Marco Mondini, Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Roma-Bari, Laterza, XIV-255 pp., € 16,00
Il corpo degli alpini gode di un consenso che in Italia nessun’altra truppa speciale può vantare; l’a. ne ricostruisce il mito e il suo consolidamento nell’immaginario popolare: «sono sempre sembrati soldati alquanto bizzarri. Ben poco entusiasti di donare il sangue per la patria, ma coraggiosi fino all’incoscienza, insofferenti della disciplina … ma pronti a seguire il proprio comandante fino alla morte» (p. VII). Mondini individua tre stagioni del mito. Dalla fondazione alla prima guerra mondiale si diffonde l’icona del soldato di montagna grazie a temi tipici della cultura dell’epoca, come il ruralismo e l’ideale della nazione in armi; durante il fascismo, con il contributo dell’associazionismo d’arma, si valorizza la figura dell’alpino in congedo che, similmente al legionario romano, è un cittadino-soldato carico di furore bellico; dopo la seconda guerra mondiale con le opere di Rigoni Stern, Revelli e Bedeschi – tre reduci che raccontano la ritirata di Russia – il mito si focalizza sull’epico sacrificio degli alpini.
Mondini utilizza un campione di circa 150 testi, in cui privilegia le opere letterarie senza trascurare l’importanza delle riviste illustrate e della monumentalistica per la costruzione dell’iconografia guerriera. Purtroppo tali opere sono desumibili soltanto ricorrendo al ricco apparato di note, a causa dell’assenza dell’indice dei nomi, che non dovrebbe mai mancare in studi seri come questo. Giocando sagacemente con le parole e le loro ambiguità, l’a. realizza una piacevole e partecipata opera di storia della cultura italiana, non priva di ironia. Nel testo vi sono cenni ad alcune delle questioni centrali nella storia degli alpini, senza approfondimenti forse perché giudicate evenemenziali: si veda ad esempio il ritratto di Antonio Cantore, di cui si ricostruisce finemente l’immagine pubblica, ma di cui si tacciono le discusse circostanze della morte. Grazie al fatto che non si tratti di storia politica o militare si può perdonare di buon grado all’a. il perdurare di vecchie interpretazioni, come quella che vorrebbe la scelta di adottare il reclutamento nazionale dettata dal desiderio di «unire gli italiani» e far loro conoscere regioni diverse da quelle natie, quando è noto che fossero esigenze di ordine pubblico a consigliare questa scelta, che non riguardò gli alpini, all’epoca reclutati territorialmente. Più comprensibile che non vi sia traccia di episodi come la fucilazione di venticinque alpini a Sebrenica l’8 agosto 1943 che nulla hanno da spartire con il mito guerriero, ma che rappresentano un unicum nella storia militare italiana nel conflitto.
La storia del mito degli alpini si arricchisce dunque di un altro importante contributo dopo quello del 2004 di Claudia De Marco, che si arresta alla Grande guerra, mentre Mondini dedica poche pagine al periodo precedente la guerra mondiale – e le differenze tra i due aa. non terminano qui, specialmente per alcuni aspetti interpretativi. Chi volesse una storia del corpo dovrà rivolgersi all’agile sintesi di Gianni Oliva del 1985 o all’ancor meno recente opera di Emilio Faldella del 1972, in attesa che venga pubblicata la tesi di dottorato di Pierluigi Scolè.
Gian Luigi Gatti
Risposta a Gian Luigi Gatti
La recensione di Gian Luigi Gatti al volume Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero ha il merito di porre all’attenzione del lettore alcuni dei punti salienti del mio lavoro, ma presenta anche delle ambiguità di giudizio che mi paiono fuorvianti. Gatti lamenta l’assenza di un indice dei nomi e di una bibliografia che dia ragione dei testi letterari e dei materiali iconografici utilizzati, ma vorrei segnalare che si tratta di una decisione dell’editore, non concordata preventivamente, dovuta a ragioni di spazio. Sono il primo ad auspicare che una riedizione del volume mi permetta di rimediare a questa lacuna. Trovo invece curiosa la convinzione secondo cui la mia non sarebbe una «storia politica o militare», un’affermazione che pare riportare la storiografia militare italiana nell’alveo di una disciplina appiattita sul terreno dell’histoire bataille o della più aggiornata, ma non meno convenzionale, storia politica delle istituzioni militari. Sono convinto, in effetti, che un approccio di «storia culturale», come quello che ho proposto, sia parte integrante del tentativo di comprendere e raccontare il ruolo delle Forze Armate, delle armi e delle guerre nella costruzione dei modelli nazionali, sociali e di genere nella vita pubblica italiana. E’ in questa prospettiva che ho inteso lo studio della produzione, e ancor più della ricezione, dei miti guerrieri, una ricerca che sicuramente emargina gli aspetti minuti della cronaca bellica, come l’annosa discussione sulla morte del generale Cantore ricordata da Gatti. Come, dove e per mano di chi abbia avuto termine la vita di un generale è, nella mia ottica, un fatto irrilevante; molto più interessante mi pare cercare di capire quando e attraverso quali media questo personaggio sia diventato un’icona dello striminzito pantheon marziale del Regno d’Italia. Ciò che non viene affatto trascurato nel mio lavoro, invece, è il legame con un paradigma interpretativo rigoroso del ruolo della vita militare nella storia italiana. Riferirsi alla coscrizione come ad un istituto pensato soprattutto in ragione della sua funzione di «amalgama nazionalizzante», non vuol dire aderire, come Gatti afferma, a «vecchie interpretazioni», ma semplicemente fare propria la convinzione che leggere la storia della leva esclusivamente alla luce delle esigenze di ordine pubblico sia insufficiente. Studiare l’esercito come «fucina degli italiani» significa, ovviamente, tenere presente più George Mosse che l’organica reggimentale e le dottrine tattiche, ma non mi pare che porti a risultati meno validi.
Marco Mondini
Replica a Marco Mondini
Quando un amico, stimato come fine studioso, scrive una tale risposta è opportuno un chiarimento; ripeto, in ordine di pubblicazione, i miei giudizi sull’opera: ricca, seria, sagace, «ricostruisce finemente l’immagine pubblica», «importante contributo».
Rimango perplesso, ora, nel leggere che sarebbero «irrilevanti» le modalità del decesso di Cantore, sia perché la sua figura è tra i cardini del mito analizzato anche in seguito alla sua morte, sia perché l’antimito fiorito intorno alle voci incontrollate ha avuto vasta eco nelle discussioni pubbliche e avrebbe persino ispirato Lussu per il famigerato Leone di Un anno sull’Altopiano. Sono convinto, inoltre, che l’analisi delle peculiarità del reclutamento avrebbe permesso l’individuazione di una delle specificità degli alpini nei confronti di altri corpi che condividono il mito guerriero italiano – ad esempio i bersaglieri, i paracadutisti o gli arditi della Grande Guerra. Più in generale, considerare che il reclutamento nazionale sia stato adottato soltanto perché «amalgama nazionalizzante» (p. 8) ritengo comporti la svalutazione dell’opera compiuta dall’Esercito, che ha svolto anche rilevanti funzioni di ordine pubblico. Infine, contrariamente a quanto sembra reputare Marco, il prescindere dalla ricostruzione fattuale e dall’analisi delle circostanze politiche non sminuisce ai miei occhi la validità della ricerca che mi pare avesse altri obiettivi. Trovo ancor più sorprendenti i toni utilizzati considerato che le prime parole del risvolto di copertina sono: «Questo libro non è una storia militare ma quella di un moderno mito guerriero».
Gian Luigi Gatti