemmeno un Ordine o Albo dei filosofi (o dei matematici). Questa considerazione, forse superflua, basta da sola a differenziare i problemi delle facoltà di Lettere (e di formazioni disciplinari per molti versi affini) da quelli di altri ambiti disciplinari. E se si pensa che proprio in quelle facoltà e nella cultura umanistica in genere trovava la sua forza maggiore quella spinta che aveva tra l’altro abbattuto i resti della scuola gentiliana si capiranno meglio le difficoltà in cui sono finite e in cui ora si trovano. Ma, ai fini di una riflessione sulla storia della formazione degli insegnanti, non basta ancora. Nella memoria di quella generazione che “ha fatto il Sessantotto”, e dunque si è formata in una scuola dalla struttura gentiliana, non si trova (e non c’è infatti mai stato) neppure il problema della formazione né di quello connesso della selezione degli insegnanti.
Ciò non è dovuto al caso. L’impianto gentiliano nasceva da una concezione della cultura rigidamente gerarchica, elitaria, custodita dal principio fondante della selezione. “Tagliare i rami secchi” era la parola d’ordine alla quale si conformavano ancora gli insegnanti che operavano nelle nostre scuole almeno fino alla metà degli anni sessanta. I rami secchi erano gli studenti che non ce la facevano a stare al passo. L’ideologia gentiliana puntava esplicitamente a tenere le masse lontane dalla cultura superiore, cioè dall’università, riservata per sua natura a pochissimi: un progetto aristocratico che non poteva essere pacificamente accolto nel programma di una forza politica come il fascismo, il cui fondatore era stato un dirigente socialista e che mantenne in tutto il corso della sua storia una fortissima componente populistica.
Anche annacquata e boicottata, comunque, la scuola gentiliana selezionava con una severità sconosciuta alle epoche precedenti come a quelle successive. E il risultato pratico, come è naturale, era assai positivo per chi superava la selezione: si trovava in un territorio di élite, molto scarsamente popolato e nel quale, soprattutto se era transitato attraverso il liceo classico, tutte le opzioni erano aperte davanti a lui. Soprattutto quella dell’insegnamento: era assolutamente normale, fino ai primi anni sessanta, trovare spazio (precario, certo) nell’insegnamento prima ancora di essersi laureati. Anche questo era conseguenza diretta di un pensiero di Giovanni Gentile, semplice ed eloquente come molti dei suoi: bravo insegnante è quello che conosce bene la materia che deve insegnare. Rem tene, verba sequentur. Gli studenti che concludevano il percorso degli studi erano sopravvissuti alla selezione; dunque sapevano; dunque insegnavano (e un concorso conclusivo sanciva, per conto dello Stato, l’approvazione definitiva).(2) Così d’altronde è fatta ogni selezione seria: essa presenta aspetti negativi unicamente per chi viene fatto fuori. Per gli altri, solo vantaggi.
Chi non ricorda questa situazione stenta a capire non tanto quello che avvenne, ma la forza del tutto irresistibile di quello che avvenne; e che aveva un’origine certamente molto composita nella quale comunque figurava la sensazione netta che non fosse più accettabile che la classe dirigente di un paese moderno fosse formata secondo quei criteri.
Da qui (scorro rapidamente e schematizzo) l’ipotesi dell’università di massa, che in teoria voleva dire alta cultura di massa (un ossimoro, secondo Gentile: ma fin qui era solo una conferma) e opportunità di lavoro altamente qualificato per tutti (e questo era un sogno, benché generoso, del quale non mi pento ma dal quale credo di dovermi svegliare). La prova dei fatti, d’altronde, benché non immediata, è stata parecchio ruvida.
Dopo la liberalizzazione degli accessi, infatti, nei corsi di studio universitari non “protetti” si instaurò un terribile circolo vizioso: tutti studiavano (cioè chiunque lo desiderava si iscriveva alla facoltà di suo gusto); troppi volevano (ossia, visto che si era all’università, giustamente si chiedeva che venissero riconosciuti i propri diritti tra i quali almeno quello di arrivare alla laurea e di sfruttarne il valore legalmente riconosciuto); nessuno o troppo pochi, come presto si constatò, ottenevano (visto che non si potevano aumentare a numero aperto le possibilità di impiego). Diminuirono spontaneamente gli standard richiesti per procedere negli studi (che cosa mai si poteva pretendere dagli studenti, usciti da scuole che non li preparavano agli studi che essi eroicamente intraprendevano e per giunta condannati alla disoccupazione?); e poiché gli insegnanti secondari andavano comunque reclutati tra quei laureati, si abbassava anche il livello della preparazione secondaria che, oltretutto, non selezionava più nessuno: tanto, tutti studiavano ecc.
Molte delle illusioni che avevano sostenuto tutto ciò sono state travolte dai rivolgimenti epocali che la storia ha conosciuto in questi ultimi decenni. Sono però felicemente rimasti i cocci doloranti dei progetti decaduti. Un solo dato, che dovrebbe diradare le ultime nebbie: nel 1999, dopo un decennio di silenzio, è stato bandito un mega-concorso ordinario a posti di ruolo nelle scuole. Posti disponibili, settantamila; aspiranti dotati di titolo valido per concorrere, più di un milione. Nove “formati” su dieci resteranno quindi in ogni caso fuori dell’impiego al quale il titolo di studio acquisito (spesso la laurea) dà loro il diritto di ambire. A me pare la pesantissima pietra tombale di un progetto la cui realizzazione ha innaturalmente preceduto studio dell’applicabilità, messa a punto e previsione delle ricadute.
