di Iaia Vantaggiato
Ancora nell’occhio del ciclone il riordino dei cicli scolastici e, soprattutto, i nuovi programmi per l’insegnamento della storia: studio completo e cronologico dai dieci ai quindici anni di etý e approfondimento tematico riservato agli ultimi anni del ciclo secondario. Programmi globali, ma gestioni regionali, decentrate e, a volte, persino private
(da Il Manifesto, 24 febbraio 2001)
Chiamiamola nemesi, quell'”ipotetica giustizia che, attraverso la storia, colpisce nei discendenti le ingiustizie dei progenitori”. Mai definizione fu pi˜ appropriata perchÈ Ë stata proprio la storia – meglio, il suo insegnamento – lo strumento con cui generazioni intere di studenti hanno finalmente realizzato una assai sospirata vendetta. Chissý, forse sarebbero bastate le lacrime di qualche insegnante incapace di “tenere” la classe o magari, con un colpo di fortuna, quelle di un preside esasperato. Ma arrivare nientemeno che al ministro della pubblica istruzione, beh!, Ë proprio un gran bel colpo. Piange, infatti, De Mauro davanti a una platea napoletana di “maestri di strada”, si sente tradito e abbandonato dal governo, ingiustamente attaccato dalla stampa. Nell’occhio del ciclone, il riordino dei cicli scolastici (un ciclo di base che sostuituisce la vecchia scansione tra elementari e medie) e, soprattutto, l’insegnamento della storia. Due le proposte finora avanzate: la prima – quella che, a partire dal terzo e dal quarto anno del ciclo di base, prevedeva l’acquisizione degli strumenti necessari allo studio cronologico della storia da attuarsi, poi, negli ultimi tre anni dello stesso ciclo – Ë stata accantonata dopo essere stata fatta oggetto di critiche pesantissime.
Dunque, a sorpresa, una nuova ipotesi. Studio cronologico ripetuto due volte: negli ultimi quattro anni della scuola di base e nei cinque anni di quella secondaria. E le complicazioni non si fermano qui: nei primi due anni delle superiori, infatti, si riparte con la storia antica, greca e romana per riservare al solo triennio conclusivo uno studio tematico delle vicende storiche. Quello stesso triennio, peraltro, per il quale non Ë consentito l’obbligo scolastico. CosÏ che, anzichÈ andare verso una maggiore democratizzazione della scuola, si penalizzano quelli che la scuola sono costretti ad abbandonare. Come ha giustamente sottolineato Nicola Tranfaglia (la Repubblica, 17 febbraio) si riserva “lo studio delle coordinate cronologiche fondamentali soltanto a una etý preadolescenziale, lasciando alla successiva, che Ë quella pi˜ adatta e in grado di interessare pi˜ in profonditý i giovani, uno studio per temi e problemi che dovrebbe essere legato, e non disgiunto dalla conoscenza dei nessi cronologici”. Diversa l’opinione di Antonio Brusa del dipartimento di studi storici e sociali dell’universitý di Bari e membro della commissione: “quei quattro anni di lavoro (dai sei a nove) che abbiamo assegnato alla preparazione di parole, concetti e strumenti, sono fondamentali”. Non altrettanto si puÚ dire delle parole-concetti scelti – famiglia, gruppo sociale, regola – che se non rivelano quanto meno evocano un intento vagamente normativo e, va da sÈ, familistico. Quanto al lavoro sulle “societý concrete” di cui si parla nei programmi, varrebbe quanto meno la pena di chiedersi se mai sono esistite societý astratte. A chiarire il dilemma Ë un’altra parola-chiave ricorrente e nel riordino e nei programmi, integrazione: di storia, geografia e studi sociali. Ora, a parte il fatto che qualsiasi insegnante di storia Ë naturalmente portato a integrare, accostare, comparare (anche perchÈ si sfida chiunque a mantenere vivo, altrimenti, l’interesse degli studenti) la parola-chiave la dice lunga sulla possibile connotazione della commissione che appare pi˜ sociologico-pedagogica che non storica.
