Luciano Cafagna
La Collana degli Archivi di Stato
Rivoluzioni.
Una discussione di fine Novecento
a cura di D.L. Caglioti e E. Francia
1. Comincerò con dei rilievi di carattere generale sul modo in cui la rivoluzione appare ai francesi della prima metà del secolo XIX. La «rivoluzione» – per questi – è una ossessiva presenza sociale, un convitato di pietra nella vita di tutti i giorni. Ma lo è, in maniera abbastanza nettamente distinta e distinguibile, a tre diversi livelli, o, se si vuole, in tre dimensioni diverse.
E’, in primo luogo, il grande movimento dei tempi nel senso del mutamento dell’economia, della cultura, dei costumi, delle istituzioni, qualcosa di lunga lena, e dunque non un mero evento, ma mutamento con effetti di lunga durata, benché di portata e velocità che – si riteneva generalmente – non si fossero mai viste prima. In questo senso, ad esempio, già i contemporanei cominciavano a usare l’espressione «rivoluzione industriale» per indicare il processo di mutamento che si andava svolgendo nell’attività produttiva manifatturiera. Ma la civilisation di Guizot, in ambito più ampio e indeterminato, è un processo, formalmente parlando, della stessa natura. Se anche l’autore ne tratta come movimento secolare, la sua recente accelerazione è indubbia, ed è questa a dargli visibilità e forza di scansione.
In secondo luogo la «rivoluzione» è minaccia, «spettro che si aggira per l’Europa». E non come utopia, ma come virtualità effettivamente incombente. Come atteggiamento diffuso e reale propensione degli spiriti. E’ – vale a dire – rivoluzionarismo, spirito rivoluzionario, inquieto e inquietante, volontà di sovversione presente nella società: e quindi, in questa sua presenza nella società, non é – sotto questo profilo – mutamento graduale e in atto, ma annuncio o attesa di mutamento radicale. Speranza o sogno per taluni, o «fuoco nella mente», e, invece, incubo, timore di sovversione dell’ordine sociale e politico, per altri. Perciò, nella realtà sociale, questo diffuso atteggiamento, che è di per sé stesso un dato di fatto fra gli altri, non è però il costruttivo, ancorché discusso, mutamento della prima prospettiva di cui ho detto prima, ma irrequietezza, instabilità, insicurezza. Quella insicurezza profonda del futuro che caratterizza quei decenni, come pochi altri della storia; generazioni che hanno visto distruggere un mondo di certezze ovvie e sono ora divise fra idee di restaurazione «ultra», idee di nuove e ulteriori rivoluzioni, idee di piste nuove e ignote di graduale progresso. Gli stessi «lumi», per chi li caldeggiava, alzavano una luce su un mondo oscurato ma certo; il «progresso», invece, manifestandosi concretamente, spiazza la terra sotto i piedi.
E veniamo al terzo livello. La «rivoluzione» – almeno fino al Quarantotto – è memoria di un evento: l’evento «Ottantanove», ma non come evento sotterrato, bensì come grandiosa vicenda che domina ancora i tempi, con la quale la memoria storica deve fare i conti, perché sa che il presente ne dipende per grandissima parte; e ciò sia in quel che di questo presente si accetta, sia in quel che se ne rifiuta.
Forse l’idea stessa di «memoria storica» (se non la puntuale espressione), come parte del senso del presente – «memoria storica» nel senso di indispensabile resa dei conti critica con un passato vivo – nasce proprio in relazione all’Ottantanove. Tutto ciò è vero soprattutto per i francesi, ma non lo è soltanto per loro. Il problema è quello, posto da molti filosofi dello storicismo, per esempio da Gadamer, con la sua formula della «seconda esistenza» di un evento storico: la «seconda esistenza» sarebbe quella che (come un’opera d’arte) vive nello spirito dei suoi esegeti, e che è diversa dalla prima, perché contiene cose e problemi – per esempio preoccupazioni e illusioni – che la prima non conteneva, non poteva contenere o che conteneva in modo diverso. Si può forse aggiungere che la «seconda esistenza» di un evento, quando questo è recente e ancora incombente, è qualcosa di particolare. Noi ne abbiamo esempi vicini con i nostri propri casi di «passato che non passa», di vicende che riflettono epocalmente la sindrome di Antigone. In certa misura questa terza dimensione – nel caso dell’Ottantanove, cioè, per gli uomini del primo Ottocento – ha relazioni con la seconda da me prima distinta, quella delle speranze e dei timori neo-rivoluzionari proiettati nel futuro, e questa relazione si riflette nella perdurante ripetizione, che continua a lungo nell’Ottocento, dell’imperativo barnaviano «terminer la révolution» che si ripete nella convinzione paradossale che, ancora decenni e decenni dopo, «la révolution n’est pas encore terminée».
