Leonardo Varasano, L’Umbria in camicia nera (1922-1943), prefazione di Alessandro Campi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 588 pp., € 32,00
Del libro di Varasano salta subito agli occhi un certo spirito polemico verso la storiografia precedente per «la lettura riduttivamente classista del fenomeno» (p. XII) e per «la scarsa attenzione dedicata al caso dell’Umbria fascista» (p. XI), arrivando a parlare di «storia scomoda, per certi versi ingombrante. Addirittura urticante. Tanto da rendere a lungo preferibile l’oblio, il vuoto, la cancellazione della memoria, la ricostruzione selettiva» (p. 3, ma anche 571), essendosi fino ad oggi concentrata la storiografia solo sull’avvento al potere e sulla caduta del fascismo, momenti per definizione negativi, e avendo lasciato in ombra il «fascismo-regime» e il «fascismo-apparato» (p. 3), quello cioè delle realizzazioni, su cui l’a. si concentra, richiamando dibattiti storiografici a dire il vero alquanto sorpassati, come quello sulla modernizzazione o sul consenso. In un testo di 600 pagine pochissimo spazio è riservato alla dimensione mitico-propagandistica, a quella «estetica della politica» tesa alla nazionalizzazione (vedi Mosse) che ha dato negli ultimi anni i risultati migliori nello studio del fascismo, aprendo nuove prospettive: il caso umbro, con la radicata presenza della tradizione francescana, poteva essere un interessantissimo caso di studio sull’interazione tra dimensione mitico-politica e mitico-religiosa, che trova un suo momento forte nelle celebrazioni del VII centenario francescano nel 1926, a cui l’a. dedica poche pagine (539-41). Sulla modernizzazione l’a. si dilunga snocciolando dati seriali, spesso anche poco pertinenti, come le contravvenzioni stradali e le licenze di caccia (pp. 492-493). Tutto questo non solo appesantisce il testo, ma mostra l’impostazione dell’a. che assume pienamente, tratta dalle pubblicazioni del regime, il punto di vista fascista che si riassume in un paradigma meramente strumentale. All’a. sfugge la natura intrinseca del totalitarismo, che necessariamente genera una modernizzazione determinata dalla vocazione alla mobilitazione permanente della società. Si spiega in questa prospettiva, ad esempio, la particolare attenzione del fascismo verso il coinvolgimento politico delle donne (p. 341). In confronto alla cospicua quantità di pagine dedicate a grezzi dati economico-sociali, colpisce l’assenza di un nodo importante nell’evoluzione del fascismo, come quello del razzismo e dell’antisemitismo, sfiorato del tutto incidentalmente (pp. 420, 422), e l’elusione di un personaggio come Capitini, mai citato. Appare poi del tutto inadeguata la definizione dello squadrismo come «indubbio elemento di democratizzazione politica» (pp. 198, 220): non si può scambiare la «democratizzazione politica» con la semplice ascesa sociale, al di fuori di ogni meccanismo democratico, di nuovi soggetti. Infine manca l’indice dei nomi, e molte collocazioni archivistiche sono indicate scorrettamente, non permettendo di controllare le fonti: ACS, MI, Direzione generale PS, Divisione affari generali e riservati, b., non rimanda a nulla (a titolo di esempio, pp. 20, 47, 59, 80, 110, 136-39, 148-59, 165, 337). Questo lavoro è quindi un’occasione persa, a cui l’a. potrà rimediare in futuro non attardandosi su polemiche superate.
Gabriele Rigano
Risposta a Gabriele Rigano
Mi corre l’obbligo, morale e professionale, di replicare alle considerazioni – non prive di inesattezze – apparse nella recensione al mio volume L’Umbria in camicia nera (1922-1943), contenuta ne «Il mestiere di storico», 2012, 2, p. 291, fruibile anche attraverso internet.