Intriso di buone intenzioni – una concezione della storia che privilegia la lunga durata, l’attenzione rivolta al costume e alle idee, l’approccio trasversale e decisamente globalista, l’importanza attribuita agli aspetti economici e sociali – il progetto di riordino dei cicli del quale fanno parte i nuovi programmi per l’insegnamento della storia rischia di naufragare nel grande mare dell’indeterminatezza, concettuale e cronologica. Nel quale perÚ, pesca che ti pesca, qualche piccola certezza Ë possibile trovarla. Concerne, guarda caso, la possibilitý di utilizzare una quota percentuale di ore per programmi locali – cosa si studierý in Padania e, soprattutto, in che lingua? – e quella di fare ricorso a sovvenzioni private. Non comunitý, ma piccole aziende fondate sull’etnia.
Niente di tutto questo, afferma Brusa, che definisce la “quota locale” una parte del curriculo che viene interamente programmata dagli insegnanti. “Non Ë detto che debba servire allo studio della storia locale ma a delineare percorsi formativi adatti alla particolaritý della classe. Questo perchÈ dal centro non Ë possibile prevedere tutte le necessitý formative di classi differenti. Attualmente – continua – il rapporto tra centro e periferia si stabilisce sulla base di un programma che l’insegnante adatta continuamente alla realtý. Da oggi il curriculo si limita a indicare una parte di conoscenze da raggiungere e lascia al docente la libertý di completarlo. E’ come se il docente venisse elevato al rango del legislatore”. Andare incontro alle necessitý formative della classe dovrebbe essere, comunque e a prescindere dalla legge, compito di un insegnante. Che, perÚ, nell’ebrezza del potere conferitogli dal suo nuovo ruolo di legislatore, potrebbe dimenticarsene.
Franco Barbagallo
“I nodi tematici tornano al pettine”
Non riesce a nascondere la sua irritazione Franco Barbagallo, docente di storia contemporanea a Napoli, nei confronti dei lavori della commissione di esperti sull’insegnamento della storia. CosÏ come a malapena cela la sua soddisfazione rispetto ai passi indietro che, proprio in questi giorni, sono stati compiuti dal ministro della pubblica istruzione.
Professore, nella sua prima versione, la relazione presentata dagli esperti relegava l’insegnamento della storia ai soli cinque anni intermedi dei nuovi cicli. Per intenderci alla quinta, sesta e settima classe del ciclo di base e al bienno della scuola secondaria.
Fortunatamente, questa ipotesi pare definitivamente accantonata. CosÏ come pare affossata l’idea balzana di riprendere lo studio della storia nell’ultimo triennio delle superiori sulla base di presunti nodi tematici, peraltro indicati dall’estensore della proposta in questa forma incredibile: “dalle immigrazioni attuali alla storia contemporanea”, “dalla Shoah al fascismo”.
Ironicamente la si potrebbe definire confusione temporale. E, tuttavia, ad esserne affetti sono, paradossalmente, proprio coloro che al tempo storico e alle cronologie dovrebbero prestare una qualche attenzione. E’ proprio contro i “nodi tematici” che molte delle critiche sono state rivolte.
Io non riesco a capire il significato di queste espressioni. Mi terrorizza il fatto che chi le ha pronunciate sia diventato, non si sa come, l’artefice di una proposta che in altri tempi fu preparata da studiosi come Croce e Gentile. Altre follie riguardavano la pretesa assimilazione di temi certamente rilevanti ma altamente specialistici come la migrazione bantu nell’Africa subsahariana, la colonizzazione dell’Oceania e gli imperi azteco e inca alle meglio conosciute vicende delle civiltý greca e romana, dell’Europa medioevale e degli sviluppi successivi delle civiltý occidentali. Sulla base dell’applicazione alla storia del concetto (e del processo attuale) di globalizzazione si Ë giunti a una sottovalutazione della nostra storia mediterranea e europea e si Ë finito per ignorare i risultati migliori della nostra tradizione storica: la libertý di pensiero, la riflessione razionale, la coscienza individuale, la comunitý politica dei cittadini.
Programmi globali ma gestioni regionali, decentrate e a volte persino private. Giý prevista dalla legge sull’autonomia, la quota di ore sottratta al “centro” e destinata alla “periferia” si fa sempre pi˜ alta.