La situazione attuale: non-formazione e disinformazione
Il pensiero di Giovanni Gentile, nella sua applicazione all’educazione, è stato di fatto dichiarato obsoleto su due punti:
– non è vero che il problema della scuola pubblica è quello di tenere gli inetti fuori dalla cultura di vertice (il problema è invece quello di formare una classe dirigente colta che si presenti con l’ampiezza e lo spessore necessari ai bisogni di una società democratica complessa);
– non è vero che formare un insegnante vuol dire solo insegnargli i fondamenti della sua disciplina (è vero invece che la preparazione professionale ha un fondamento psico-pedagogico che non è possibile ignorare né dare per scontato).
Su questi due punti c’è accordo generale tra gli operatori del settore; non bisogna però attribuire a Gentile anche l’idea che la preparazione disciplinare è per gli insegnanti un optional. è vero semmai il contrario, come ognuno sa (cioè per Gentile era assolutamente trascurabile, per un insegnante della secondaria, la preparazione psico-pedagogica); ma davvero non è questo il punto. Il punto (ed è un punto quanto mai dolente) è che la cultura sclerotizzata, obsoleta e funzionale al potere che il Sessantotto volle abbattere per spianare la strada al “vero sapere critico di massa” non è stata in realtà sostituita da nulla (e da che cosa mai doveva essere sostituita? mormora il tristo senno di poi). Al suo posto si è lentamente ma sicuramente installata la semplice ignoranza: la guerra al nozionismo ha colpito nella direzione sbagliata e ha distrutto le nozioni.
I professori progressisti delle facoltà di Lettere, tra i quali mi colloco, sono arrivati tardi e malvolentieri a riconoscere questo stato di fatto (molti non ci sono ancora arrivati).(3) Ma una volta fatta l’ipotesi che le cose stiano così le conferme, come accade, fioccano. Sui giornali in questi mesi sono comparse lettere indignate che segnalano l’ignoranza in geografia delle nostre scolaresche; un brillante studente pisano (!) di ingegneria, già allievo di un liceo scientifico, alla richiesta da parte di amici su che cosa ne pensasse della questione di una lapide che si voleva dedicare a Giovanni Gentile, risponde: “Giovanni Gentile?”. Un allievo di un liceo classico milanese, maturato pochi anni or sono, guarda sbalordito e silenzioso il povero umanista che gli dice: «Vedi laggiù? è la Gorgona, con la Capraia… “muovansi la Capraia e la Gorgona”…. “Ahi Pisa vituperio della genti / del bel paese là dove il sì suona”…Il conte Ugolino… Ti dice nulla?». Nulla, apparentemente.
Il che non significa che i giovani attuali siano degli alieni o dei devianti. Sono semplicemente ignoranti. Per la semplicissima ragione che non hanno studiato. Ma sono, potenzialmente, quelli di sempre (e d’altronde per quale ragione dovrebbero essere diversi? si fabbricano sempre allo stesso modo, almeno per ora). Se studiassero sarebbero sapientissimi. Certo, è necessario dargli un movente per farlo.
Alle prove di concorso per l’accesso alle Ssis (primo ciclo, fine 1999) sono stato testimone di un episodio che mi sembra emblematico del momento attuale. Si presenta all’orale una candidata con punteggi altissimi nei titoli e buoni nello scritto: è una classicista, ha già vinto un posto in un dottorato di ricerca del settore e tenta giustamente di tenersi aperta anche la strada dell’insegnamento secondario. Il docente di storia le chiede se il fascismo si colloca prima o dopo la prima guerra mondiale. La candidata si blocca, riflette, alla fine sceglie il male minore: scena muta. Il docente le chiede allora se sa quando le donne, in Italia, hanno ottenuto il diritto di voto. La candidata ci guarda, gli occhi le si riempiono di lacrime; si scusa con la commissione per la sua ignoranza; spiega compostamente che a scuola di queste cose non si parla, esperienza diretta non ce l’ha, i giornali non li legge e comunque questi dati non ce li troverebbe, non parliamo poi dei telegiornali, e dunque non sa cose che un professore non può ignorare. è innocente ma si vergogna. Una persona notevole, benché impreparata; e un atto d’accusa completo contro l’individuo, la società, la scuola e l’università (visto che era laureata).
L’unico commento possibile mi sembra da individuare nella riflessione che è gran tempo di correre ai ripari.
La Scuola di Specializzazione: una grande svolta
Dopo decenni di abbandono arriva, sostanzialmente inavvertita da parte dei più (e certamente da parte delle facoltà di Lettere e filosofia che erano in ogni caso al centro della questione) la svolta: gli insegnanti della secondaria inferiore e superiore dovranno seguire una specifica scuola di specializzazione, di durata biennale, per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. La istituisce la legge 341 del 19 novembre 1990 intitolata alla riforma degli ordinamenti didattici universitari. L’università, ad un tempo, vede ufficialmente declassato il titolo di studio che essa rilascia (la laurea “non basta più” per insegnare) e si trova affidato l’allestimento di procedure sostitutive per la formazione degli insegnanti.
Ho già osservato che il settore umanistico in senso stretto non si accorse nemmeno della novità; e questa estraneità è confermata da tutta la storia della Ssis, ad eccezione della fase più recente. Qualunque possa essere la spiegazione di questo fatto, è comunque certo che esso è all’origine di molte delle difficoltà presenti.
