Cari amici,
ho da poco letto il DDL sullo stato giuridico dei docenti universitari, approvato dal Consiglio dei ministri il 15 novembre scorso, e credo che sia necessario intervenire perché alcune modificazioni introdotte inopinatamente nel testo sono – credo – di eccezionale importanza e gravità.
Mi riferisco in particolare alla messa ad esaurimento della fascia dei ricercatori (ex art. 2 e comma 2 e 6 dell’art. 12), alla delimitazione del numero dei professori ordinari in un quinto al massimo del totale dei professori (ex comma 3 dell’art. 2), alla questione dei contratti di tirocinio per i quali non è obbligatoriamente richiesto il possesso del titolo di dottore di ricerca (ex art. 10), all’attribuzione ai dipartimenti della facoltà di chiamare i professori (ex comma 2 dell’art. 5), alla definizione assai ambigua della possibilità di svolgere attività professionale all’esterno dell’università (ex art. 4).
Nel merito:
1) la messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori preclude di fatto ad un blocco degli accessi all’università da parte di una leva importantissima di giovani studiosi (oggi ormai alle soglie dei quarant’anni!) che si sono formati negli scorsi anni nei corsi di dottorato di ricerca ed a cui sono dovuti in larga parte gli sviluppi più innovativi della ricerca in Italia (cfr. le tesi depositate alle Biblioteche di Roma e di Firenze nonché I cataloghi delle case editrici di saggistica); è illusorio pensare che essi possano misurarsi ad armi pari nelle valutazioni comparative per i posti di professore (id est associato) con ricercatori in servizio da tempo (magari entrati ope legis!) nelle Università. Finiranno di fatto per rimanere fuori, con grave danno e per l’accademia e per la ricerca, nonché con grave spreco di pubblico denaro, posto che essi hanno frequentato il dottorato. Si rischia di creare una tragedia esistenziale per quelli che sono tra I migliori studiosi prodotti dall’Università italiana. Di conseguenza occorre esercitare il massimo di pressione perché la terza fascia di docenza rimanga aperta e continuino ad essere banditi concorsi per l’inserimento in essa.
2) la fissazione di un numero chiuso pari ad un quinto del totale per I professori ordinari si configura nei fatti come una vera e propria serrata, posto che l’andamento delle due tornate di valutazioni comparative finora effettuate ha mostrato un curioso andamento a piramide rovesciata: a fronte di pochi concorsi per ricercatori ed a un numero limitato di concorsi di seconda fascia, sono stati assai più numerosi quelli di prima fascia. Difficile sottrarsi all’impressione di una serrata dopo un’infornata (senza nulla togliere al valore scientifico degli studiosi vincitori ed idonei). La necessaria apertura dell’Università ed il definitivo superamento degli sciagurati effetti delle ope legis (comunque mascherate) richiede perciò che si ridiscuta sulla sensatezza di un numero chiuso degli ordinari (posto che ordinari ed associati fanno di fatto il medesimo mestiere, perché bloccare l’accesso alla prima fascia?), e comunque – se esso dovesse rimanere – che la quota massima venga sensibilmente alzata (a non meno di un terzo).
3) il fatto che, per attribuire contratti di tirocinio, non sia obbligatoriamente richiesto il possesso del titolo di dottore di ricerca ci allontana dall’Europa (negli altri paesi dell’Unione solo il possesso del dottorato apre la via alla carriera universitaria) e svalorizza il lavoro importantissimo di formazione e di ricerca svolto finora nei corsi di dottorato. Posto che il contratto di tirocinio a tempo determinato può essere una ragionevole modalità di avvio al reclutamento universitario, l’accesso deve essere riservato ai dottori di ricerca. Eventualmente, si potrà contestualmente provvedere ad un’elevazione del numero dei posti nei corsi di dottorato, attualmente troppo limitato, e senza dimenticare che il titolo di dottore di ricerca è comunque conseguibile da qualsiasi studioso che chieda venga valutata in tal senso una propria monografia inedita. Per cui non si capisce perché introdurre la curiosa dizione “laureati dal curriculum scientifico almeno triennale ritenuto idoneo”. Ancora una volta, ciò rischia di penalizzare i giovani studiosi in possesso del dottorato di ricerca, a cui si deve – lo ribadisco – buona parte della più recente produzione scientifica.
4) attribuire ai dipartimenti il potere di chiamare i docenti non tiene conto dell’esistenza di dipartimenti plurifacoltà, svuota inoltre le facoltà (che non vengono per altro abolite) di parte notevole delle loro funzioni e crea complicati rapporti tra dipartimenti e corsi di laurea, a cui è demandata la didattica. Sarebbe meglio ripensare da capo la questione, lasciando forse le cose come stanno ed attribuendo semmai ai dipartimenti maggior potere per quanto riguarda l’organizzazione della ricerca.
5) l’abolizione del tempo definito così come è configurata dall’articolo 4 del DDL rischia di lasciare le cose così come stanno ora se non di peggiorarle: andrà a finire che chi ha un’attività liberoprofessionale potrà continuare tranquillamente a svolgerla, mentre ci vorrà un permesso del rettore magari per svolgere una conferenza retribuita in un corso di aggiornamento per insegnanti di scuola media… Nuovamente, la questione va rivista da capo.
Difficile, francamente, sottrarsi all’impressione che sulla formulazione ultima del DDL abbiano agito diversi e convergenti corporativismi, dall’alto e dal basso, magari nascosti dietro la retorica della “difficoltà di distribuire in modo organico e razionale compiti e funzioni su un numero maggiore di figure”, come detto nella relazione illustrativa del provvedimento (p. 1); altrettanto difficoltoso, a mio parere, non avere il timore che i punti poc’anzi citati inficino una legge che per altri versi è apprezzabile ma che – così modificata rispetto alle stesure precedenti – rischia di produrre sull’Università sull’universo della ricerca (e degli studiosi) guasti non minori delle ope legis degli anni Ottanta. Data la situazione, e data l’intenzione del governo di far approvare a tempi brevi il DDL come collegato alla Finanziaria, credo sia necessario che I settori dell’accademia e della ricerca che non ne condividono punti significativi facciano sentire la loro voce in tutti i modi possibili, a cominciare da prese di posizione pubbliche delle associazioni professionali e di categoria di cui ognuno di noi fa parte. Per quanto mi riguarda, in quanto membro della SISSCO (Società italiana per lo studio della storia contemporanea), propongo che il direttivo del sodalizio entri nel merito ed apra un dibattito pubblico sul sito WEB di cui disponiamo, magari mettendo a disposizione dei suoi lettori questo mio intervento. Spero che le mie critiche non restino isolate.
Un cordiale saluto
Brunello Mantelli