Storiografia , riviste e reti: una transizione avviata ?
di Rolando Minuti
[rolando.minuti@unifi.it]
[convegno Sissco, venerdì 7/4/2000]
Sul fatto che le nuove tecnologie della comunicazione avrebbero determinato conseguenze rilevanti ed aperto un orizzonte nuovo di opportunità anche in ambito storiografico, e umanistico più in generale, con particolare riferimento a quel versante decisivo per la comunicazione scientifica che è tradizionalmente costituito dalle riviste, vi erano pochi motivi di dubbio sin da quando – i primi anni ’90 – il web si è presentato come il sistema di riferimento dominante della comunicazione, in ogni settore.
Non si è dovuto attendere, in altri termini, l’attuale esplosione del fenomeno internet, – con aspetti a volte francamente fastidiosi -, per capire che anche sul versante dello studio e della ricerca storica, internet avrebbe avuto implicazioni importanti. Quello che un erudito e filosofo della metà del ‘500, Johan Sleidan (Discorso agli stati d’Europa, 1542; citato da E.Eisenstein in un fondamentale studio sulle conseguenze della rivoluzione tipografica) testimoniava di fronte all’affermazione dell’universo tipografico, come apertura di una visione nuova sulle possibilità di sviluppo della conoscenza che si aprivano all’umanità, unita, cito, ad “un senso di stupore per la sua precedente cecità”, è facilmente riproducibile al rapporto che si pone per noi tra cultura e tecnologie della comunicazione, ma non è certo un dato che si possa legare allo sviluppo di questi ultimi mesi o di quest’ultimo anno.
Chi ha inteso sperimentare sin dalla metà degli anni ’90, come chi vi parla, le nuove opportunità che si aprivano per la comunicazione scientifica attraverso le riviste elettroniche – seguendo la traccia che in altri contesti culturali – il primo luogo, come sempre quando si tratta di nuove tecnologie, gli USA – si andava già praticando, e sull’esempio di quanto sul versante delle scienze matematiche, fisiche e naturali si stava facendo da anni, si è reso rapidamente conto di quanto significativi e rilevanti fossero i mutamenti potenziali.
E’ appena il caso di richiamarne sinteticamente i punti essenziali, senza insistere ulteriormente nell’illustrazione di aspetti che ormai sono ampiamente noti e sui quali c’e’ ormai una letteratura critica fin troppo abbondante. Le riviste elettroniche
- consentono una rapidità nella comunicazione dei risultati della ricerca incomparabilmente maggiore rispetto ai tempi mediamente lunghi – a olte insopportabilmente lunghi – delle pubblicazioni cartacee (aspetto delicato, evidentemente, soprattutto per le scienze fisiche, naturali, mediche; e non a caso sono questi i settori che prima e con più decisione si sono mossi nell’utilizzazione sistematica delle risorse della rete)
- consentono una circolazione incomparabilmente più potente rispetto alle possibilità consentite dalla circolazione dei volumi a stampa, potendo arrivare ad ogni terminale collegato alla rete
- consentono un’aggiornabilità e una modificabilità pressoché illimitata dei risultati della ricerca, una loro estensibilità (in termini di aggiornamenti bibliografici, di integrazione con documenti e testi, appendici multimediali, che difficilmente possono trovare spazio nelle pubblicazioni cartecee); un’interattività con gli autori, e l’apertura di tribune di discussione e di forum su temi specifici, collegati a specifici contributi
- consentono un contenimento sostanziale dei costi di produzione tipografica e dei costi relativi alla gestione (conservazione e accesso) delle riviste cartacee; problemi che, a fronte di una crescita dei costi di abbonamento alle riviste e dei problemi della loro gestione da un punto di vista bibliotecario, trovano sul versante dell’elettronica possibilità di soluzione particolarmente efficaci
Tutto questo, e il quadro delle illustrazioni dell’ “orizzonte delle possibilità” potrebbe essere evidentemente ancora più ampio, consentiva di prevedere, sin dai primi anni ’90, uno sviluppo forte delle iniziative in questa direzione, che se non avrebbe portato ad una rapida crisi del “castello di carta” che regolava e in certo modo imprigionava l’intero mondo della pubblicazione scientifica (come da molti, Michael Odlyzko e altri, si è andato subito profetizzando) avrebbe portato ad una sostanziale riconfigurazione dei termini, delle strategie, della pubblicazione.
