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Paolo Pombeni

Quel che si deve evitare quando si discute del nuovo sistema concorsuale ormai giunto alla sua quarta tornata è di parlarne in astratto, cioè a prescindere dalla vicenda generale dell’università italiana e dal contesto della nostra “moralità pubblica” (nostra, sia nel senso di nazione, che in quello di corporazione accademica).
Il primo punto da ricordare è che questo sistema di concorsi letteralmente piomba su un sistema che non sa più cosa sia, che non ha alcuna coscienza specifica di sé. L’università italiana è profondamente mutata nell’ultimo trentennio, ma secondo linee del tutto casuali e senza che questo cambiamento venisse poi sistematizzato a livello di sentire collettivo. Detto in breve, siamo ormai di fronte ad una sessantina di sedi universitarie e ad un sistema di accesso massificato e indiscriminato agli studi superiori (considerato addirittura un “diritto”), mentre per quanto riguarda la funzione docente siamo più o meno rimasti alla visione humboldtiana del “grande scienziato” che forma facendo assistere i giovani a quanto avviene nel suo “laboratorio”. Naturalmente tutti sanno che non è così, perché lo scontro quotidiano con la realtà ci ha mostrato come i giovani siano del tutto impreparati per un livello di acculturazione così alto, ma nessuno vuole ammetterlo quando parla della sua funzione, poiché è troppo gratificante immaginarsi in quel ruolo di “maestro del sapere”.
Ricordare questo è importante perché una parte non piccola dei guai del sistema di selezione deriva da questa consapevolezza dell’ambiguità: da un lato non solo ai giudici, ma anche ai giudicati piace pensare che la materia del contendere sia la pirandelliana “patente” di aspirante scienziato (per i gradi iniziali e forse intermedi) e di scienziato affermato per il livello apicale; dall’altro tutti sanno che non è affatto così, per cui non risulta troppo difficile scendere a compromessi, visto che in definitiva il lavoro che svolgerà chi è selezionato sarà, nel 90 per cento dei casi, quello di una onesta didattica di base.
La debolezza del sistema italiano di selezione è nell’ipocrisia che lo domina circa i contenuti dell’atto di scelta che si va a compiere. A questo non si potrà mai dare risposta sulla base delle “tecniche” che si scelgono, perché non è una questione di forma, ma di sostanza.
Il secondo dato che vorrei ricordare è il fatto che anche quella dell’insegnamento accademico è una professione, dunque come tutte è segnata dal bisogno di “carriera”. Bisognerebbe aggiungere che è una professione esercitata nell’ambito della burocrazia pubblica, e questo, ovviamente, complica ulteriormente le cose. Tuttavia vi sono alcune anomalie. La prima è data dal fatto che il mestiere si esercita nell’ambito di una realtà locale determinata (e in un contesto nazionale di mobilità sociale e geografica sempre più difficile), mentre fittiziamente le posizioni che si hanno al suo interno dovrebbero avere valenza nazionale. Questo è consono con la natura “burocratica” dell’impiego (un funzionario pubblico è di 7°, 8°, 9° livello dovunque gli venga comandato di lavorare), mentre contrasta con la natura “meritocratica” della qualifica (chi è il miglior scienziato a Senigallia non è detto che rimanga il miglior scienziato ad Harvard, come chi è qualificato per la direzione generale di una azienda a Latina non è detto che possa mantenere la stessa qualifica se si sposta in una multinazionale a Torino). Nessuno si è curato di razionalizzare queste anomalie, mentre invece a partire dagli anni settanta venivano aperti in maniera ampia gli ingressi nella “carriera” per rispondere ai bisogni di insegnamento di una realtà di massa, sicché si è finito per avere una comprensibile pressione da parte di coloro che si trovavano bloccati ai livelli inferiori. Si tenga anche presente che, in contrasto con la struttura burocratica normale che fissa a livello di vertice e, almeno in teoria, in funzione dell’efficienza del sistema, il numero delle posizioni intermedie e apicali, per cui la forma dell’imbuto e la sua misura sono note, nel caso dell’università ci si è rifiutati di scendere a queste “bassezze” (sempre in nome del principio che i grandi scienziati sono quelli che sono, non c’è numero da fissare a priori).
Ora la riforma che noi ci troviamo a gestire è semplicemente una risposta raffazzonata che tenta di tenere insieme tutti i pezzi di questa realtà formatasi per accidente, rifiutandosi di ordinarli in una qualsiasi sequenza logica. Poiché essa è frutto della politica italiana di questa fase, risponde tranquillamente alle sue logiche: dare un po’ di ragione a tutti senza curarsi di “governare” alcunché.
Così in omaggio al fatto che tutto ha ormai una dimensione “locale”, cioè che sono le sedi accademiche a gestirsi il personale sia in termini di finanza che in termini di qualità, si è creato un sistema che pone interamente nelle mani dei singoli Atenei le progressioni di carriera, vuoi direttamente (con la decisione di bandire un posto con un “profilo”), vuoi indirettamente con la strozzatura del fatto che gli “idonei” aggiuntivi (quali che sia il loro numero) hanno una prospettiva solo se il loro Ateneo è disponibile ad assorbirli. So bene che in teoria qualsiasi Ateneo potrebbe farlo, ma poiché nel caso di una chiamata dall’esterno questo significa per l’Ateneo la copertura ex-novo di uno stipendio, ciò risulta diseconomico rispetto ad una semplice “quota aggiuntiva” come è nel caso di una promozione. Del resto nell’ottica del lavoro reale che un docente compie, cioè quello di alfabetizzare delle giovani generazioni, lo standard necessario non è particolarmente alto, né gli Atenei hanno interesse, salvo limitatissimi settori, ad impiegare “luminari”.