Coloro che immaginano tematiche lontane come i Bantu e gli aztechi sottovalutano la possibilitý che le attuali tendenze etniche – diffuse in alcune regioni italiane – potrebbero invece condurre alla richiesta di approfondimento, per esempio, delle presunte origini celtiche dei padani. Non mi sembrerebbe un passo che va nella direzione di una visione “globale” della storia.
Cosa proporrebbe?
E’ auspicabile che si torni rapidamente a visioni pi˜ serie dell’insegnamento della storia e che si proceda a definire due corsi interi quinquennali, uno nella scuola di base e l’altro nel secondo livello dove l’intera storia – dall’antichitý sino al 2000 – venga studiata con i diversi strumenti concettuali propri delle diverse etý e che quindi, nel secondo livello, si approfondisca il carattere problematico della storia.
(I. Va.)
Scipione Guarracino
Tempi supplementari per la storia
Se per gli insegnanti di storia si profilano tempi non facili, per gli autori di manuali il futuro non appare certo pi˜ roseo. Placatesi le polemiche sulla faziositý e gli attacchi della destra contro l’egemonia “rossa”, ecco in arrivo una nuova bordata: nuovi programmi vuol dire nuovi manuali nei quali sistemare nuove periodizzazioni e nuovi nodi tematici. A gioirne non rimarranno che le case editrici. Ne parliamo con Scipione Guarracino autore, per l’appunto, di uno dei manuali pi˜ diffusi nelle scuole italiane.
Come giudica i nuovi programmi di storia?
La mia Ë un’opinione un po’ diversa rispetto a quelle che ho letto sui giornali anche perchÈ mi trovo in una situazione curiosamente intermedia. Avendo scritto libri di storia e di didattica della storia mi Ë capitato di frequentare, in passato, sia il versante pi˜ propriamente storico sia quello pedagogico-didattico. Tuttavia, ho l’impressione che da parte di storici e giornalisti ci sia stato come un pregiudizio sfavorevole nei confronti di programmi che, in fondo, partono da un’idea giusta: evitare la ripetizione degli stessi contenuti dell’insegnamento nel corso dei tre cicli (o, secondo il riordino, dei due) e riservare al ciclo delle superiori la teorizzazione di temi e problemi. Tutto questo Ë stato interpretato come un’autorizzazione per gli insegnanti a percorrere senza ordine e in maniera erratica qualsiasi argomento, dalla storia delle donne alla tecnica, dalla stregoneria ai computer.
Non crede che dietro la vaga espressione “temi e problemi” si nasconda realmente questo rischio?
Mi auguro che “temi e problemi” non voglia dire prescindere del tutto da qualsiasi ordine cronologico nÈ affrontare temi marginali. Alcuni nodi storici centrali possono essere affrontati nel rispetto di quell’ordine ma anche, va detto, con la consapevolezza di possibili sovrapposizioni. Non posso credere, del resto, che qualche insegnante decida di spiegare prima la classe operaia e poi la rivoluzione industriale.
C’Ë un modo per ovviare alla nebulositý che si nasconde dietro queste espressioni?
In una scuola superiore, per esempio, si potrebbe aggiungere – non sostituire – ai contenuti disposti in ordine cronologico, un momento di impostazione di problemi, di analisi di fonti, di proposte di ipotesi cosÏ mostrando agli studenti i passaggi logici che del lavoro dello storico ricostruiscono l’itinerario: dalle analisi alle teorie, dalle fonti alle spiegazioni. Altrimenti la storia resta legata alla memoria, alle emozioni, alle ideologie. Si tratterebbe di un momento storico supplementare importante.
Il riordino dei cicli e i nuovi programmi di storia rafforzano sempre di pi˜ l’impressione di trovarsi di fronte a una “scuola-azienda”.
Il rischio che l’autonomia venga male interpretata e che si possa creare confusione esiste. Per evitarlo bisogna lavorare sui programmi, unica base per una scuola massimamente democratica. Giý il precedente ministro aveva dato l’impressione di voler creare una scuola tesa tra futuro professionale e formazione. E cosÏ si sono creati due schieramenti: chi a favore della sola formazione, chi pronto a considerare la scuola come un servizio necessario a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro. Con Canfora e Tranfaglia – e contro l’impoverimento culturale della scuola – sono nettamente sfavorevole a una scuola che fornisca un servizio tecnico. PerchÈ, allora, non abolire l’insegnamento della poesia?
