Marco Fincardi
La storiografia dell’ultimo quindicennio ha ridimensionato l’immagine esageratamente insistita, fino all’abuso in sede storiografica, di uno stato italiano senza nazione. I conflitti politici e identitari che hanno travagliato l’Italia liberale hanno declinato in ogni possibile versione politica questo luogo comune, come se tra età romantica ed età positivista fossero mancate in Italia elaborazioni di quella che ha Durkheim definito la religione civile. Una parte consistente di intellettuali italiani del XX secolo, a più riprese, ha ragionato come se il sentirsi parte di una nazione fosse prerogativa esclusiva di élites, senza toccare in modo sostanziale la popolazione, nemmeno nei momenti di entusiastico fermento per la fondazione dello stato unitario, tra 1859 e 1862. Se la concreta attuazione dello stato nazionale ha generato ricorrenti frustrazioni nei più diversi ambienti sociali, ciò non toglie che una dialettica politica nazionale sia stata effettivamente instaurata e che attraverso i canali più diversificati la popolazione italiana si sia mobilitata nella rivendicazione di piccoli o grandi riconoscimenti di un’acquisita cittadinanza moderna. Problema decisivo nella comunicazione dei simboli nazionali è diventato piuttosto il crescente investimento che – a partire dalle grandi cerimonie per il 50° anniversario della proclamazione del Regno – la classe dirigente ha fatto sulla potenza bellica, per la conquista di quarte sponde. La politica di disciplinamento delle classi popolari a partire da un concetto di patria sempre più coincidente con l’immagine di forza militare e di capacità espansiva, viene a cozzare con alcune delle tradizionali culture politiche dell’antagonismo popolare, coinvolgendone invece qualche altra, pur minoritaria, ma soprattutto riuscendo a reclutare larga parte dei movimenti artistici italiani, proiettati con le proprie produzioni d’immagini a cantare e l’organicità della nazione e lo slancio espansivo della potenza nazionale, o addirittura della razza latina. Già dal 1911 cominciano a manifestarsi le voci, sempre più forti, che vanno chiedendo di ridurre al silenzio le Italie indisponibili a compattare la nazione attorno a simboli di conquista. Nel 1943 – ben prima dell’8 settembre – avviene il crollo di questi slanci della classe dirigente e di tutte le idee di nazione fondate per oltre trent’anni sull’espansione nel Mediterraneo. La guerra combattuta tra le case diventa a quel punto un segno di nuovi possibili legami nazionali, ma troppo lacerati e frammentati per essere ricomposti in modo uniforme e coerente, sotto qualsiasi nuova simbologia, mentre i simboli delle diverse nazioni che quella guerra hanno vinto si presentano come i possibili riferimenti di nuove identità collettive, difficili da conciliare con un lineare concetto di nazione. Ma, per tutta la durata della guerra fredda, la divulgazione di valori legati a tali simboli accompagna consistenti mobilitazioni popolari – per lo meno nelle regioni centro-settentrionali dell’Italia – per occupare ruoli sociali e gestire rituali identitari in precedenza prerogativa dei ceti borghesi più conformisti nel legame di sudditanza con la monarchia sabauda e poi col regime fascista.