Oltre alla inquietudine rivoluzionaria o al timore per la inquietudine rivoluzionaria, dunque, quel che si impone alle coscienze dei francesi del tempo è proprio un preciso giudizio culturale sullo specifico evento dell’Ottantanove e seguenti, come parte essenziale, si potrebbe dire, dell’autoriconoscimento di una identità francese.
2. Questi tre livelli del tema «rivoluzione» li troviamo – tutti e tre – in Tocqueville, la cui meditazione è un po’ il punto di massima condensazione di questo travaglio delle menti, nel senso che conclude una fase di riflessione – riprendendo molti elementi di ragionamento avviati da altri, che per lo più non cita – e si pone, per molti aspetti, come punto di riferimento di quelle successive, anche quando, qui pure, i riconoscimenti non saranno espliciti.
Il primo livello – il mutamento di lunga durata proprio dei tempi – è presente nella sua visione della grande «rivoluzione democratica» che domina il tempo vissuto dalla sua generazione, un mutamento macroscopico che viene da lontano e va lontano. Di questa visione – sentenziosamente riassunta nella prefazione alla Démocratie en Amerique con toni da filosofo della storia – è impregnata tutta l’opera tocquevilliana. Essa è il modo in cui Tocqueville recepisce e modifica la lezione guizotiana della civilisation. Questo approccio tocquevilliano alla modernità è quasi come una interpretazione dinamica e consequenziaria dell’egualitarismo cristiano, da lui inteso come una forza che spinge e sommuove i tempi e la cui marcia può ammettere magari pause o incidenti ma è irreversibile. Nella sua semplicità questa visione tocquevilliana a me è sempre parsa di una suggestione straordinaria.
Il secondo livello lo si trova, in Tocqueville, nella singolarissima sua concezione di uno état social del tutto particolare, quale sarebbe l’état révolutionnaire, una condizione della società magmatica, di non-assestamento, si potrebbe dire, dotata di fisionomia propria, che non è né il sistema dei rapporti sociali dell’aristocrazia né quello della democrazia, intese, queste, come «stati sociali», forme della convivenza sociale, assetti della società determinati, o «tipi ideali» di riferimento delle concrete società del tempo da Tocqueville visitate o osservate. Si stenterebbe a considerare questo état social anche come uno stato di «transizione» – come si tende spesso a fare in questi casi – perché la sua peculiarità è proprio l’indugiare cronico nella instabilità e non il tendere verso qualcosa di finalmente diverso e di finalmente stabile. Non a caso, proprio in quegli anni, del resto, altri coniarono la formula, poi diversamente fortunata, della «rivoluzione permanente». Se nell’idealtipo democratico si inquadra la società americana e in quello aristocratico non solo le società di ancien régime, ma anche la società inglese, questo idealtipo instabile inquadra come esempio maggiore – Tocqueville lo dice esplicitamente – le società sudamericane.
Tocqueville, lo sappiamo, aveva una forte mentalità comparatista, i suoi viaggi erano osservazione comparativa. Lo si potrebbe definire un «comparatista itinerante». Ed egli sapeva istintivamente che per comparare bisogna usare degli schemi, dei modelli di riferimento strumentali che consentano di registrare similitudini e differenze. Il suo problema, andando in America, era di cercare di capire cosa fossa la democrazia e se questo peculiare état social fosse quello stesso che pareva stesse affermandosi in Francia. No, non era così: quello americano era un vero e proprio état social democratico; quello francese, no. Quello francese era un état social magmatico. La sua diagnosi era che le cose, per quanto riguardava la Francia, stessero così perché la rivoluzione aveva rotto il vecchio equilibrio centralistico-aristocratico (del resto ormai bacato per via della stessa centralizzazione cortigiana dell’aristocrazia) producendo un centralismo rivoluzionario – dunque non un vero e radicale mutamento – un centralismo rivoluzionario sostanzialmente squilibrato e squilibrante, costretto alla oscillazione fra anarchia e dittatura, perché privo di articolate radici nella società.