Caratterizzante è invece la presenza, tra i promotori della Ssis, di pedagogisti (come Mario Gattullo, poi tragicamente scomparso) e di “ingegneri istituzionali” di estrazione scientifica o socioeconomica (come Giunio Luzzatto o Antonello Figà Talamanca). Solo in un secondo tempo, col costituirsi dei Comitati di proposta regionali per l’avviamento delle Ssis, gli esponenti delle facoltà di area umanistica sono quasi forzosamente entrati in gioco. E con soddisfazione posso qui registrare che in alcuni casi, come per esempio nel Comitato della Toscana, il dibattito ha visto la convergenza di tutte le componenti (psico-pedagogica, scientifica, umanistica) su alcuni aspetti della struttura originale della Ssis che sembravano discutibili.(4)
Il punto più discutibile è certamente apparso fin dall’inizio quello della riducibilità della durata della Ssis: i due anni erano infatti dichiarati riducibili a uno e mezzo in un primo tempo, poi decisamente e uno nel caso che l’allievo avesse in precedenza (cioè nel suo corso ordinario di laurea in lettere, matematica, chimica ecc.) accumulato crediti riconoscibili ai fini del percorso Ssis. Per esempio esami di psicologia, pedagogia ecc., come non era precisato ma facilmente intuibile. Era di fatto un pesante invito a creare percorsi didattici all’interno delle facoltà disciplinari; invito che per ovvie ragioni aveva molte più possibilità di essere accolto nelle facoltà umanistiche per il contatto disciplinare tra gli insegnamenti di filosofia e di pedagogia (sia pure da intendersi, gentilianamente, come una delle specificazioni empiriche del sapere filosofico) e quelli dell’area psico-pedagogica presenti nelle facoltà di Scienze della formazione e destinati a costituire uno dei nuclei forti della costituenda Ssis.
Altamente chiarificatore, almeno per me, è stato il discorso col quale Gianni Puglisi, all’epoca presidente della Conferenza dei presidi delle facoltà di Scienze della formazione, ha introdotto i lavori di un’assemblea Concured (l’organo didattico degli Atenei che si è occupato dell’istituzione delle Ssis) a Perugia, aprile 1997. Il tono era ironicamente celebrativo e il ragionamento si articolava su tre punti: a) c’era chi aveva capito fin dall’inizio il ruolo delle Ssis e chi non l’aveva voluto capire, e ora che l’iniziativa era in marcia si sentivano invocazioni del tipo “Vengo anch’io!”, alle quali veniva spontaneo rispondere “No, tu no!”; b) la miopia accademica aveva moltiplicato gli insegnamenti specialistici che erano ovviamente privi di allievi, mentre gli insegnamenti legati alla didattica, troppo poco numerosi a fronte di un impegno crescente, erano sommersi dalle masse studentesche; c) la stessa miopia accademica aveva per decenni trascurato il problema del ricambio dei docenti e l’università andava incontro a una fase di vuoto negli organici per un pensionamento di massa che da lì a 10-15 anni avrebbe colpito contemporaneamente due terzi del corpo docente.
Si trattava di un’analisi per molti versi brillante e realistica, che non si curava di nascondere il progetto che di fatto s’era venuto sviluppando a fianco dell’ipotesi istitutiva delle Ssis: emarginare le facoltà letterarie e filosofiche nell’economia del processo di formazione degli insegnanti secondari di quelle stesse materie, occupare gli spazi anche accademici che l’imprevidenza di quelle facoltà lasciava sguarniti, puntare sulla centralità della metodologia psico-pedagogica anche a scapito della competenza disciplinare.
Data da allora il dibattito sulla questione che anche in queste note viene affrontata. La storia di questi ultimi anni ha reso inattuali molti degli argomenti qui sopra accennati, ma il punto centrale non è cambiato: è rimasto quello della composizione delle competenze richieste a un insegnante e delle modalità nonché delle responsabilità del loro accertamento.
Nel frattempo le Ssis, tra ambiguità e incertezze (alle quali si è rimediato, saggiamente nel complesso, ricorrendo alla flessibilità che le disposizioni relative all’autonomia impongono o almeno consentono) sono comunque partite. Alla fine del 1999 sono stati svolti i concorsi per l’accesso al primo ciclo biennale, nell’autunno 2000 stanno svolgendosi in molte regioni gli esami di passaggio al secondo anno e i concorsi d’ammissione al secondo ciclo. è da segnalare un atto normativo importante che consolida le Ssis come struttura decisiva nella formazione degli insegnanti secondari e dunque nella costituzione del ceto colto del Paese: il 26 settembre 2000 è stato approvato in Comissione cultura del Senato ed è pronto per l’esame dell’Aula quello che doveva essere l’articolo 15 del Collegato alla Finanziaria 2000: una disposizione che regola l’uscita degli abilitati dalla Ssis e la loro collocazione all’interno delle graduatorie permanenti dei Provveditorati agli studi. Costituisce ora l’emendamento 6-ter al testo del decreto sull’immissione in ruolo del personale docente, da convertire in legge entro il 28 ottobre 2000. Lo trascrivo per intero:
L’esame di Stato che si sostiene al termine del corso svolto dalle scuole di specializzazione di cui all’articolo 4 della legge 19 novembre 1990, n.341, ha valore di prova concorsuale ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti previste dall’articolo 401 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n.297, come sostituito dall’articolo 1 comma 6, della legge 3 maggio 1999, n. 124. Con decreto da emanare di concerto tra il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica sono stabilite le prove d’esame, che dovranno accertare sia il possesso delle necessarie conoscenze disciplinari sia l’avvenuta acquisizione, nella scuola di specializzazione, delle competenze professionali, nonché le relative modalità di svolgimento. Con il medesimo decreto vengono determinati i criteri e le modalità di costituzione delle commissioni, sia di ammissione alla scuola di specializzazione sia di esame finale, e il punteggio da attribuire al risultato dell’esame finale sia ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti sia ai fini dell’esito del concorso per esami e titoli, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 3 del decreto ministeriale 24 novembre 1998, n. 460. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche a coloro che frequentano le scuole di specializzazione alla data di entrata in vigore della presente legge. Coloro che sostengono con esito positivo l’esame di Stato di cui al presente comma entro l’anno accademico 2000-2001 sono inseriti a domanda nelle graduatorie permanenti nel medesimo scaglione del personale di cui al comma 6-bis.