Tutto questo in parte è avvenuto, soprattutto sul versante statunitense, ma non solo, in parte no, e sulle ragioni delle linee di sviluppo che hanno avuto successo e dei ritardi che ancora contrassegnano un adeguata utilizzazione delle nuove tecnologie vale la pena di fermare l’attenzione, per non cadere ancora una volta nelle trappole della visione manichea che, sin dall’affermazione del web, divide tecnoentusiasti da tecnoscettici, e per cercare di dare all’ordine dei problemi una lettura più critica, realistica, e forse più produttiva di risultati utili.
Si fa frequente riferimento, a questo proposito, al problema di una mentalità e di una consuetudine nella pratica della ricerca e della comunicazione storica che fanno fatica ad adeguarsi a mutamenti che si impongono nella transizione da un lavoro che ha una sua base di riferimento tradizionale e consolidata nel documento cartaceo ad una prassi che trova invece nel computer e nelle reti i propri strumenti essenziali. E si tende a vedere la risoluzione dei problemi in un progressivo, più o meno lento a seconda dei contesti, ma inevitabile adeguamento della prassi tradizionale che regola la ricerca e la pubblicazione alle nuove tecnologie, la cui evoluzione è più rapida, troppo rapida, rispetto ai tempi di un suo assorbimento – in termini di comportamenti e di attitudini – nel quadro tradizionale delle discipline storiche. Tutto questo è in parte vero, ma non consente, a mio avviso, una corretta considerazione del problema se ci si limita a quest’ordine di considerazioni generali.
In realtà, alla base anche di questa faticosa evoluzione di mentalità, stanno – soprattutto nel contesto italiano – problemi specifici e concreti; ed è indispensabile, a questo proposito, uscire dal riferimento generale al web per vedere più da vicino i problemi che caratterizzano le aree particolari, nazionali, della rete. Ed un primo problema che si impone con chiara evidenza, e che, se non giustifica lo scetticismo degli avversari dell’editoria elettronica, contruibuisce tuttavia a spiegarlo e a cercare con maggiore precisione vie di soluzione condivise e sicure, sta certamente nello statuto normativo ancora labile che regola la pubblicazione scientifica elettronica, con particolare riferimento alle pubblicazioni periodiche on-line.
Dove manca, com’e’ il caso italiano, un ordine di regole che definiscono il deposito legale delle pubblicazioni elettroniche fruibili on-line, dove non sono chiari, conseguentemente, termini legali relativi al copyright, all’archiviazione delle pubblicazioni on-line e alla responsabilità della loro gestione, è evidente che lo scetticismo nei confronti delle pubblicazioni elettroniche rispetto alle pubblicazioni cartacee – che hanno alle spalle un quadro ed una tradizione normativa consolidata e riconosciuta – sia destinato a perdurare e ad ostacolare lo sviluppo di nuove esperienze. Che questa lacuna sia un fatto reale ci sono pochi motivi di dubitare. La revisione, lungamente attesa, della legge del 1939, sul deposito legale delle pubblicazioni, e la sua sostituzione con una normativa più adeguata ad una realtà delle comunicazioni ( ma soprattutto ad una realtà sociale, civile e culturale radicalmente diversa rispetto ad una normativa che era sostanzialmente motivata da esigenze di polizia e di controllo ) non si è ancora tradotta in termini di legge; e , quel che più è degno di nota, il disegno di legge in discussione [n. 3610] che probabilmente sarà approvato e che costituisce certamente un contributo di civiltà, possiamo ben dire, della legislazione italiana in rapporto alle altre legislazioni europee – spostando sul versante della conservazione dei beni culturali quello che nella legge del 39, come dicevo, era un problema di polizia – non prevede regole, ed anzi esclude esplicitamente dalla normativa, le “basi di dati on line”, configurandosi già in ritardo, nel momento in cui sta per essere approvata, rispetto ad allo stato attuale, non al futuro, della comunicazione.
E ancora, su questa linea, la recentemente istituita Autorità di garanzia per le comunicazioni, che prevede la compilazione di un Regolamento unico degli operatori di comuinicazioni e di un relativo Registro degli operatori, indispensabile, per esempio, per accedere alle fonti di finanziamento governativo previste per le pubblicazioni periodiche di riconosciuto contenuto culturale, non ha ancora previsto l’estensione di questo registro alle pubblicazioni periodiche elettroniche, probabilmente in relazione alla mancanza di norme precise sul deposito legale, di cui si diceva prima. Tutto questo, e nonostante il fatto che per alcune testate elettroniche sia concessa la registrazione legale dalle cancellerie dei tribunali, costringe le riviste elettroniche ad uno stato di semi-clandestinità, che ha delle ricadute rilevanti, sul piano del riconoscimento dei “titoli” pubblicati in forma digitale, sul piano dell’accesso alle risorse e via dicendo.