La nozione di état social una nozione di antropologia culturale politica – diremmo noi – è stilisticamente à la Montesquieu. Tocqueville la prese da Guizot, come del resto la nozione di «classe», anche questa da lui molto utilizzata. A queste nozioni egli conferì una torsione montesquieuiana. Lo stile di ragionamento di Tocqueville è, infatti, principalmente modellato – come tutti sanno – su Montesquieu. Royer Collard per primo glielo riconobbe esplicitamente ed è giudizio che è stato molte volte ripetuto. Ma l’influenza di Guizot – personaggio che Tocqueville non amava come politico, e che quindi aveva doppia ragione, oltre alla inveterata abitudine di non citare mai, per non citarlo – l’influenza di Guizot, dicevo, su Tocqueville, non è da sottovalutare. Per esempio, né Lamberti né Anna Maria Battista – gli studiosi tocquevilliani che più hanno analizzato questo suo concetto, sembrano essersi accorti della derivazione guizotiana. Invece Guizot – sia detto en passant – fu una miniera di concetti, idee, ispirazioni cui attinsero a piene mani le generazioni della prima metà dell’Ottocento. Vi attinsero senza che – si potrebbe dire – ciò desse nell’occhio, perché lo stile di ragionamento guizotiano era soffice, discorsivo, usava prolificamente i concetti senza attardarsi a definirli, e non ci metteva sopra nessun copyright. I corsi guizotiani sulla civilisation in Francia e in Europa li aveva seguiti o letti tout le monde. Anche Tocqueville. Così non c’era neanche bisogno di citarlo, Guizot, quasi come noi non sentiamo il bisogno di citare i libri di lettura delle elementari sui quali abbiamo imparato a leggere.
Cosa è l’état social tocquevilliano? Ėtat social – per Tocqueville – è qualcosa come il sistema di valori che regola i comportamenti relativi dei gruppi sociali e il funzionamento delle istituzioni, insomma i rapporti interattivi e culturali fra le classi. Le classi sociali di paesi diversi – la Francia o l’Inghilterra – possono essere le medesime, se considerate astrattamente e formalmente come classi, ma i loro comportamenti relativi e le loro interazioni, corrispondendo a culture diverse, e calandosi in contesti istituzionali e culturali diversi, danno luogo a un insieme di convivenza sociale diverso, con diversa compenetrazione di un proprio ruolo sociale in ciascun gruppo, con aperture o chiusure reciproche diverse verso gli altri, diversa disposizione alla deferenza o, per contro, al rispetto, diversa propensione ad aspirare a una mobilità verticale, o, per contro, ad accettarla; e, ancora, diversa tentazione o speranza di sovvertire le posizioni, e così via. Grosso modo è questo che Tocqueville chiama état social di un paese.
Semplificando potremmo dire che nell’état social della Francia post-rivoluzionaria, Tocqueville non ravvisa né una convivenza basata sul rispetto, propria della democrazia, né una convivenza basata sulla gerarchia aristocratica e sulla deferenza. Da questo punto di vista è come se egli – senza menzionare esplicitamente quelle idee dei suoi coetanei – registrasse, sin dalla metà degli anni trenta del secolo, l’insuccesso della prospettiva capacitaire, la prospettiva dell’élitismo borghese di Guizot e dei dottrinari, prospettiva che si illudeva sulle capacità del principio della rappresentanza a suffragio ristretto di produrre una legittimazione meritocratica.
Gli anni dell’état révolutionnaire tocquevilliano sono quelli in cui si manifestano i movimenti di lavoratori che si coniugavano con la espressione di idee e istanze socialiste, annunciatisi in Francia nel 1831-32, ricomparsi alla vigilia del ‘48, esplosi in quell’anno. Tocqueville ne avvertì subito la dimensione con le sue antenne. Ma, come è stato giustamente osservato da Coldagelli, per l’autore della Démocratie en Amerique , «le idee socialiste non presentano un vero interesse conoscitivo, non essendo che il portato residuale dell’avanzamento inesorabile verso l’eguaglianza». Per Tocqueville erano dettagli, in questo caso, e contavano poco. Quel che interessava a lui era la registrazione di ciò che potremmo chiamare un simbolo vettoriale delle grandi tendenze dei tempi e della storia. E quest’atteggiamento, del resto, per la relazione oggettiva che passa tra i due ordini di fenomeni, possiamo anche collegarlo a quello analogo che si esprimeva nel suo scarso interesse per il fenomeno dello industrialismo, anche se questa limitata attenzione fu accompagnata da qualche acuta notazione sulle nuove gerarchie che parevano derivarne.
Il fatto che andrebbe rilevato, tuttavia, più di quanto di solito non si faccia, è che la realtà sociale del tempo – e in gran parte di quello successivo – si articolava sostanzialmente in tre grandi forme di insediamento, assai diverse fra loro, negli effetti e nelle conseguenze: quella tradizionale delle campagne e dei villaggi, quella dei nascenti agglomerati industriali, e quella delle grandi città, particolarmente delle città-capitali. Avere sottovalutato le implicazioni di questa terza componente (che invece non era sfuggita agli osservatori del secolo XVIII) ha portato spesso – nella valutazione concreta della natura della società che si stava formando, dei problemi sociali e delle loro implicazioni politiche – a degli schematismi dualistici, schematismi che si sono poi potuti coniugare con l’ottica di una struttura concettuale assai forte, e straordinariamente prestigiosa, come quella marxiana.