Il personale “di cui al comma 6-bis” è costituito dai cosiddetti “precari”, beneficiari di una tornata riservata degli ultimi concorsi ai quali ho già accennato. La sorte degli allievi Ssis appare dunque tutt’altro che punitiva. Ma c’è altro da osservare su questo dispositivo nel suo complesso. Si tratta infatti di un’autentica rivoluzione nel meccanismo di selezione e di accertamento della professionalità degli insegnanti della secondaria. Per convincersene, basta indicare la conseguenza più macroscopica del provvedimento: ogni anno, a regime, si concluderà un ciclo Ssis, e ogni anno ci sarà dunque una tornata di esame-concorso che produrrà una leva di insegnanti perfettamente idonea a entrare nei ruoli. L’epoca dei mega-concorsi, attesi per lustri da masse indeterminate di laureati pronti a tutto e preparati a non molto, dovrebbe essere tramontata.
Nelle pieghe del testo ci sono questioni sulle quali sarà necessario discutere e forse anche confrontarsi (le commissioni, i programmi, le prove): ma non mancheranno né il tempo né gli argomenti. E la definizione di questi punti non è, ora, la questione più urgente.
La Ssis nel quadro del nuovo ordinamento degli studi universitari (3+2). L’ipotesi “tre più due” secco anche alla luce dell’ultimo decreto
Tutto quanto è successo finora nelle Ssis e attorno ad esse si riferiva ad un’organizzazione degli studi universitari che sta per scomparire. Il titolo di ammissione al concorso per la Ssis era (anzi, è) la laurea: che significa laurea quadriennale (e ciò vale per Lettere come per Fisica, per Matematica come per Lingue straniere e Giurisprudenza) conclusa dall’elaborazione e discussione di una tesi di laurea. Questo impianto sta per essere sostituito da un percorso in due fasi (schematizzo puntando su ciò che mi sembra più utile al mio discorso): una fase triennale conclusa dalla laurea vera e propria e che non prevede la tesi suddetta più, per chi voglia, una fase biennale che porta alla laurea specialistica conclusa questa volta da una tesi. Lo spirito della riforma è chiaro: si intende procedere alla formazione di un numero maggiore di laureati che possano spendere più precocemente le loro competenze sul mercato del lavoro e contemporaneamente si rinuncia all’ambizione di portare la loro formazione sino alla padronanza degli strumenti di ricerca originale, padronanza che attualmente costituisce il requisito previsto per il lavoro di tesi e che spesso richiede, nella situazione già ampiamente illustrata, anni di ritardo per gran parte dei laureandi, alle prese con un’acculturazione troppo approfondita per le loro forze. Quest’ultimo tipo di formazione non è abolito dalla riforma ma è riservato a chi ritenga opportuno investire energie supplementari nell’affinamento specialistico delle proprie competenze. Nell’ottica della Ssis il quesito più immediato che si pone al riguardo è se il titolo di ammissione al concorso sia destinato a essere la laurea oppure la laurea specialistica; il che equivale a interrogarsi sulla collocazione della Ssis all’interno del nuovo ordinamento.
Buona parte della cerchia dei promotori originali e primi organizzatori delle Ssis, che sono per ragioni storiche, come già accennato, docenti di materie scientifiche (matematica, biologia) o attinenti all’area psico-pedagogica, propendono molto chiaramente per la laurea triennale seguita dal biennio della Ssis. Il loro ragionamento è lineare e tutt’altro che privo di forza: dopo la laurea si fa il concorso di ammissione alla Ssis. Chi passa sa abbastanza (altrimenti sarebbe bocciato); chi non passa può riprovare quando vuole e nel frattempo può fare quello che vuole.
In teoria, potrebbe anche andare. In pratica, e non solo per i limiti della situazione attuale, sarebbe semplicemente un disastro.
Intanto ricordiamo che la laurea triennale parte praticamente già ora. In diverse università saranno operative fin dal prossimo anno le conversioni (si spera oculate) degli esami sostenuti in crediti e dunque dei percorsi tradizionali in quelli rinnovati. E questo vuol dire che avremo laureati triennali che escono dalla vecchia scuola: cioè, per farla breve, impreparati. Ammettendoli al concorso per la Ssis si commetterebbe una grave leggerezza: perché la Ssis ha bisogno di un certo numero di allievi (visto che la secondaria ha bisogno di un certo numero di insegnanti) e li deve pescare lì. Altro che bocciarli se non sanno! è evidente che succederà tutt’altro: e cioè succederà che, non potendoli bocciare oltre un certo limite, si alleggeriranno le pretese della verifica e si abbasserà lo standard richiesto. Qualcuno potrebbe obiettare: sì, ma adesso quelli sono nella Ssis e lì impareranno quello che non sanno. Errore (come tutti sanno): nella Ssis non si prevede nessun recupero disciplinare ma solo didattiche disciplinari, laboratori, tirocinio, teoria e pratica psico-pedagogica. Chi venga ammesso alla Ssis senza sapere la storia, nella Ssis imparerà ad insegnare la storia, cioè come insegnare la storia, ma continuerà ad ignorare ciò che è chiamato ad insegnare (la storia, appunto). Si aggiunga pure che appare del tutto incredibile che nella situazione concreta dei nostri laureati quadriennali, che come hanno scoperto con sgomento i commissari al primo concorso per le Ssis ignorano che cosa sia il feudo (domanda: «Che cosa caratterizza il feudo?»; risposta: «Il fatto che fosse completamente recintato da un muro di cinta e da un fossato») e dove sia – sulla carta geografica – il Vietnam, si possa, nei tre anni previsti per la nuova laurea, colmare questi vuoti e aggiungerci le competenze necessarie per insegnare il latino e magari anche il greco.