Certo il riconoscimento scientifico della comunità internazionale, che utilizza sempre più direttamente documenti elettronici, anche in ambito storiografio, spinge sempre più verso questa equivalenza, ma dove ciò non si incontra con un quadro di riferimento normativo chiaro le ambiguità e le difficoltà sono destinate a perdurare; determinando per esempio il mantenimento dell’editoria elettronica in una dimensione di affiancamento ancillare rispetto all’editoria cartacea ( i pre-print, le edizioni elettroniche successive all’ed. cartacea, dove le norme di copyright e l’accordo con gli editori lo permettono, e via dicendo), ma non come come sostitutivo, per cui prima si dovrebbe avere il documento elettronico – depositato e archiviato secondo procedure riconosciute e condivise – poi, quando si ritiene necessario e nelle forme che si ritengono opportune, le versioni cartacee.
In altri termini, per chiudere su questo aspetto del problema, su cui mi è capitato altre volte di fermare l’attenzione, è intorno alla definizione di un quadro di regole che, a mio parere, è possibile definire i termini di un progressivo e sicuro mutamento di costume, di mentalità, di comportamenti accademici e via dicendo; altrimenti rimarremo ancora a lungo invischiati nelle disquisizioni teoriche sul materiale ed il virtuale, che seppure interessanti da altri punti di vista, non aiutano molto a trovare soluzioni concrete che consentano di utilizzare in modo serio e adeguato le opportunità che vengono dalle nuove tencologie. La transizione dal cartaceo al digitale, anche in ambito storiografico, passa in misura rilevante a mio parere, oltre che dalle opportunità e dalle promesse della tecnologia, sui cui torneremo più avanti, anche da questi elementi.
D’altra parte, se quanto detto spiega, almeno in parte, difficoltà e incertezze nell’affermazione delle nuove riviste elettroniche – e almeno in parte, giustifica il fatto, apparentemente incomprensibile, che, in una realtà già profondamente orientata verso la rete, nuove riviste cartacee continuino a nascere – rende più difficile spiegare, anche in Italia, perché sia tanto difficile e complicata la realizzazione di progetti volti a rendere fuibile in-rete quello che è già disponibile in cartaceo. Non occorre neppure richiamare, in questa sede, il fatto che poter disporre di indici, di abstracts e dei testi integrali, recuperabili per parole chiave, di tutte la annate di riviste importanti costituisca un aiuto formidabile per lo studio e la ricerca. E sarebbe auspicabile che, per portare qualche esempio noto ed eclatante, quanto fatto negli Usa con JStor (che offre l’accesso full-texts alle collezioni complete di un numero rilevante di riviste importanti, di cui oltre una decina di argomento storico) o con il progetto MUSE della Johns Hopkins University (circa cento riviste umanistiche, nell’ultimo aggiornamento di marzo, fruibili integralmente in rete), potesse essere fatto anche da noi, con una banca data delle più importanti riviste della tradizione storiografica nazionale, per esempio. In questo caso la questione non è delle nuove regole, ma riguarda una decisione più generalmente politico-strategica – che investe gli atenei, le strutture biblitoecarie, i singoli soggetti del mondo editoriale – che richiede un reindirizzamento di risorse verso queste iniziative, o un potenziamento dell’investimento per queste iniziative, che perlatro determinano, come nel caso di Jstor, un ritorno economico rilevante.
Opportunità e potenzialità delle nuove tecnologie per la storiografia e per le riviste, si diceva. Il problema è certamente assai vasto e complesso, ma un dato è forse opportuno richiamare, in relazione sioprattutto all’euforia tecnologica di questi ultimi tempi e come elemento di riflessione utile per un inquadramento corretto dei problemi.
Il problema, alla radice, osservando solo il versante tecnologico – e configurando i problemi della scrittura e della comunicazione storiografica in termini di puro e semplice adeguamento ad un’evoluzione tecnologica intesa come soggetto trainante e naturalmente progressivo -, potrebbe essere posto in questi termini: ha ancora un senso la nozione di rivista storica? ha ancora un senso la funzione dell’editore di rivista, storica o d’altro tipo?