Tocqueville, con l’intuito antischematico che ne fa il merito, distinse invece nettamente queste diverse realtà, e, in particolare, quella fra la concentrazione cittadina e l’agglomerazione produttivo-insediativa di tipo industriale. Non voglio dire affatto che l’avere emarginato nella propria attenzione l’industrialismo e le città industriali non sia stata una sua seria lacuna (lui stesso, del resto, considerava anche gli scritti che aveva dedicato al pauperismo e alla questione sociale come insoddisfacenti). Ma l’avere considerato distintamente, rispetto a tutto questo, la realtà sociale di una città come Parigi, ritenendo questa realtà funzione – anche nei suoi problemi sociali – non dell’industrialismo ma dell’accentramento politico – il grande tema che verrà da lui ripreso nel lavoro sull’Ancien Régime – fu certamente, invece, un atto conoscitivo fecondo. Se si bada a questo, si può comprendere anche come la sua visione non economico-sociale e, invece, piuttosto socio-culturale del socialismo parigino, come estremismo egualitario, avesse un suo preciso senso: quel socialismo era davvero, infatti, espressione convergente di una cultura intellettuale, di ben note origini, da un lato, e, dall’altro, di una cultura delle relazioni sociali che tendeva a conservare, nell’état social della Francia protesa verso la democrazia, il rispetto delle distanze sociali; a conservare il rifiuto – cioè – di quella «eguaglianza di rispetto» – sostanza di quel che lui chiamava «eguaglianza di condizioni» – che aveva folgorato il viaggiatore francese in America, come la grande differenza fra democrazia americana e democrazia francese, la base stessa della costruibilità di una democrazia-con-libertà. Mi si consenta di ricordare, a tale riguardo, come efficace rappresentazione letteraria tipizzante di questa lacerazione culturale francese, persistente addirittura a livello del rapporto aristocrazia-borghesia, l’Americano di Henry James, romanzo del 1877 e che è, a mio avviso, quasi il sociologico viaggio tocquevilliano alla rovescia, il viaggio del borghese Christopher Newmann in Francia. Il personaggio jamesiano è un ricco signore il quale esige vanamente, nel mondo aristocratico parigino, un «rispetto», una pari dignità, che gli viene invece negata.
E quindi va sottolineato, secondo me, che l’immaturità culturale della situazione, da questo punto di vista, è, nella logica tocquevilliana, a doppia faccia: i protagonisti di questa immaturità culturale – tipicamente francese – nel grado di evoluzione dei moeurs, rispetto all’avanzata della «rivoluzione democratica», sono tutte le classi sociali, per troppi aspetti ancora dentro i comportamenti sociali, le forme di relazione del vecchio regime. Del vecchio regime, infatti, in un certo senso, l’abnorme Parigi stessa è un residuo non rigenerato. Lo straordinario capitolo sul padrone e il servo nella parte III della seconda Démocratie, quella del 1840, sta a testimoniarlo. E’ un tema da sviluppare a parte, ma è qui, in queste convinzioni relativamente al reale état social della Francia del tempo, che deve essere ricercata, a mio avviso, la ragione più importante della complessa diffidenza tocquevilliana verso il suffragio universale come via d’uscita dalla crisi francese, che, a qualche studioso, è apparsa poco comprensibile.
E veniamo ora a quello che ho classificato come il terzo livello della presenza del problema della rivoluzione nei contemporanei di Tocqueville e in Tocqueville stesso. E’ quello dello specifico giudizio, propriamente storico, sulla grande vicenda rivoluzionaria vissuta dalla Francia a partire dall’Ottantanove. Come è noto, Tocqueville, come tanti della sua generazione, non si sottrasse a questo obbligo di resa dei conti. Ma lo fece non tentando l’ennesima narrazione, bensì secondo la sua peculiare visione della histoire-discours, di una storia – diremmo noi – concettuale. E pervenne a un suo giudizio. Questo giudizio ha, a sua volta, due diversi risvolti. Uno, molto noto, che potremmo definire come bilancio storico degli effettivi mutamenti istituzionali recati dal complesso della vicenda rivoluzionaria in Francia. Un secondo, meno noto, che riguarda il significato generale dell’evento rivoluzionario francese in un senso che vorrei definire, metaforicamente, si capisce, quasi hegeliano, o, comunque, piuttosto filosofico.
Dei primi due livelli del grande tema, Tocqueville tratta nella Démocratie en Amerique. Ma, lì, non fa i conti con il problema del giudizio storico sull’Ottantanove. A questo dedicherà, invece, il lavoro successivo, rimasto sostanzialmente incompiuto a causa della malattia e della morte, e di cui apparirà solo il primo volume, col titolo L’Ancien Régime et la Révolution. I materiali e gli appunti raccolti per il secondo volume che però ci sono pervenuti sono tuttavia anch’essi di estremo interesse.