L’autore della recensione, Gabriele Rigano, mostra di non apprezzare il mio lavoro: lo considera uno studio di nessun valore e mi accusa di assumere «pienamente» il punto di vista fascista, tacciandomi di un uso acritico delle fonti fasciste e parafasciste (statistiche, fonti a stampa, ecc.). L’accusa – simile a quella che a suo tempo fu mossa a De Felice – mi pare fuori luogo: le (indispensabili) fonti del regime, di cui comunque a più riprese sottolineo l’«enfasi» (pp. 126, 143, 147, 355, 460 – nota 69 -) e la ridondanza (pp. 242, 360), sono per loro natura propagandistiche. Il dubbio sulla loro attendibilità, laddove non sia possibile il raffronto con altre fonti, chiaramente permane, ma lo stesso si può dire di tante fonti «ufficiali» (come, ad esempio, dei molti dati forniti dai prefetti nel 1920-21).
Al negativo giudizio di fondo, Rigano aggiunge una palese inesattezza quando mi accusa di non aver «mai citato» Aldo Capitini, di cui, al contrario, parlo alle pp. 261 e 262.
Rigano aggiunge poi che «molte collocazioni archivistiche sono indicate scorrettamente» e che l’indicazione «ACS, MI, Direzione generale PS, Divisione affari generali e riservati, b.» non rimanderebbe «a nulla», citando alcuni casi ad esempio. L’affermazione sembra perfino mettere in dubbio l’esistenza delle fonti da me citate. Fugato ogni dubbio sulla sussistenza di quelle fonti – la Sissco ha ricevuto le scansioni dei documenti d’archivio messi in discussione – resta, questa sì, una svista relativa alle citazioni del materiale rinvenuto all’ACS. In alcune note – su un totale di oltre 1500 -, per un mero errore materiale (prova ne sia la nota n. 272 di p. 286, corretta) non ho inserito il numero di serie del fondo. Cercherò di tenere nell’opportuna considerazione – come ci insegna Kipling – la notazione di Rigano e ne farò tesoro. Cionondimeno, il materiale esiste, lo si può ritrovare e consultare (impiegando appena un po’ più di tempo del consueto, risalendovi attraverso la data delle informative, sempre presente).
Nel complesso dispiace notare che in 600 pagine, dense di informazioni e fatti, Rigano non abbia trovato nulla – proprio nulla! – che meritasse un minimo apprezzamento (vista anche l’assenza di studi organici sul fascismo in Umbria). L’impressione è che la recensione sia stata scritta non per discutere, ma per demolire, in una sorta di caccia all’errore e all’imperfezione. Il rigore, è vero, conta molto. Ma le biblioteche, giova forse ricordarlo, sono piene di lavori formalmente ineccepibili eppure sostanzialmente inutili, che nessuno legge.
Leonardo Varasano
Risposta a Leonardo Varasano
Leonardo Varasano risponde alle mia critiche concentrandosi su due aspetti: l’utilizzo dei dati tratti dalle pubblicazioni fasciste per attestare la modernizzazione della regione nel ventennio e la correttezza delle citazioni archivistiche. Sul primo punto non è possibile limitarsi, come fa l’autore scomodando anche un grande storico, a sostenere che le fonti del regime sono «indispensabili» e che in fondo tutte le fonti sono viziate da parzialità, perché nelle incombenze del nostro mestiere c’è anche la critica documentaria. Per cui a fronte di un utilizzo massiccio di dati tratti da pubblicazioni di indubbio valore propagandistico, ci si aspetterebbe una adeguata discussione di queste fonti, e non qualche generica menzione sull’enfasi con cui i fascisti presentavano le realizzazioni del regime, seguita comunque dal disinvolto utilizzo delle stesse. In questo senso sostengo che l’a. «assume pienamente, tratta dalle pubblicazioni del regime, il punto di vista fascista».
Sul secondo punto l’a., prendendo atto della «svista» relativa alle collocazioni archivistiche sbagliate, tenta di ridimensionarne la portata. In realtà senza l’indicazione della serie, che l’a. omette sempre nelle citazioni della Divisione affari generali e riservati della Pubblica Sicurezza (con 86 serie), non si risale al documento. Probabilmente si tratta della serie G1, o delle categorie annuali, ma l’a. non ce lo dice.
Sbagliare è possibile, e il problema non è la «caccia all’errore e all’imperfezione». Anche a me è sfuggito il paragrafo su Capitini, e me ne scuso. A me sembra che sia l’impostazione di fondo ad essere scorretta, per tutta una serie di motivi (di valutazione e di metodo) che non menziono per non ripetermi: si trovano nella recensione.
Gabriele Rigano