E’ un problema che puo’ essere esemplificato in modo immediato pensando al fatto che concretamente posso delegare ad un software il compito di scandagliare la rete (banche dati, mailing-lists, newsgroups etc.) alla ricerca di testi e documenti che interessano un particolare argomento; posso dire a questo software di organizzare tutto il risultato della ricerca in una struttura ordinata, di tradurla nel formato di visualizzazione che preferisco, di impaginarla (magari con un titolo: contributi recenti alla ricerca su questo argomento). Alla fine, se proprio sento la mancanza del contatto con la carta, posso affidarmi ad una delle meraviglie della tecnologia contemporanea, che ha il nome per esempio di Xerox-Document-Binder-120 – o simili – ed avere, da un lato, un imbuto in cui faccio confluire l’informazione elettronica, e dall’altro una porta da cui esce un libretto o librone, stampato sulla carta della qualuità e del colore che preferisco, con i caratteri che preferisco, con la rilegatura che preferisco.
Bene, quando ho fatto tutto questo – confesso di non aver fatto la prova, ma una discreta letteratura critica mi dice che questo non solo è possibile ma è praticato, per molti tipi di documentazione – che cosa ho ottenuto? ho ottenuto un oggetto in cui trovo una quantità di roba inutile, per la mia ricerca, inverosimile; una quantità di parole, discorsi, interventi, che dovro’ impegnarmi faticosamente a tagliare e a selezionare per ricavarne quelle due o tre cose, se mi va bene, utili a farmi fare un passo avanti reale in quello che sto facendo. Alla fine avrò verificato che quelle due o tre cose utile vengono da riviste, o banche dati, che prevedono un sistema di controllo scientifico e non sono contenitori indistinti su cui lavorerà un motore di ricerca.
Teniamo presente che un motore di ricerca, qualsiasi motore, è mediamente stupido; mi viene sempre in mente a proposito dei motori di ricerca, su cui si affanna l’industria del software con investimenti di risorse rilevantissimi – ma per problemi che non sono in primo luogo quelli della ricerca umanistica, ovviamente – il proverbio cinese che dice “quando il saggio indica il cielo lo sciocco guarda il dito”. Ebbene il motore, qualsiasi motore, ha sempre la formidabile vocazione a guardare il dito, che in termini informatici, è il tag testuale presente nei siti web, che indicizza temi, soggetti, argomenti, autori; ci da molte indicazioni, ma nessuna che faccia riferimento alla qualità e al contenuto, con effetti di confusione e di “risposta indesiderata” che possono anche essere clamorosi e che sono sistematici. Nessun motore è in grado di dirci: questo è buono, questo è cattivo, questo è scientificamente serio, questo no. Questo è un lavoro che dovro’ fare io (o un comitato di lettori, di analizzatori, di “studiosi” in una parola), ed è un lavoro tanto più difficile e penoso quanto più la risposta informativa che mi viene dai motori risulta, apparentemente, ricca e abbondante.
E allora vale richiamare una verità che può apparire banale: una rivista storica, cartacea o elettronica, non è solo il veicolo, definito da un certo stadio dell’evoluzione tecnologica, di documenti e ricerche che si distinguono dai libri essenzialmente per la loro dimensione (mediamente più corti, a parte casi mostruosi), o per il fatto di intervenire più direttamente su questioni e problemi storiografici correnti (attraverso recensioni, note, discussioni, rassegne); una rivista storica è solo in parte questo, ma in parte assai più rilevante, dal punto di vista scientifico, è, deve essere, il risultato di strategie di selezione e di organizzazione della ricerca, il risultato di un “programma culturale” che rivela una responsabilità e in ultima analisi una decisione (cosa pubblicare cosa non pubblicare, in che direzione sollecitare interventi e collaborazioni, su quali temi far convergere, sollecitare l’attenzione, e via dicendo); responsabilità e decisione che sono, in ultima analisi, l’esercizio dell’ autorità scientifica, ed il fondamento della credibilità, della riconoscibilità, dell’utilità per la comunità scientifica, di una rivista.
Occorre allora evita di vedere nella tecnologia, nel suo stadio attuale e nei suoi sviluppi l’ intero ordine dei problemi, con l’illusione aggiuntiva, sulla quale sarebbe il caso di cominciare ad essere più critici di fronte ad un trend dei mezzi di comunicazione di massa che sta diventando, sotto la spinta evidente di interessi concreti, un senso comune accettato tanto acriticamente quanto acriticamente era accolta, fino a qualche tepo fa, l’idea che internet fosse un giocattolo portatore di effetti negativi, criminosi, perversi etc.; l’illusione cioè che in internet si trovi tutto e basti solo cercarlo, che il vecchio mondo della cultura è già travasato nella rete ed ha solo bisogno di navigatori e di mappe – da qui il grande business dei portali – per essere recuperato. Sono illusioni, sulle quali ha posto bene l’accento Salvatore Settis a proposito del problema più generale dei beni culturali digitali e che ben possono essere riproposte anche per la cultura storica; in internet non si trova affatto tutto, e quello che si trova è assai eterogeneo e assai debolmente regolato da standard condivisi; la transizione dal cartaceo, dal materiale, al digitale è certamente in corso, ma ha un bisogno estremo di avvedutezza critica e di responsabilità.