3. L’Ancien régime et la Révolution ha avuto una fortuna assai diversa da quella della Démocratie en Amerique. La prima grande opera tocquevilliana – la Démocratie en Amerique – ebbe immediatamente, almeno per la prima parte edita nel 1835, un successo enorme. La lessero, allora, tutti quelli che contavano, fece parte del patrimonio formativo di una generazione. Da noi la lesse, per esempio, e non inutilmente, Camillo di Cavour. Ma, soprattutto, la Démocratie ha avuto poi una seconda fortuna postuma che, sia pure con vicenda ciclica, ha accompagnato il protagonismo stesso della società che prendeva in esame – la società degli Stati Uniti – nel mondo contemporaneo. Quell’opera è stata un quasi costante luogo di confronto nella travagliata formazione culturale della identità americana.
A partire dall’entre-deux-guerres di questo secolo, poi, si cominciò a leggerla come un monito del tipo «de te fabula narratur» per l’Europa minacciata, e poi aggredita, dalla «mass society»: dal totalitarismo politico, prima, dal conformismo delle abitudini sociali americanizzate, poi.
La si legge, oggi, infine, come un modello di critica della democrazia. Un modello sorprendentemente maturo, perché non anti-democratico e antiliberale, quale fu, invece, la «critica della democrazia» à la George Sorel (che tuttavia era un grande estimatore di Tocqueville) del principio del secolo XX, e che ebbe, come sappiamo, un grande, e devastante successo, a sinistra come a destra . Come si sa, nella Démocratie tocquevilliana vi è, sì, l’angoscioso problema della «tirannia della maggioranza», e l’anticipazione dei rischi della «società di massa», ma vi è anche l’indicazione delle coordinate che possono permettere la conciliazione della democrazia e della libertà.
Il messaggio della Démocratie era, dunque, un messaggio forte, ed è stato per lo più recepito come un messaggio universale. Per queste ragioni, vi è sempre stata una certa continuità fra la lettura generale che ne faceva la media persona colta e la lettura specialistica del sociologo di professione o del filosofo della politica.
Opera storiografica, ma non semplicemente specialistica, anche l’Ancien Régime è libro latore di un messaggio forte e universale dello stesso tipo E’ un messaggio che nasce, del resto, dallo stesso ceppo della Démocratie en Amerique e, in un certo senso, continua la riflessione del primo grande lavoro. Di che messaggio si tratta? Si tratta di un messaggio di critica, in questo caso radicale, della rivoluzione come procedura politica. Tale messaggio è presente anche fra le pieghe di quella che è la tesi più nota e più considerata del libro, la tesi della continuità centralistica della storia di Francia attraverso la rivoluzione, perché questa tesi in fondo, oltre a essere autonomamente e storiograficamente sé stessa, è anche la denuncia di una rivoluzione che non ha innovato. Tocqueville appare come dominato dal convincimento che la vicenda rivoluzionaria francese ricada sotto la dura condizione che aveva posto, per il giudizio su quella vicenda, Madame de Stael fin dal 1818: «il n’y a de vraiment détruit que ce qui est remplacé». Ma la figlia di Necker è un altro dei grandi autori che Tocqueville non cita mai.
Però questo messaggio «universalistico» dell’opera tocquevilliana, per lo più, non è stato riconosciuto. Esso è stato, si potrebbe dire, intercettato e sequestrato dalla storiografia francese a lui successiva. C’è qualcosa di strano in quanto è accaduto, e che rimane ancora da spiegare .
Mi proverò a tentare un abbozzo di spiegazione. L’assestarsi della Terza Repubblica in Francia, dopo il 187O, pareva davvero aver chiuso il vecchio problema che aveva afflitto Tocqueville per tutta la vita (come del resto – l’ho detto prima – tutta la sua generazione): «terminer la Révolution». Tutto quanto accade da quel momento, dalla caduta della Comune di Parigi, anche le situazioni più critiche, avviene in un clima diverso. Si tratta di una nuova fase della storia di Francia: il sangue della Comune di Parigi è stato la cerimonia finale che ha chiuso con il tempo della Francia tocquevilliana, che era «temps de révolutions» (o di cesarismi, speculare prodotto delle rivoluzioni). La missione finalmente concreta che si danno i padri fondatori della Terza Repubblica, sostanzialmente riuscendovi, è proprio quella esplicitamente evocata in un discorso del 1872 da Gambetta, di concludere la Rivoluzione, compiendola (il verbo non è più terminer ma diventa achever). E compiendola come? Compiendola mediante l’avvento di un regime che realizzasse la convivenza di un suffragio universale, con il principio di un governo dai requisiti elitario-capacitari, principio che era stato sostenuto in forme e modalità precarie da Guizot e dai «doctrinaires», e da quanti, da Saint-Simon a Tocqueville, s’erano posti il problema di come fosse possibile colmare, in contesto non più aristocratico, il vuoto funzionale lasciato dalla fine dell’aristocrazia. Questo diventa possibile attraverso un sistema politico – qualcuno l’ha chiamato il «compromesso repubblicano» – che adotta un suffragio universale non utopicamente sovranizzante ma storicamente legittimante. Nel corpus ideale di questa legittimazione repubblicana di una rappresentanza in fondo elitaria ma eletta da – diciamo così – tutti, c’è il mito rivoluzionario.