Però la legge non ha voluto far torto a quelli che sono affezionati al meccanismo della “patente” e dunque ha inventato un sistema faraonico di commissioni giudicatrici con alto numero di membri, eletti con molte garanzie contro le “cordate”, vincolati da regolamenti che fanno la gioia degli avvocati per l’ottima possibilità di impugnazioni che offrono. Questo dà soddisfazione a quella parte della corporazione che ama questi riti, ma anche ai molti candidati cui piacerà dire di avere avuto la patente da questo o da quel (più o meno) Grande della sua disciplina. Tutti scordano che nessuno è libero nel dare i propri giudizi (e i propri voti), poiché è parte del gioco più vasto del sistema di distribuzione di quelli che i politologi chiamerebbero gli “incentivi selettivi”: cioè ciascuno, se è veramente “uomo di Università”, deve farsi carico del sistema di “carriere” che è quanto spinge le persone a lavorare bene e ad accettare tutte le difficoltà insite vuoi nella ricerca (per i migliori), vuoi nella gestione dell’Università di massa.
Osservato sotto quest’ottica il sistema non sta funzionando troppo male. Dopo decenni di carriere lente e frustrazioni continue ha dinamizzato i passaggi di posizione, consentendo uno sblocco generazionale sui livelli intermedi e apicali. Ha invece ristretto definitivamente gli ingressi di nuovo personale giovane (nel ruolo decisivo dei ricercatori), perché ha causato una concentrazione delle disponibilità finanziarie sulle progressioni di carriera. Peraltro è corretto ricordare che la situazione precedente era, sotto questo profilo, non molto dissimile, per cui è da chiedersi se in questo caso il difetto non stia nel manico, cioè nella scarsa volontà delle corporazioni accademiche di investire sul proprio rinnovamento e sulla propria perpetuazione. Infine ha “localizzato” le posizioni, di fatto immobilizzando la maggior parte dei docenti nei loro Atenei di primo impiego.
So bene che questo è un punto che di solito suscita scandalo, ma vorrei spiegare perché invece lo ritengo positivo. Mi sia consentito dire con tutta franchezza che sono tra coloro che non hanno mai ritenuto particolarmente utile il sistema di sbattere le persone in una sede a caso, come spesso succedeva col sistema precedente. Ciò per due ragioni: 1) perché i bravi che finivano in sedi dove o non li volevano o non c’erano semplicemente i contesti per farli lavorare al loro livello costituivano un inutile spreco di risorse (oltre che una frustrazione per loro: e nella scienza produce bene, in genere, chi è poco frustrato); 2) perché gli scadenti, che, ieri come oggi, passavano per vari tipi di appoggi, erano inutilmente dispersi a far danno a casa d’altri, anziché rimanere in carico a chi li aveva stupidamente selezionati.
Dal punto di vista dei risultati non ho molto da rimproverare al sistema attuale. Il tasso delle promozioni poco convincenti mi sembra rimasto percentualmente ai livelli del sistema precedente, anzi in termini assoluti si è forse addirittura leggermente contratto grazie al grande numero di idoneità. La cosa non stupisce, perché entra in gioco il fattore che ho citato all’inizio, cioè il nostro livello di moralità pubblica. Esso è, purtroppo, “relativo”. Non nel senso che sia scarso, ma che si applica solo ai propri… avversari (o comunque estranei). Cioè la maggior parte degli accademici fissa delle regole severe per giudicare gli “altri”, mentre dà per scontato che i “suoi” siano, per la contraddizion che nol consente, assolutamente a posto sotto il profilo che loro stessi hanno creato. L’incremento numerico delle varie posizioni è, paradossalmente, favorevole a promuovere un ritorno a scale di valori diverse: per essere considerati “bravi” non servirà molto avere la “patente” (titolo svalutato dal numero), ma si dovrà far ricorso ad altri tipi di filtro.
La mia critica è che il sistema raggiunge questi obiettivi in maniera troppo dispendiosa e con una farraginosità che favorisce marginalmente furberie e colpi di mano. Un sistema di selezione affidato direttamente agli Atenei, in maniera semplificata e senza inutili aggiunte di idonei, renderebbe più agile il sistema e più trasparente la responsabilità locale. Renderebbe anche più responsabili i giudici esterni scelti dagli Atenei, perché col tempo diventerebbe evidente chi esce approvato da giurie di qualità e chi da giurie, diciamo così, dalla bocca buona. In ogni caso al titolo andrebbe data una valenza strettamente locale, cioè non “esportabile”. Anche così si ricreerebbe quella “graduatoria” che è pur necessaria e che nascerebbe dalla combinazione dei due elementi: la tradizione di serietà della giuria che assegna la posizione e la tradizione di rigore e di ricerca del meglio di quell’Ateneo in quello specifico settore (perché, rassegnamoci, ben pochi Atenei potranno mantenere gli stessi standard di eccellenza in tutte le discipline).