Da questo punto di vista, allora, per tornare al tema delle riviste storiche, la natura e lo scopo del lavoro di un editore di rivista elettronica, come ha scritto bene Michael Grossberg, autorevole editore della AHR in un intervento su Perspectives on-line, il giornale della AHA presieduto da R.Darnton, non cambia affatto rispetto al lavoro di una rivista storica tradizionale: selezione, controllo, strategia culturale, gestione di un sistema di peer-review = verifica di qualità da parte della comunità scientifica. I compiti sono e restano questi, non sostituibili da alcun motore, ma diventano certamente più delicati e più impegnativi. E allora, per tornare alla domanda prima richiamata, la necessità e l’utilità delle riviste storiche, di nuove riviste storiche elettroniche o di una nuova versione elettronica di più antiche e consolidate riviste storiche; non solo questa esigenza non è diminuita, ma si è molto accresciuta così come la responsabilità ed il ruolo dell’editore di riviste elettroniche risultano esaltati. E questo anche per un altro motivo che si impone nella sua evidenza: ciascuno con la rete – è un fatto universalmente noto – può essere l’editore di se stesso, può proporre i propri lavori, i propri studi, le proprie cose, della più varia natura, ad un pubblico di lettori planetario, senza bisogno di intermediari (editori, stampatori, comitati scientifici etc.) e, a questo punto, senza particolari spese per l’uso delle risorse di rete. Se questo “effetto democratizzante” indiscutibile della rete, come dice Grossberg, deve essere mantenuto, come fatto positivo e non come residuo negativo inevitabile, è anche chiaro che la funzione dell’ intermediario, non più obbligata per ragioni tecniche o economiche, torna ad essere essenziale e ancora più delicata e urgente in termini di responsabilità culturale. Scegliere, selezionare e accettare certi contributi alla ricerca come corrispondenti ad uno standard condiviso di qualità – alla “scienza normale” per usare termini kuhniani – risulta fondamentale, non più in termini di inclusione-espulsione ( e condanna alla non visibilità, alla non leggibilità, come nella realtà regolata dalla carta ), per ragioni che possono anche essere extra-scientifiche, ma in termini di verificabilità, di confronto, di necessità di aggiornamento; il livello della responsabilità ne risulta evidentemente accentuato per il semplice fatto che l’esclusione di contributi che possono avere una forte dignità scientifica e che possono comunque essere letti e valutati, al di fuori di sistemi di selezione, espone gli organizzatori di cultura che si muovono nella rete (e gli editori di riviste sono componente importante in questo quadro) ad una verifica di credibilità. Quando una rivista elettronica, che ambisce ad uno status scientifico, si rivelasse non in grado di rispondere a questi requisiti, non saranno più sufficienti le cornici, accademiche, istituzionali, associative, la tradizione stessa, a decretarne il successo; semplicemente sarebbe meno letta – gli analizzatori di accessi danno un contributo interessante a questo riguardo – e sarebbe marginalizzata inevitabilmente. Tutto questo implica ovviamente anche un problema delicato di “power relations” che risulta necessariamente riconfigurato con la rete, e che investe direttamente anche l’organizzazione della ricerca universitaria; troppo complesso per essere affrontato in questa sede.
Per concludere. La transizione dal cartaceo al digitale è chiaramente avviata anche per le riviste, ce lo dicono le statistiche, lo sviluppo delle iniziative, i programmi avviati; ma perché questa transizione si attui pienamente nella maniera auspicabile per chi fa ricerca storica è indispensabile, da un lato, vedere gli ostacoli normativi, molto concreti, che si frappongono ad un suo compimento, dall’altro concepire l’intero processo non semplicemente come un adeguamento ad un tecnologia che segue un suo corso naturale e inarrestabile, e alla quale ci si deve semplicemente e ciecamente adeguare, ma come un diverso e più complesso scenario della responsabilità scientifica in cui la componente tecnologica (informatica) e la componente culturale, storiografica nel caso specifico, dovranno sempre più procedere in maniera affiancata, nello scenario – che mi sentirei di definire, per vizio professionale, neo-illuministico – di una nuova consapevolezza critica di ciò che le nuove tecnologie sono in grado di offrirci e degli obiettivi che ci poniamo mediante il loro uso.