Ed è quindi in concomitanza con questa nuova realtà di egemonia repubblicana consolidata che un nuovo infaticabile lavoro di ricerca storica si associa alla consacrazione ideologica della Rivoluzione. Apparentemente sembra sanzionata la costituzione di una archeologia della Francia contemporanea, con miti ed eroi individuali e collettivi e battaglie leggendarie: queste, però, sono ormai battaglie in cielo, come fossero dipinte da pittori. La nuova storiografia sembra sorgere, con Alphonse Aulard, come custodia e archivio della nascita della Francia contemporanea: la ricerca, le istituzioni e i mezzi per promuoverlo sono il monumento celebrativo di una vittoria, o, al massimo, le ultime lotte, a stralcio, per sgominare le retroguardie clericali o legittimiste. Se l’opera di Aulard significa la repubblica che venera le proprie origini con l’atteggiamento rigoroso e severo che a queste si deve, anche sul piano della indagine, l’opera di Jaurès sarà qualcosa di più, benché sulla stessa linea: significa l’inserimento della cultura di una forza nuova, quella socialista – una forza più che repubblicana, ma evolutiva e non neo-rivoluzionaria – nel culto delle origini della Francia repubblicana, proprio in quanto origini «rivoluzionarie». Insomma, un gigantesco tentativo di integrazione culturale nel passato storico e del passato storico.
L’aut-aut che pone la Rivoluzione come bloque, un blocco da prendere o lasciare tutto insieme – esigenza politico-culturale che era stata intuita da Thiers molto tempo prima – è un tentativo di sanatoria di eventi ormai distanti, che non echeggiano più dilemmi attuali. Chi conosce un po’ di storia della Francia fra fine Ottocento e primo Novecento sa, però, che non può credere in un assopimento del vécu politique de l’historien. Ma è il vécu di chi ha vinto, ormai, e insegue, con le sue bandiere al vento, il nemico di una guerra passata, o, quanto meno, lo sorveglia e lo tiene a bada. E’ un fatto, comunque, che – in questo clima culturale – non è più lecito dubitare della Rivoluzione. Paradossalmente possono permetterselo solo dei fermissimi nazionalisti, perché, con altre premesse, essi sventolano le stesse bandiere dei loro avversari. Quel che perde ogni spazio, nella cultura ufficiale francese, è la tradizione liberale, perché questa non può assumere la rivoluzione come bloque, ma deve almeno spaccarla in due: le aspirazioni dell’89 e le devianze illiberali – chiamiamole così – del ‘92-93. Ma questa spaccatura è ormai divenuta inammissibile, polically incorrect, appunto.
La rivoluzione di Russia, nel 1917, trova un terreno singolarmente favorevole in questo contesto e una accoglienza del tutto peculiare. Essa rimbalza ruvidamente sulla cultura francese e rimbalza sulla cultura della Rivoluzione in particolare. La rivoluzione achevée si fa in qualche modo legittimatrice di una futura rivoluzione che appartiene a un ciclo storico nuovo, a un secolo nuovo. La popolarità del ’17 russo in Francia si costruirà, infatti, forse , in prevalenza, sì, dentro un movimento sindacale che cresce con lo sviluppo industriale, ma godendo di una singolare permeabilità del popolo e della cultura francese rispetto alla nuova idea rivoluzionaria, che non ha lo stesso background anarchico che, per gran parte, nutrono invece la simpatia per quel mito nella periferia mediterranea dell’Europa, in Italia o in Spagna. In Francia quella simpatia si ricollega con tutta evidenza al culto dell’89-93 inteso come bloque.
Se lo spazio per la tradizione liberale, in questo contesto, si stringe, il vecchio autore dell’Ancien régime diviene addirittura imbarazzante. Lo è in quanto liberale, lo è in quanto anti-centralista, ma soprattutto lo è in quanto critico della rivoluzione come procedura politica.