E c’è di peggio. Come se i dubbi teorici appena esposti non bastassero, esiste una prova recente dell’insufficiente sensibilità che circola nell’attuale dirigenza Ssis al riguardo della preparazione disciplinare. Anche quest’anno le modalità per lo svolgimento delle prove di ammissione e per la stesura dei relativi bandi di concorso è stata regolata con un decreto ad hoc. Il decreto di quest’anno, pubblicato in data del 7 giugno 2000, era più rigido del precedente e più vincolante rispetto alle autonomie delle singole Ssis, con vantaggi e svantaggi dei quali non è possibile discutere in questa sede. Il punto che qui preme è però costituito dal comma che regola i criteri delle prove di accesso.
Questo comma ha una storia. La rivista “Università e scuola”, diretta da Giunio Luzzatto e dedicata all’approfondimento di “problemi trasversali e ricerca didattica”, nel fascicolo datato al marzo 2000 ma comunque successivo al 10 aprile dello stesso anno, portava (pp. 2 e 3) questa informazione relativa al decreto in preparazione:
Il Murst ha all’opera, sul tema, una Commissione che sta concludendo i lavori. Per quanto riguarda in particolare la Ssis, le esigenze delle Scuole sono state rappresentate, all’interno della Commissione, dal Presidente CoDiSsis Gaetano Bonetta e da Milena Bandiera della Ssis del Lazio, che hanno ottenuto che venisse lasciato un opportuno spazio alle diverse realtà locali. Il testo relativo alle Ssis, salvi eventuali limitati ritocchi finali, risulta essere il seguente.
Seguiva l’articolato del decreto, che al secondo comma, parlando delle prove di ammissione alla Ssis, recitava:
Le prove vertono sui temi e sui programmi fissati dal D.M. 11.8.1998 n.357 (GU 18.11.98 n. 270), il quale sarà cura delle singole Scuole affiggere al proprio Albo.
Il decreto 357, per chiarezza, è quello che fissa i programmi e le prove di esame per i concorsi ordinari nella scuola che stanno svolgendosi in questi mesi. Fin qui, tutto chiaro. Ma il testo definitivo del decreto, al comma 3 dell’articolo 1, legge:
I quesiti vertono sui programmi fissati dal decreto del Ministro della Pubblica Istruzione 11 agosto 1998, n. 357, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 18.11.98, n. 270, che ogni singola scuola affigge al proprio albo, nonché su argomenti atti a verificare la predisposizione dei candidati alle discipline oggetto della Scuola di specializzazione, discipline il cui elenco viene allegato al bando.
La “predisposizione alle materie”! niente male, come “limitato ritocco finale”! Che i test di accesso possano svolgersi prevedendo l’accertamento delle “predisposizioni alle materie” alla pari con le competenze disciplinari mi sembra piuttosto inquietante. Si viene ammessi alla Ssis se si è “predisposti” a una certa materia; all’interno della Ssis ti “insegnano a insegnare” la suddetta materia; e quando è che qualcuno si domanderà se tu “conosci” quella benedetta materia della quale sarai professore? Se sulla base di queste premesse proviamo a immaginare che a un simile tipo di prove di accesso siano ammessi i futuri laureati triennali non è difficile arrivare alle conclusioni. Il livello di preparazione degli insegnanti colerà definitivamente a picco (molto alto sarà invece quello della loro sensibilità relazionale e della loro predisposizione a fare quello che dovrebbero avere già fatto); avremo laureati più giovani e più numerosi ma saranno laureati fittizi; avremo sancito definitivamente l’inutilità di insegnare quello che, in compenso, insegneremo accuratamente a insegnare.
L’argomento più forte contro il 3+2 “secco” mi sembra comunque un altro. Mettiamoci per un istante nell’ottica di un futuro neo-laureato triennale in lettere o in matematica o in lingue straniere. Davanti a lui si aprono due prospettive: tentare il concorso per la Ssis (che lo impegnerà per un biennio) oppure iscriversi ad una laurea specialistica del suo ambito disciplinare (che lo impegnerà ugualmente per un biennio). La Ssis gli fornisce un posto contingentato attraverso il numero chiuso, l’abilitazione necessaria a svolgere una professione, la preparazione specifica relativa, un punteggio aggiuntivo per entrare nelle graduatorie dei concorsi a cattedra. La laurea specialistica gli fornisce una raffinata preparazione nel settore scientifico per il quale ha dimostrato maggiore inclinazione, e niente altro. Come ritenete che andranno, statisticamente, le cose? verso quale sbocco punteranno i laureati migliori, quelli che si giudicano titolari di una preparazione concorrenziale? In altri termini, e lasciando da parte gli interrogativi retorici, mi sembra evidente che tra la Ssis e qualunque altro biennio specialistico nei settori che prevedono lo sbocco all’insegnamento non ci sarà partita, come si dice nel gergo sportivo. La laurea specialistica, disertatissima e priva di motivazioni specifiche, sarà semplicemente il moncherino di un progetto formativo abortito, e servirà solo a chi si prepara al dottorato di ricerca. Troppo poco per giustificare l’esistenza dell’impianto di riforma che si chiama “3+2”. E se il processo di formazione del ceto colto del nostro paese perdesse di fatto l’opportunità di un approfondimento specialistico non c’è dubbio che andremmo incontro a un vertiginoso impoverimento culturale anche rispetto alla situazione attuale, che al paragone diventerebbe (Dio sa quanto imprevedibilmente) tale da essere rimpianta di gran cuore.