PerchÈ comincia con la “p” e non con la “i”: impresa, informatica, inglese.
Questa dei computer Ë un’altra fissazione venuta dai pedagogisti che ha forzato le impostazioni didattiche proprie degli anni ’80. E’ come se il computer, che peraltro i bambini imparano a usare in pochissimo tempo, sia diventato di per sÈ una forma di insegnamento e non uno strumento, quale esso Ë, e neanche tanto intelligente.
(I. Va.)
Simonetta Soldani
L’utilitý del presente cancella l’astrazione
Simonetta Soldani insegna storia dell’Italia contemporanea all’Universitý di Firenze. Si Ë occupata a lungo – attraverso saggi, mostre e convegni – di questioni legate all’istruzione femminile nella seconda metý dell’Ottocento. E pi˜ che parlare dei nuovi programmi di storia preferisce sottolineare l’operazione politica che essi nascondono.
Lei ritiene che i programmi previsti per il riordino dei cicli segnalino questioni di carattere pi˜ generale e, insieme, politico?
SÏ, il problema Ë pi˜ generale e non riguarda tanto – o non solo – la storia ma la costruzione di una diversa ipotesi formativa. Rispetto ai programmi, poi, il mio giudizio Ë assolutamente negativo: sembrano come rispondere a una idea tutta esaurita nel presente, nell’esperienza, nell’immediatamente utile. Quasi che per la storia, il passato fosse diventato ingombrante, non pi˜ una ricchezza per il presente.
E’, dunque, una logica aziendale e utilitaristica quella sottesa alla nuova riforma?
SÏ, ciÚ che conta Ë l’utile. Nei programmi si affaccia la centralitý delle tre “i” che sono continuamente presenti. Valgono solo le competenze immediatamente utili e questo lo vede persino nei programmi di matematica che sono, a mio giudizio, terrificanti. Si parla di pratiche quotidiane, di attivitý imitative finalizzate alle competenze di uso del sistema monetario, di giochi legati alle lotterie.
Esperienza pura, dunque, anche in un campo – come quello della matematica – in cui fondamentali sono l’astrazione e la speculazione.
Quella dell’esperienza Ë una preoccupazione continua. E c’Ë, soprattutto, la rinuncia alla costruzione logica del pensiero, all’astrazione appunto. CosÏ che il passato, non essendo immediatamente utile, non serve.
Il modo in cui Ë concepita la storia rivela, dunque, una precisa concezione del mondo. Se questo Ë vero, criticare quel modo di fare storia conduce a una critica di carattere pi˜ generale che tocca la societý, la politica, il mercato.
Se tutto deve essere pratico, empirico, spendibile in quale ottica Ë pi˜ possibile concepire la storia?
Con il riordino, una quota percentuale di ore viene dedicata a programmi locali e – talvolta – sponsorizzati dai privati. Che ne pensa?
Giý la legge sull’autonomia prevedeva questa quota e la fissava al 15%. Ora si Ë passati al 20% con la possibilitý di arrivare al 30%. Come a dire che su mille ore, ce ne sono trecento che possono essere dedicate, che so’, alla Padania oppure alle aziende. Si tratta di una decisione molto grave che delegittima i programmi nazionali e favorisce fenomeni di denazionalizzazione della scuola.
Sembrerebbe un cambiamento epocale. Soprattutto in un paese, come il nostro, che della storia ha fatto uno dei poli centrali della costruzione dell’identitý nazionale.
Ne va, in realtý, della storicitý della nazione italiana. E qui stiamo assistendo esattamente a una disintegrazione di questo aspetto del concetto di nazione. Sa cosa mi ha colpito molto? Che a Napoli De Mauro abbia citato Don Milani. CosÏ ho capito che per lui la vera scuola Ë come quella di Barbiana. Che, appunto, non era una scuola dello stato ma un vero e proprio servizio sociale. PerchÈ la storia non dovrebbe diventare, allora, semplice ancella delle scienze sociali?
(I. Va.)