E vediamo, allora, come si pone il problema Tocqueville in questo quadro per la storiografia francese. Un punto preliminare è che la storiografia della Rivoluzione, dopo l’età di Quinet e di Taine, ha accettato i cardini essenziali del paradigma «positivistico»- per cui la validità di un’opera storica non si misura sulla capacità interpretativa ma sulla ricerca che contiene – ma lo ha utilizzato – surrettiziamente – non per portarsi «au dessus de la melée», bensì per armare, decennio dopo decennio, una posizione politica – quella repubblicana, poi quella socialista, indi quella comunista o filo-comunista – come posizione professionalmente dominante, in regola col paradigma. La produzione «néo-royaliste» e «réactionnaire» si qualifica – e si squalifica – da sola: vive in un ghetto (sia pure con un successo di lettori assai ampio). Ma per combattere le idee politicamente sgradite, quando queste appaiono dotate tuttavia di forza critica, sembra argomento retorico più forte, e più autorevole, il poter dimostrare che chi le sostiene non è in regola col paradigma di scientificità positivistico. Alla discussione critica si sostituisce, allora, il trattamento professionale di laboratorio, la verifica paradigmatica, l’appello ai rigori professionali della disciplina. Esemplare è, in questo senso, l’attacco di Aulard a Taine del 19O8 . Quinet, a sua volta, può addirittura cadere nel dimenticatoio: l’opera è di seconda mano, non usa fonti dirette. E questo, incredibilmente, non solo esime dal giudizio di merito sulle idee e le interpretazioni, ma pretende di sostituirlo.
Tocqueville è un caso a parte. Si forma, per lui, una sorta di immunità, diversamente che per Taine o per Quinet. Perché? Tocqueville non solo ha lavorato negli archivi, ha visto le fonti, ma, in molti casi, le ha indicate agli storici. Per primo George Lefebvre, il maggiore storico della Rivoluzione di questo secolo, ammise di avere appreso da Tocqueville l’esistenza degli stati delle sezioni nel 1791, mentre preparava la sua grande opera del 1924 sui contadini del Nord .
Il giudizio su Tocqueville historien è rimasto canonico per molto tempo: ammirevole equilibrio fra ricerca e sintesi (quindi patente di idoneità professionale, conforme al «paradigma»), da un lato, e un nutrito numero di tesi capaci di tenere il campo, tesi di referenza – si potrebbero chiamare -, le si ritengano giuste o sbagliate, non importa, ma che diventano quasi indispensabili per impostare i problemi. Quella della «continuità» in primo luogo (che, a stretto rigore, non è una scoperta propriamente tocquevilliana: ha già una sua storia precedente), e poi l’altra, della rivoluzione che nasce dalla dinamica in avanti della società e non dalla miseria nonché quella – particolarmente valorizzata da George Lefebvre – della pre-rivoluzione aristocratica che si pone al cominciamento della crisi rivoluzionaria vera e propria. Forse molti condivisero tacitamente, per molto tempo, il giudizio «classista» dello stesso Lefebvre: l’aristocratico era offuscato dai limiti di classe nel capire certe cose. Ma, al tempo stesso, era come se l’essere un aristocratico gli aveva dato una antenna in più per percepire l’importanza della pre-rivoluzione aristocratica.
L’imbarazzo vero della critica storica successiva comincia, invece, dal giudizio tocquevilliano sulla funzione degli «hommes de lettres» nella preparazione della Rivoluzione. Qui comincia il silenzio. E pour cause: perché qui comincia il discorso sull’illusione ideologica del progetto sistemico, politico o sociale, di cui la rivoluzione diviene il mito consequenziario.
Ho parlato prima, a proposito dell’Ancien Régime, di messaggio sequestrato. Questo «messaggio» non è il «testament inachevé» di cui parla François Furet, ma un messaggio politico, che ha forza di filosofema politico: nata da un problema politico l’opera sbocca in un messaggio politico, di filosofia politica. E la ragione stessa del sequestro del messaggio, operato dagli storici della III e della IV repubblica francese, è politica. La ragione del sequestro – del fatto, cioè, che gli storici abbiano trattenuto l’opera nel loro laboratorio per un trattamento analitico, giudicandola analiticamente e ignorando, o rimuovendo, nel senso freudiano della Verdrangung, quel messaggio – non è difficile da realizzare: il libro parla della rivoluzione. Non solo della Rivoluzione francese, ma della rivoluzione come categoria della politica. E come la Démocratie en Amerique conteneva (e contiene) una «teoria critica» dell’eguaglianza democratica, così l’Ancien Régime conteneva (e contiene) una «teoria critica» della rivoluzione. La storiografia della «époque de la recherche scientifique» coltivava, invece, una teoria apologetica della rivoluzione. Poteva prendere in considerazione – per classificarle, schedarle, metterle in uno scaffale – una stroncatura della rivoluzione, come quella di Burke o come quella di Hyppolite Taine. Non poteva discutere una teoria critica che, esprimendo simpatia per la rivoluzione come atto di libertà e di speranza, ne mettesse in dubbio le capacità creative e costruttive proprio come procedura politica, come genere di atto politico giustificabile in una logica mezzo-fini in quanto tale (e non in visioni epocali a eterogenesi dei fini). Come è stato acutamente osservato – da Françoise Mélonio – il rapporto ‘89-93 in Tocqueville è l’inverso che in Guizot, Thiers o Mignet: per costoro l’89 è nella linea maestra, il ‘93 una deviazione. Per Tocqueville è il contrario: è l’89 il momento deviante, generoso ed eroico, e proprio il ‘93, invece, è il momento dal decorso naturale, fin troppo prevedibile.