La proposta Tranfaglia
Nei primi giorni del luglio 2000 è stata formalizzata la proposta della Commissione mista Mpi-Murst presieduta dallo storico Nicola Tranfaglia. La proposta non ha il consenso unanime della Commissione, e la indicherò dunque col nome del presidente.
Nella sostanza, vi si propone di indicare come titolo minimo per essere ammessi alla Ssis la laurea specialistica: quella cioè che si ottiene in cinque anni. La Ssis si occuperà di verificare che nel secondo anno (l’ultimo) della laurea specialistica siano inseriti nei curricula degli aspiranti 60 crediti di Scienze dell’Educazione, da intendersi probabilmente sia come didattiche disciplinari (didattica della matematica, della storia ecc.) sia come insegnamenti teorici di psico-pedagogia. Solo a questo punto ci sarebbe l’accesso alla Ssis, che però consterebbe di un solo anno, dedicato ai laboratori didattici e al tirocinio.
Verso la fine di agosto la proposta ( che viene schematicamente indicata come “3+2+1”) è stata presentata alla stampa, riscuotendo ampi consensi; ma anche stimolando una reazione molto viva da parte dei sostenitori dello schema “3+2” secco. E il dibattito ferve. Non è difficile riconoscere i meriti della proposta Tranfaglia, che sono fondamentali. Il primo va visto nella riaffermazione molto marcata dell’importanza prioritaria, nella formazione degli insegnanti, della preparazione disciplinare. Nessuno che abbia un minimo di esperienza della scuola secondaria “effettuale” e dell’insegnamento universitario può seriamente ritenere che l’unica carenza (ma nemmeno che la principale carenza) dei nostri insegnanti attuali e prossimi futuri sia costituita da un’insufficiente preparazione psico-pedagogica. Ho già fornito testimonianze di prima mano che spero abbiano un significato chiaro a questo riguardo. Nella proposta Tranfaglia si recupera un ruolo per le lauree specialistiche che, alla luce di quanto già detto, mi sembra sacrosanto. Ugualmente positivo è l’accento posto sul ruolo delle Scienze dell’Educazione nell’accezione di didattiche disciplinari, che non può essere esclusivo (è chiaro che anche la teoria pedagogica deve avere uno spazio adeguato) ma che è certamente decisivo; e che qui appare giustamente collocato nel percorso specialistico biennale, cioè legato all’acquisizione di competenze specialistiche (non necessariamente micro-specialistiche!) che devono differenziare la preparazione di un laureato (triennale) che desidera impiegarsi nella pubblicità, oppure nelle public relations del comune di Castiglione Olona, e quella di un laureato (triennale) che vuole diventare professore di italiano e storia, e possibilmente in un liceo. Non parlo di un professore di latino o di greco, che costituisce un caso evidente dell’esigenza di specializzazione. Ma basta pensare alle cognizioni generali (sulla storia del territorio, del paese, del continente nel quale andrà ad operare; sulle lingue che dovrà usare; sui monumenti che dovrà illustrare, ecc.) che possono servire a un giornalista, libero di studiare nel tempo quello che gli servirà a seconda del tipo di servizio in cui lo collocherà il suo capo-redattore, e chiedersi se quella preparazione può essere sufficiente anche a un professionista dell’insegnamento di geografia e storia nelle scuole. E vale anche il reciproco: se uno vuole fare il giornalista, che se ne fa delle didattiche disciplinari?
Accanto ai meriti, tuttavia, è difficile non osservare subito che la proposta Tranfaglia presenta anche degli aspetti criticabili. Innanzi tutto, il ruolo delle lauree specialistiche, se non viene in qualche modo definito, taglia fuori di fatto le Ssis e chiunque altro dalla programmazione quantitativa. Nel senso che le lauree specialistiche sono organizzate dalle singole facoltà: e non mi sembra realistico chiedere alle facoltà, in un regime di autonomia come quello presente, di ammettere alla data laurea specialistica tanti laureandi e non di più (o non di meno); e magari alla facoltà tale di Cagliari di accoglierne tanti e alla sua omologa di Lecce tanti in più (o in meno). Come prima conseguenza, salta la struttura regionale attualmente propria delle Ssis e tutte le convenzioni e gli accordi tra gli atenei stipulati o da stipulare.
Ancora meno realistica appare l’idea di imporre da un qualche centro alle facoltà i criteri sulla base dei quali ammettere i laureandi al corso biennale, o addirittura quelli per giudicarli maturi per il titolo conclusivo. Non parliamo dell’idea di una commissione organizzata a livello nazionale per stabilire il livello minimo dei requisiti necessari ad ottenere una laurea specialistica alla conclusione del corso di studi relativo. E dunque anche la programmazione qualitativa deve essere necessariamente affidata ad ogni singola facoltà, che (ricordiamolo) viene invitata a competere con tutte le altre per interessare e richiamare gli studenti che stanno per immatricolarsi.
In questo quadro è dunque evidente che il laureato specializzato con curriculum didattico costituirà un insieme molto variegato (e fin qui, nulla di sconvolgente). è però altrettanto evidente che il concetto di valore abilitante del titolo così ottenuto, che ha un senso solo se lo si prevede come spendibile a livello nazionale, non è più sostenibile. Ma, si dirà, la concessione del titolo abilitante è demandata alle Ssis. Vero: ma le Ssis, a questo punto della prospettiva, costituiscono un’incognita assoluta. Sia perché, caduta la struttura regionale, il loro ruolo va in ogni caso ridefinito (saranno strutture legate al singolo Ateneo? o alla singola facoltà, come parrebbe più logico?). Sia perché il concetto stesso di ammissione alla Ssis deve essere ripensato. è a questa altezza infatti, dopo cinque anni di corso e con un minimo di 60 crediti didattici concordati con la Ssis, che dovrebbe intervenire la prova di concorso a numero chiuso per l’ammissione alla stessa Ssis. Nella proposta Tranfaglia, ed è logico che sia così, non ogni punto è chiarito e normato esattamente. Ma se non c’è numero chiuso non può esserci (a norma di legge ma anche di senso comune) un tirocinio seriamente organizzato; e se non c’è una prova di concorso selettiva non può esserci numero chiuso. E tuttavia, come sarà possibile escludere dalla Ssis un laureato specializzato, dotato di 60 crediti concordati con la Ssis e finalizzati all’insegnamento? e alla conclusione di almeno cinque anni di corso? Anche questa è soltanto, come si intende, una domanda retorica. Non è umanamente pensabile nessuna selezione tra candidati dotati di questo profilo.