E’ una differenza essenziale, che rivela una radicale demistificazione del mito rivoluzionario: la grande rivoluzione non è demoniaca, perché, anzi, è l’espressione della più bella e generosa delle passioni, la passione della libertà, ma non è palingenesi, perché non può esserlo, vorrei dire «tecnicamente» perché non è una procedura politica governabile. Tocqueville fa sue riflessioni di De Maistre – un altro alla cui non citata lettura è evidente che egli deve molto – ma le trasforma in argomentazioni, appunto, quasi tecniche, prive di ostilità reazionaria. L’Ottantanove per Tocqueville è espressione di una passione valida e generosa e da questa e solo da questa – come da una forza della natura – può derivare, nel corso della storia successiva, conseguenze fertili, non dalle illusioni «politiche» dei suoi velleitari apprendisti stregoni. Una delle manifestazioni più straordinariamente significative e rivelatrici di questo atteggiamento tocquevilliano è una metafora che si trova in un appunto preparatorio della Démocratie (citato da Lamberti nell’edizione Pleiade di quest’opera). La metafora paragona la Grande Rivoluzione alle acque del Nilo, che inondano la terra d’Egitto di fango, ma la fertilizzano. Il pensiero che sottostà a questa forte immagine merita di essere analizzato. L’immagine evoca la violenza incontrollabile della inondazione, sottolinea il «fango» che essa produce – che gli apologeti evitano di solito di chiamare col suo proprio nome – e sottolinea il miracolo capovolgente della straordinaria forza fertilizzatrice di quell’evento distruttivo e melmoso. Di più: c’è l’idea dei due tempi: il tempo del fango, in cui ancora non cresce nulla, e quello che verrà (e che per Tocqueville non era ancora venuto). Ma c’è ancora dell’altro, in quella straordinaria immagine. Evidentemente per Tocqueville l’89 è un unicum, poiché una metafora siffatta non può significare che ogni inondazione debba ritenersi capace di quelle conseguenze a «modello Nilo», in certo senso eccezionali e portentose. Tocqueville non ne deriva, infatti, una teoria generale della positività «delle» rivoluzioni violente.
In conclusione. L’idea tocquevilliana è, dunque, che l’89 abbia qualcosa di grandioso e di indistruttibile – che cioè nemmeno le sue più esecrabili conseguenze, dal Terrore alla dittatura napoleonica, sono riuscite ad annientare – e che quell’evento sia stato una esplosione di libertà. Era stato solo un «momento», un momento immediatamente tradito, ma di quelli che lasciano il segno. La sua opera storica, del resto, è un po’ la dimostrazione analitica di quel tradimento: i rivoluzionari, invece di distruggere il dispotismo centralista costruito dalla monarchia, e sostituirlo con altro, con una vera creazione di libertà, se ne sono impadroniti per utilizzarlo; la stessa cultura illuministica che li aveva preparati era costruita sulla illusione della onnipotenza, e della utilizzabilità a fin di bene, del centralismo. La piazza stessa di Parigi, strumento essenziale di manovra per i rivoluzionari, e fonte continua di instabilità, è essa stessa una creatura derivata del centralismo monarchico. E’ come se Tocqueville distinguesse così, con singolare originalità, la Rivoluzione – esplosione di un desiderio collettivo di libertà: nel suo linguaggio una «passione» – dai rivoluzionari, genia senza prospettive, politici costretti a servirsi delle armi centralistiche del nemico, incapaci di concludere, obbligati a passare la mano all’usurpatore per il ristabilimento dell’ordine, fatalmente impotenti – insomma – a inverare la passione rivoluzionaria. Ma quel desiderio collettivo è fiamma che non si spenge – la sua stessa forza esplosiva si costituisce in memoria indistruttibile di sé stesso, in mito fecondatore – e per suo conto, ad onta dei rivoluzionari, in forme difficili e combattute, continua a produrre storia, come il fango del Nilo produce le sue messi.