Tiriamo allora le somme. Niente concorso, niente struttura regionale, niente programmazione, niente abilitazione. La Ssis è di fatto cancellata. La formazione specifica degli insegnanti ritorna all’interno delle competenze delle diverse facoltà, e per la selezione ci si riaffida, come già nel passato, ai concorsi. Sarebbe da stolti sostenere che così è impossibile fare: lo si è fatto molto a lungo, e non sempre le cose sono andate tanto male. Ma anche in questo caso, come già sopra concludendo il ragionamento sull’ipotesi “3+2” secca (cioè laurea triennale più Ssis), ci si potrebbe interrogare sul senso da dare al poderoso progetto di riforma complessiva che si indica con la formula “3 +2”, da intendersi in questo caso come laurea triennale più laurea specialistica biennale. Il concorso, anziché arrivare dopo quattro anni (teorici) arriverebbe dopo sei anni (teorici) e per giunta distinti in tre cicli (“3+2+1”) che può riuscire arduo armonizzare o tempestivamente incastrare. Avremmo insomma lavorato alacremente per farci il maggior danno possibile.
Una proposta “modulare”
Forse è possibile uscire almeno dalle aporie più vistose e abbozzare a grandi linee una proposta. E forse a questo fine conviene richiamare e tenere presenti le caratteristiche fondanti della Ssis che siano di interesse generale, e partire da quelle. Che sono:
a) centralità della preparazione specificamente professionalizzante degli insegnanti, e dunque necessità della formazione psico-pedagogica e didattica, sia generale che didattico-disciplinare;
b) essenzialità della competenza strettamente disciplinare, da acquisire ovviamente in precedenza, nei corsi di studio specifici seguiti nelle varie facoltà;
c) necessità di impostare l’esame di concorso esclusivamente su base disciplinare, visto che le competenze relative non si acquisiscono nella Ssis e che quelle professionalizzanti si acquisiscono solo nella Ssis;
d) esigenza di motivare gli allievi Ssis, e dunque di garantire loro un valore certo del titolo che otterranno e un legame il più possibile stretto con le esigenze del mercato del lavoro (e dunque esclusività per la Ssis del titolo di abilitazione all’insegnamento);
e) organizzazione su base regionale, come base minima per una programmazione credibile rispetto alle esigenze distributive delle disponibilità e per una omogenizzazione delle pratiche e dei risultati formativi;
f) numero chiuso per l’esigenza imprescindibile della fase di tirocinio, organizzabile solo su dati quantitativi certi e dominabili.
Basta un’occhiata a questa griglia per capire innanzitutto che la Ssis è bensì un biennio di specializzazione post lauream ma non è e non può essere considerata una laurea specialistica:
– perché è strutturata a numero chiuso e prevede un accesso per concorso;
– perché rilascia l’abilitazione ad una professione;
– perché non è incardinata in alcuna facoltà specifica.
è inoltre evidente, e comunque deve essere tenuto ben fermo, che il perno attorno al quale ruotano tutti gli interessi legittimi legati alla Ssis (e il discrimine tra le diverse competenze che ne costituiscono l’ambito) è uno solo: il carattere rigorosamente disciplinare della prova di accesso.
Questo punto deve essere garantito in forma vincolante e definitiva, deve cioè entrare nel decreto istitutivo della nuova Ssis, che sarà comunque da stendere, dopo la riforma dei cicli e quella dei corsi di studio universitari.
Assodato questo punto, si può immaginare una struttura nella quale il titolo di ammissione ad una Ssis che sia come ora biennale (e che però non preveda, contrariamente a ora, alcuna possibile abbreviazione di corso) consista nella semplice laurea. La struttura dell’esame di accesso garantisce infatti che le competenze disciplinari siano accertate, e se queste esistono non c’è ragione perché il candidato non proceda e non si abiliti all’insegnamento in cinque anni.
Chi invece non supera la prova di concorso può recuperare i debiti di formazione iscrivendosi alla laurea specialistica. Ottenuto il titolo, e a patto che nel suo curriculum figurino le didattiche relative alle discipline che intende insegnare, il candidato che si ripresenti (o si presenti) al concorso per la Ssis potrà contare
a) su un punteggio preferenziale per quanto attiene alla valutazione dei titoli e
b) su un percorso Ssis ridotto a due semestri e incentrato sull’acquisizione delle competenze psico-pedagogiche e sul tirocinio.
Deve essere precisato a questo punto che le didattiche disciplinari non possono in nessun caso entrare in un curriculum triennale. Questi insegnamenti, che sono finalizzati alla formazione specifica degli insegnanti, devono collocarsi o nel biennio specialistico o nel percorso della Ssis. La ragione è chiara (e il punto assai importante). Prima di tutto, con questo accorgimento si evitano le confusioni tra una disciplina e la didattica della disciplina stessa; poi si finalizza la didattica di una disciplina al curriculum di chi quella disciplina vuole insegnare e la si sgombra invece dal percorso di chi non è interessato all’insegnamento (per riprendere un esempio già fatto, di chi vuole fare il giornalista e deve bensì sapere la storia ma non necessariamente la didattica della storia). Infine e soprattutto si protegge il curriculum triennale, già assai risicato, dalla tentazione di accumularvi crediti incongrui a futura memoria e insomma di ritagliare al suo interno percorsi didattici che lo sfigurerebbero irreparabilmente.(5)
Lo schema di soluzione qui proposto, se il ragionamento è stato coerente, dovrebbe produrre numerosi risultati positivi, giacché
a) non crea percorsi didattici all’interno delle facoltà disciplinari, limitando interventi di questo genere al livello del biennio specialistico;
b) garantisce un percorso breve a chi dimostra di possedere precocemente le competenze disciplinari necessarie;
c) allarga il campo d’intervento delle lauree specialistiche a condizione che prevedano anche le didattiche disciplinari (che entrano in gioco solo nel caso che il laureando intenda orientare il suo curriculum verso la prospettiva dell’insegnamento);
d) salvaguarda la specificità della Ssis connessa con l’area psico-pedagogica, il laboratorio didattico e il tirocinio, specificità che si vede comunque garantito un totale (concorrenziale a livello europeo) di due semestri da occupare in esclusiva;
e) soprattutto è perfettamente “modulare” nei confronti della storia futura e auspicabile della formazione degli insegnanti. è un punto importante e merita una riflessione. Perché, se le informazioni sugli eventi concorsuali più svariati e i dati sulle attività ordinarie nelle facoltà sono affidabili, è infatti assai probabile che, nel breve periodo, saranno assai poco numerosi i vincitori di posto nella Ssis che siano titolari di semplice laurea triennale. E tuttavia se l’esperienza costituita dalla Ssis si dimostrerà vitale e producente (unica ipotesi sulla quale valga la pena di misurarsi), se cioè la qualità di docenti e diplomati e insomma il livello complessivo della scuola secondaria migliorerà, è logico attendersi che anche il numero dei vincitori titolari di laurea triennale tenda ad aumentare. Il tendenziale coincidere statistico degli ammessi alla Ssis e dei semplici laureati misurerà contemporaneamente il successo della Ssis come esperienza, la crescita del livello culturale dei nostri corsi di laurea e il dissolversi degli argomenti del contenzioso che forma l’oggetto del presente dibattito.
Università di Pisa
NOTE:
1 – G. Luzzatto, I problemi universitari nelle prime otto legislature repubblicane, in Aa.Vv., La scuola italiana dal 1945 al 1983, a c. di M. Gattullo e A. Visalberghi, Firenze, La Nuova Italia, 1986, pp. 166-218.
2 – Il concorso è, nel settore pubblico, l’equivalente più prossimo dell’esame di stato per le professioni. Non credo sia necessario insistere sulle divergenze strutturali tra le due procedure, divergenze che attengono soprattutto allo sbocco lavorativo (certo, stabile e regolamentato nel settore pubblico, in tutto dipendente dal profilo individuale per le professioni) e alla quantificazione degli accessi (rigida almeno teoricamente nel settore pubblico, soggetta alle leggi del mercato per le professioni). Sono comunque due cose radicalmente diverse, benché possano essere indicate con lo stesso nome.
3 – Non sono soli. La facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Torino ha chiamato come professore a contratto il cantautore Roberto Vecchioni per tenere un corso intitolato Forme della poesia nella musica. Il nuovo docente «ha garantito che, agli esami, non boccerà nessuno. “La mia scala di giudizio – ha detto – va dal 27 al 30. Chi non saprà nulla prenderà 26. Perché dobbiamo imparare già tante cose nella vita, anche importanti, di cui non ci frega nulla. Questo sarà un corso diverso”». Il giornalista (la fonte della mia informazione è “la Repubblica” del 3 ottobre 2000) gli chiede: «Che valore avrà superare il suo corso?». Risposta: «Bisogna seguire 60 ore di lezione, prima di sostenere un esame universitario che dà dieci punti di credito formativo, mica poco. E’ un esame ben considerato».
4 – Una proposta di riordino radicale della struttura delle prime Ssis, approvata all’unanimità dal Comitato di proposta toscano, benché respinta con fermezza dal nucleo originario dei costituenti Ssis, è parso a Giunio Luzzatto «di grandissimo interesse» (G. Luzzatto, Insegnare a insegnare, Roma, Carocci, 1999, p. 98). A scanso di ogni equivoco lo stesso Luzzatto precisava che non era “in discussione alcuna ipotesi di questo tipo né in sede politica né in sede sindacale”.
5 – Le didattiche disciplinari sono insomma al loro posto nelle Ssis e nei percorsi specialistici (se lo studente intende finalizzarli all’insegnamento), cioè dove sono a disposizione di chi le può effettivamente utilizzare. L’argomento che anche le didattiche hanno, in quanto tali, piena dignità scientifico-disciplinare è molto forte ma non si applica al caso nostro. Chi intenda diventare professore di didattica dell’italiano è uno specialista potenziale della didattica e dell’italiano. Non c’è nessuna ragione perché segua anche i corsi di didattica della storia e del latino (come specialista dell’italiano non gli serve, e se lo consideriamo nella sua veste di specialista della didattica in generale tanto varrebbe sostenere che deve seguire anche la didattica della matematica, della chimica e di quant’altro); né c’è ragione che accumuli 60 crediti didattici nella sua laurea specialistica, visto che vuole fare lo studioso di didattica dell’italiano e non l’insegnante di italiano nella scuola secondaria (il che allora significherebbe, quanto meno, insegnante di italiano, storia, geografia ed educazione civica). La congruità dei saperi è certo infinita, però non dobbiamo neppure farci prendere per il naso mentre legiferiamo.